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Dossier Dio e la guerra
Quando
Dio arma gli eserciti Superare
la teologia della guerra giusta Distorsioni
sull'Islam: la "guerra santa" Il
Dio degli eserciti resti nella Bibbia Il
pacifismo non è una semieresia Gli
eserciti di Dio non fanno guerre Guerra
e pace nell' Ebraismo Ma
Dio non ama la guerra Alcune
immediate considerazioni sulla chiesa e sulla guerra I
cristiani e la guerra
La
contraddizione tra guerra e Cristianesimo
Il
cristiano che non si scopre in contraddizione col Vangelo di pace, o non
si è mai guardato in Colui che— essendo « segno di contraddizione »
— svela i pensieri degli uomini, oppure ama ingannare se stesso. La
misura della nostra elevazione spirituale viene fornita dalla maggiore o
minore consapevolezza delle nostre contraddizioni, la quale ci distoglie
dal sentirci soddisfatti e dal legare lo Spirito al nostro corto passo Non è forse una contraddizione che
dopo venti secoli di Vangelo gli anni di guerra siano più frequenti
degli anni di pace? che
sia tuttora valida la regola pagana: « si vis pacem, para bellum»? che
l'omicida comune sia al bando come assassino, mentre chi, guerreggiando,
stermina genti e città sia in onore come un eroe? che
nel figlio dell'uomo, riscattato a
caro prezzo dal Figlio di Dio, si scorga unicamente e si colpisca senza
pietà il concetto di nemico per motivi di nazione, di razza, di
religione, di classe? che
l'orrore cristiano del sangue fraterno si fermi davanti a una legittima
dichiarazione di guerra da parte di una legittima autorità? che
una guerra possa portare il nome di « giusta » o di « santa », e che
tale nome convenga alla stessa guerra combattuta dall'un campo o dall'altro
per opposte ragioni? Tratto
da Primo Mazzolari, Tu non uccidere, 1955
Quando
Dio arma gli eserciti
Vorrei spendere una parola inutile
contro la guerra che l' Occidente sembra apprestarsi a scatenare contro
il mondo dell'Islam. "Inutile" perché è noto a tutti quanto
gli strumenti della ragione siano deboli contro la potenza dei singoli
che annullano le differenze, infiammano i cuori, dopo avere assopito o
addirittura ottenebrato le menti. La storia umana è uscita dalla
dimensione simbolica solo da due secoli e limitatamente all'Occidente,
che con l'illuminismo ha promosso il primato della ragione e quel suo
corollario che è l'ateismo, essendo Dio il fondamento di ogni
dimensione simbolica.
Tratto da "La Repubblica" 25 settembre 2001
Superare
la teologia della guerra giusta
Per gran
parte della mia vita, certamente gli anni in cui indossavo l’uniforme
di generale dell’esercito, pensavo in modo diametralmente opposto a
quanto ora esporrò. IL COMANDAMENTO DI CRISTO IL MONDO HA BISOGNO DI VERI DISCEPOLI
DI CRISTO LA CHIESA DEI PRIMI SECOLI LA "RESPONSABILITÀ SOCIALE"
DEI PRIMI CRISTIANI "RIVESTITEVI DI CRISTO"
Centro per la nonviolenza cristiana di Baxter (USA), Pasqua 1982
Distorsioni
sull'Islam: la "guerra santa"
Molte idee errate sull’Islam circolano nel mondo occidentale, e coinvolgono pressoche’ tutti gli aspetti della religione. Probabilmente l’ Islam e’ la religione che piu’ distortamente viene percepita da coloro che non la conoscono, a causa di diversi fattori, non ultimo un continuo attacco (peraltro ingiustificato) condotto dai mezzi di comunicazione di massa. Molto spesso, la religione islamica viene associata a fenomeni che con essa non hanno alcun legame e, non di rado, capita di assistere ad episodi in cui essa viene spiegata da persone che non hanno mai letto il Corano, non conoscono la storia e la predicazione di Maometto, e che, tuttavia, ritengono di conoscere tutto sull’Islam perche’ hanno letto l’ultimo articolo sul giornale di moda, o hanno visto l’ultimo film di Tizio, o hanno ascoltato Caio in televisione. Il consiglio che si puo’ dare a chi voglia conoscere effettivamente l’Islam e’ di rivolgersi alle fonti originali, al Corano, soprattutto, ed a testi di scrittori accreditati. Detto cio’, cercheremo di spiegare il punto di vista islamico rispetto ad una delle questioni che maggiormente suscitano equivoci e malintesi, e cioe’ il concetto di jihad islamica, quella che erroneamente viene definita “guerra santa”. Il termine jihad, innanzitutto, non ha tale significato. Esso nella lingua araba, significa piuttosto: sforzo, inteso soprattutto in senso interiore. Nell’accezione piu’ vera e completa, il jihad rappresenta lo sforzo intimo e personale che ogni credente deve compiere per riuscire a conformare il propro comportamento alla volonta’ di Dio. Tutto e’ jihad: prendersi cura di un genitore anziano e’ jihad, crescere I propri figli sforzandosi di educarli ai precetti islamici, resistere con pazienza alle avversita’ ed alle difficolta’, lottare attraverso mezzi leciti per far conoscere la verita’ (di qualsiasi tipo, non solo religiosa), sono tutti esempi di jihad. Accrescere la propria conoscenza della religione attraverso lo studio, la meditazione, l’ascolto, anche questo e’ jihad. Ma il termine jihad, indica anche lo sforzo materiale teso a difendere se’ stessi, la propria famiglia, il proprio paese da attacchi esterni. Dio insegna agli uomini, nel Corano, che la guerra di difesa e’ una guerra lecita, anzi doverosa per ciascuno, uomo o donna che sia. E, comunque, anche nella guerra combattuta per difendersi, il musulmano deve conservare la sua umanita’, ed essere categorico nel non colpire civili, donne, vecchi, bambini, animali, piante. Chiaramente la guerra non e’ l’obiettivo dell’Islam, ne’ rappresenta la normalita’ per I musulmani. Essa e’ piuttosto l’ultima risorsa a cui bisogna giungere nel corso di circostanze straordinarie, dopo che tutti gli altri mezzi di difesa sono falliti. L’Islam e’ la religione della pace; uno dei nomi di Dio e’ Pace; il saluto islamico e’ “as-salamu aleikum”, che significa pace; il Paradiso e’ la casa della pace; l’aggettivo “musulmano” significa pacifico, perche’ sottomesso alla volonta’ di Dio. Pace e’ la natura, il significato, l’emblema e l’obiettivo dell’Islam. In Occidente, invece, si parla di jihad come di una guerra che I musulmani sono spinti a combattere per diffondere l’Islam. Nulla di piu’ errato. Gia’ la storia luminosa e mai segnata da eccessi barbari e sanguinari della nascita dell’ impero islamico testimonia che questa non e’ l’attitudine del musulmano. L’Islam spinge alla diffusione del suo messaggio attraverso l’esempio e la parola e, a detta di tutti gli storici, esso non si e’ mai propagato “sulla punta della spada”. “Non c’e’ costrizione nella religione” (Corano 2:256). Sarebbe assurdo combattere per religione quei popoli che il Corano impone di rispettare e, nel caso di costituzione dello Stato Islamico, di proteggere e di tutelare nei beni, nella persona, nella fede religiosa. “Dialogate con belle maniere con la Gente della Scrittura( Cristiani ed Ebrei), eccetto quelli di loro che sono ingiusti. Dite loro: “Crediamo in quello che e’ stato fatto scendere su di noi ed in quello che e’ stato fatto scendere su di voi, il nostro Dio e il vostro sono lo stesso Dio, ed e’ a Lui che ci sottomettiamo”. (Corano 29:46)
tratto dal sito arabcomint.com
Il
Dio degli eserciti resti nella Bibbia
Non la vita, ma la verità infatti è il più alto valore cristiano, ché altrimenti non si spiegherebbe la somma virtù del Martirio che sostituisce e Battesimo e Penitenza! La carità è il più grande valore cristiano e la prima virtù del cristiano, non la sua caricatura e cioè la filantropia. E verità e carità sono certo l’anima della pace, ma non certo del pacifismo, che porta spesso a sacrificare e pace e verità, a favore di una «avirtuosa» tranquillità puramente naturale! Il Dio degli ebrei e dei cristiani - e noi siamo cristiani, perché Gesù e Maria furono ebrei - è giustamente appellato il «Dio degli Eserciti». Senza l’uso della «giusta e santa violenza», infatti il popolo ebraico non avrebbe potuto prendere possesso della terra promessagli dal Dio nell’Alleanza: sterminando quegli tra gli occupatori di essa che agli ebrei e alla loro occupazione si opponevano con le armi. Senza l’uso legittimo della violenza a Poitiers, a Lepanto, sotto le mura di Vienna, l’Occidente cristiano sarebbe stato travolto dall’Islam teocratico e guerriero: senza l’uso legittimo della violenza, agli uomini guidati dal «Dio degli Eserciti», non sarebbe stata possibile quella «ingerenza umanitaria» che ha difeso i diritti fondamentali dei cattolici e dei musulmani, contro la «pulizia etnica» condotta dai serbo-croati ortodossi in Bosnia-Erzegovina e da essi ancora contro gli albanesi musulmani del Kosovo. È che, come saggiamente notava Jean Guitton, nel mondo cristiano si è da tempo insinuata - forse anche per una cattiva lettura di Molina e di Suarez, per l’oblio di Agostino e anche per l’ingiusta condanna contro i Giansenisti -, una forma larvata di semi-pelagianesimo, basata su un ottimismo puramente terreno e non fondato sulla Grazia, che ci è stata concessa anche a motivo del peccato originale e tramite la crocifissione di Nostro Signor Gesù Cristo e non tramite certo la Sua partecipazione... al banchetto di Caana, cosa che come tramite alla Redenzione molti cattolici, laici ed ecclesiastici, preferirebbero in fondo al dramma del Getzemani e del Golgota! È che nel mondo cristiano, e soprattutto in alcune organizzazioni del cosiddetto volontariato cattolico, si è forse quasi inserita la semieresia del «pacifismo» come valore umano e cristiano preminente, che è cosa ben diversa dalla pace, che è la tranquillità nell’ordine, ma nell’ordine giusto e non in un qualunque ordine, e per stabilire o ristabilire il quale è talvolta necessaria quella guerra che da Agostino a Tommaso, da Molina a Suarez, all’insegnamento costante del magistero della Chiesa, può non solo essere una guerra giusta, ma, come nel caso dell’ingerenza umanitaria e in generale della tutela degli Stati e dei popoli più deboli, addirittura moralmente doverosa. Teniamoci quindi, in fedeltà teologica e letterale all’Antico Testamento, senza il quale non sarebbe stato possibile il Nuovo Testamento, all’appellativo e all’invocazione al Dio degli Eserciti e non indulgiamo a un banale umanesimo naturalista, con aspetti di immanentismo semi-pelagiano chiamandolo, cosa ovvia, ma limitativa, solo e soltanto Dio dell’universo, appellativo e invocazione che è nella mente e nel cuore di ogni cristiano, di ogni ebreo, di ogni musulmano e anche di ogni vero filosofo, ma anche continuiamo ad appellarlo ed invocarlo come «Dio degli Eserciti».
Tratto da "Corriere della Sera" 22 maggio 2002
Il
pacifismo non è una semieresia
Ho letto sul Corriere di
mercoledì 22 la lettera del sen. Cossiga sul «Dio degli Eserciti». La
lettera è rivolta al direttore: ma, pubblicata sul giornale, diventa
indirizzata a tutti, soprattutto - mi consenta - a quanti seguono la...
semieresia del pacifismo. Il sen. Cossiga, per la conoscenza che ha
della dottrina cristiana, ama pontificare dando un tono di infallibilità
alle sue opinioni e condannando come eretici (o... semieretici) quanti
non condividono le sue opinioni.
Tratto da "Corriere della Sera" 25 maggio 2002
Gli
eserciti di Dio non fanno guerre
Sul Corriere del 22
maggio compare un lungo intervento del senatore Francesco Cossiga così
intitolato: «Cossiga: il Dio degli Eserciti resti nella Bibbia».
L’autore, partendo dalla notizia della discussione sulle modifiche
della traduzione di alcuni passi, lamenta, in particolare, il rischio
del mutamento dell’espressione, ricorrente nel testo ebraico della
Bibbia, «Dio degli Eserciti» in «Dio dell’Universo». Senza voler
entrare nella polemica, tutta interna al mondo cattolico, ma pur
condividendo la critica di fondo da lui mossa contro un pacifismo
concettualmente troppo statico, vuoto e verboso, vorrei amichevolmente
far notare al presidente Cossiga che l’espressione originale ebraica Tzevaòth
(singolare: Tzavà ), che segue nella Bibbia il nome di Dio e
che viene di solito tradotta con «eserciti», in realtà non fa
riferimento a eserciti nel senso di insieme di uomini armati e
bellicosi, ma a ben altro genere di eserciti o schiere: quelle angeliche
o celesti, formate, cioè, da esseri spirituali. E quindi, ben lungi dal
richiamare violenza, quell’espressione, accostata a Dio, richiama - al
contrario - l’attributo dell’amore che connota e accompagna la
presenza di Dio nel mondo.
Tratto da "Corriere della sera" 25 maggio 2002
Guerra
e pace nell' Ebraismo
Guerra e pace sono da sempre temi che assillano l’ebraismo. Basta dare un’occhiata alla Bibbia per convincersi che di tanto in tanto ed anche con troppa frequenza siamo stati coinvolti in qualche guerra. lo stesso ingresso del nostro popolo nella Terra di Israele con Giosuè è stato contrassegnato da grandi e continue battaglie. In verità le testimonianze bibliche della storia ebraica vedono come eccezionali i periodi di pace. Spesso la Bibbia ci racconta che la "terra è stata in pace per quarant’anni" (Giudici, 3:11, 5:31) oppure per ottant’anni (3:30) e questi intermezzi tra guerre furono evidentemente degni di essere registrati. Quello che è vero per il popolo ebraico al tempo dei regni, è del resto vero per tutta l’umanità: ovunque la pace è sempre stata una parentesi fra molte guerre. Tuttavia le norme ebraiche relative alla guerra presentano molte restrizioni e riserve. Nella sua opera "Mishnè Torah" nel trattato relativo all’istituto monarchico. Maimonide dedica diversi capitoli alle norme da osservare in guerra e alla guerra stessa. In sostanza Maimonide raccomanda che una guerra deve avere una sua giustificazione morale che però non può essere una giustificazione arbitraria ma deve essere sancita da una decisione del Sinedrio e non demandata alla esclusiva volontà del re; inoltre devono essere prese strettissime misure atte ad assicurare un trattamento umano al nemico anche allo scopo di preservare la stessa umanità e moralità ebraica. Ed ancora secondo Maimonide non si deve muovere guerra contro alcuno al mondo prima che venga fatta un’offerta di pace conformemente a quanto è detto nel Deutoronomio (20:10): "Quando ti avvicinerai ad una città per combattere contro di essa, prima le rivolgerai un appello di pace". Aggiunge Maimonide che quando si cinge una città d’assedio per conquistarla non si dovrà circondarla da tutti o da quattro lati ma solo in tre direzioni, lasciando la possibilità alla popolazione assediata di fuggire e, per chi lo desidera di salvarsi la vita … non si dovranno abbattere gli alberi da frutta nell’area adiacente, né si priverà la popolazione dei flussi d’acqua come è detto "non distruggere alcun albero" (Deuteronomio 20:19) e ciò si applica non solo per un assedio ma in ogni circostanza. Secondo Maimonide il divieto include non solo gli alberi ma non si potranno rompere gli utensili, gli abiti, non si potrà gli edifici, chiudere i pozzi o distruggere il cibo (Hilchòt Melachim 6:7-10). Queste norme, che vanno sotto il nome di "bal tashchìt", vietano appunto le distruzioni indiscriminate gli sprechi di risorse e l’inquinamento esse mostrano l’orientamento delle leggi ebraiche finalizzate ad evitare che la guerra ci svilisca e che quando siamo coinvolti nella violenza perdiamo la nostra umanità infliggendo ad altri forme di brutalità che nemmeno la guerra può giustificare. Altra importante norma ebraica è quella che non bisogna mai godere della sconfitta dei nostri nemici. Nella celebrazione di Pesach quando ricordiamo la vittoria sui crudeli oppressori egiziani, in tutti i nostri canti non vi è una sola parola di gioia per la distruzione del nemico. Al contrario negli ultimi sei giorni della festività recitiamo solo metà Hallel (Salmi, 113-118) perché il Signore disse agli angeli: "… Le mie creature stanno annegando nel Mar Rosso e voi intonate canti di lode?" Gli egiziani ci perseguitarono, essi furono nemici mortali eppure anche le loro vite erano preziose vite umane. Per quanto odioso sia un nemico, non si ha mai il diritto di gioire per la sua caduta. "Non gioire quando il tuo nemico cade" (Proverbi, 24:17). Per la stessa ragione quando nel Seder di Pesach enumeriamo le dieci piaghe inflitte agli egiziani, versiamo una goccia di vino fuori dai nostri bicchieri per mitigare la nostra allegria con la triste constatazione che la nostra liberazione è costata la sofferenza da altri esseri umani. Il nostro bicchiere di felicità non può essere stracolmo, se la nostra libertà ha comportato una tragedia per altri, siano essi pure nostri acerrimi nemici. Quindi la guerra non è mai stata vista come prima o desiderabile soluzione ai conflitti umani. A David, re di Israele, Dio non consentì la costruzione del Tempio, rimandata al figlio Salomone: "… Tu non costruirai il Mio Tempio, una Casa per il Mio Nome poiché tu sei un uomo di guerra e hai sparso sangue…" (Cronache, 22:8; 28:3). Le guerre condotte da David furono certo guerre giuste ma per quanto giusta sia una guerra chiunque vi sia rimasto coinvolto non è qualificato per costruire un tempio a Dio, poiché il Tempio è simbolo di pace. La pace è il supremo ideale ebraico: nella visione profetica il centro focale di tutte le nostre speranze messianiche risiede nella pace universale. In ebraico si dice "shalom". La parola si rifà alla radice "shalem" che dà l’idea di completezza e di interezza. Non vi è completezza in n mondo lacerato dalla guerra e dall’intolleranza. Per la pace, dicono i Maestri (Trattato Derech Eretz Zutà cap. 9) si può anche mentire e secondo Rabban Shimon ben Gamliel, il mondo si regge su tre cose: la verità, il giudizio e la pace (Trattato di Avòt, 1:18). La verità e il giudizio sono i requisiti essenziali e la più sicura salvaguardia per il mantenimento della pace. La massima sopraccitata di Rabban Shimon ben Gamliel viene così commentata nel talmud: "…Le tre cose in realtà sono una sola: se il giudizio è eseguito, la verità è rivendicata e ne risulta la pace…". Nessuna benedizione può essere tale se non vi è la pace che la completi e la attui pienamente. Nella tradizione ebraica dunque la pace è un punto centrale dell’esistenza umana; ogno sforzo deve essere teso al suo raggiungimento, nulla va tralasciato per scongiurare la guerra. La guerra è il male più grande che può toccare l’uomo perché lo sminuisce e lo disumanizza, cancellando la sua componente divina. Ogni ebreo al termine della Amidà, parte principale delle tre preghiere quotidiane, recita la formula: "… Concedi una pace buona su di noi…". La pace non è tale se solamente tacciono i cannoni, perché sia completa dovrà essere buona. Se tacciono i cannoni è già un gran successo, ma è solo il punto di partenza verso la buona pace, che sarà prima di tutto rispetto per ogni persona. Sempre presente dunque è nella mente dell’ebreo il concetto di pace come bene supremo, dono di Dio, emanazione diretta dell’Eterno tanto che la parola "shalom" pace è divenuta il saluto abituale dell’ebreo quale espressione di buon augurio, conformemente a quella massima rabbinica che cita: "… Sii tu il primo a porgere lo shalom a qualsiasi persona… " (Trattato di Avòt, 4:15).
Tratto dal sito Morashà
Ma
Dio non ama la guerra
Le guerre che si combattono tra persone singole e tra Stati si riconducono facilmente al potere e a quel bisogno di dominio che l’uomo avverte e che lo induce ad aggredire un nemico perché ha mostrato di essere pericoloso o lo potrebbe diventare. Le guerre di religione trovano fondamento invece nel bisogno di difendere il proprio Dio, o la verità ritenuta fondamentale per interpretare il mondo e catalogare la stessa convivenza su questa terra. Si tratta di guerre combattute con tecniche che non si differenziano affatto dalle guerre "civili" (meglio sarebbe chiamarle incivili), e che coinvolgono addirittura gli "Dei". I contrasti tra diverse forme di "credo" sono state la ragione del contendere di molte guerre che hanno insanguinato e divelto corpi, in nome di un’idea o addirittura dell’anima. Le crociate ne rappresentano l’esempio più insigne (oltre che tra i più controversi). Comunque, si tratta di guerre ancor più folli, che non possono essere taciute in un percorso che si voglia occupare delle "follie del mondo". Se la guerra civile può essere vista come l’estensione ad un intero popolo di una lotta, e della sua dinamica, tra individui, e quindi come l’allargamento della percezione del nemico dal singolo ad un’intera popolazione, similmente si può leggere la guerra di religione, detta talora anche "santa" (meglio sarebbe il termine dannata), come l’estensione su larga scala della lotta contro l’eretico. L’eretico che ha scelto una strada diversa da quella indicata viene invitato a rientrare nella fede pena l’espulsione o la condanna, che può giungere all’uccisione, come per un traditore. Nel caso di un intero popolo, lo si attacca per una eliminazione globale, oppure per una vittoria che contempli la rinuncia al "credo" per cui aveva combattuto e perso. E vittoria significa imporre un cambiamento di convinzioni. Talvolta si tratta di adesioni puramente formali, come nel fenomeno dei "conversi" che ha caratterizzato la lotta dei cristiani contro gli ebrei: vinti abiuravano alla propria legge e si convertivano, ma poi nascostamente continuavano a professare la religione originaria come se la guerra non avesse dato esito sostanziale. Sovente le guerre di religione sono condotte dall’autorità religiosa appunto oppure vengono affidate al braccio secolare e quindi agli addetti laici, che non sono dei mercenari non avendo come scopo solo il compenso in denaro e in diritto di saccheggio, ma vi partecipano in qualità di credenti. Una diversità consistente riguarda poi il nemico, identificato nel Male che si proietta non solo su questa terra, ma anche nel cielo. Nemici, e al contempo "indemoniati". Insomma in un caso, la guerra civile, è sempre il potere concreto a dominare, in quella religiosa c’è la fede e semmai il vantaggio temporale che ne è l’effetto. È la verità insomma a entrare in guerra e si combattono guerre della verità. In uno schematismo rigido potremmo riportare le guerre "civili" nell’ambito del potere, quelle "sante" nella sfera della verità. "Verità" è un termine continuamente usato, caposaldo di culture tra loro anche antitetiche. Un termine pieno di fascino e, poiché lo abbiamo incontrato nelle guerre, pieno anche di pericolo e di dramma. Quid est veritas? Ma soprattutto che cosa è essa nel tempo presente, un tempo che ha visto e vede la conoscenza scientifica aggiungersi fortemente a conoscenze raggiunte senza una metodologia capace di universalizzare le conclusioni. La verità che riguarda una religione, la religione vera, è una verità di fede che non si contrappone necessariamente a quella scientifica, ma certo ha un contenuto che si lega alla esperienza ineffabile e singola dell’incontro di ciascun credente con il proprio Dio. Un’esperienza che trasmette una convinzione incrollabile sul piano personale anche se non si regge, o è possibile non si regga, su quello della ragione e della scienza. Esistono credenti di fede così marmorea, da trovare incredibile la domanda di dimostrare il proprio credo. E questo proprio perché l’esperienza è il perno sostanziale del loro credere, pur se non può articolarsi in un sistema logico-razionale. Se è così, e se dunque la verità che entra in guerra coincide con il significato dato alla parola fede, non può essere vinta da un’azione sostenuta da cannoni e nemmeno dalle bombe "intelligenti" della contemporaneità. La parola verità qui sta per "ciò in cui credo". E io non posso pretendere che altri la recepiscano se non attraverso l’esperienza, quell’incontro ineffabile che lega un uomo a Dio. Un incontro in cui Dio da concetto si fa esperienza, da immagine si fa per usare il linguaggio della cristianità uomo, carne. hi non crede e fa parte di una cultura o di una tradizione cristiana, cerca o attende un evento in cui il bisogno di un Dio deve diventare percezione, vissuto, presenza. Non diversamente da quell’esperienza mistica per cui gli eremiti hanno parlato di incontro, di visita, di realtà concreta. Un Dio sceso sulla terra. Insomma, se il termine verità è giustificato, va inteso in maniera e con un significato distinto da quello della scienza: si tratta di una verità sentita personalmente o dal "gruppo" di coloro a cui Dio si è rivelato. È una verità di fede, è un credere in colui che si è svelato. Se così è, pur con tutte le approssimazioni concesse, come si può combattere in nome di una verità religiosa? Come pretendere che una guerra porti chi ha un’esperienza diversa dentro la propria, che rimane sempre ineffabile all’altro? E come è possibile se uno crede in un incontro misterioso e speciale col Signore Iddio, pretendere che sia un uomo, e non Dio, a operare, a convincere circa il "credo" e addirittura imporlo? Non esiste alcun strumento che possa sostituire l’esperienza di fede che chiama in causa Dio. Se non fosse così, il credere sarebbe questione di ragione o di volontà e non vi entrerebbe Dio, il dono che rende credenti, sia pure su una disponibilità dell’uomo. Appare veramente folle pensare che la guerra sia una sorta di incipit ad una conversione. Insomma, la guerra per far credere e per convertire al credere è una follia da tutti i punti di vista attraverso i quali si tenti di analizzarla. Capisco un Dio che si "adira" con i propri credenti e magari demolisce un tempio, ma non posso comprendere un Dio che si arrabbia con i non credenti o i diversamente credenti. Parlo da non credente e mi pare impossibile che qualcuno mi voglia ridurre con la forza a credere. Forse potrebbe carpirmi un assenso, ma mai impormi una fede. Io credo nell’apostolato, nell’esempio offerto. E se l’apostolo mostra che in nome di quel credo egli opera sulla terra in maniera significativa, se è un uomo speciale, mi attira e mi fa conoscere la forza del Dio che lo guida. Ma si tratterà di un comportamento di pace, soprattutto oggi che domina l’odio e la violenza dappertutto. Insomma, se riesco a legare le opere di un apostolo a quel credo, finirò persino per invidiare la sua fede, ma ciò tuttavia non basta per credere. Pascal affermava che non basta voler credere per credere e io aggiungo che non basta nemmeno invidiare la fede per credere. Deve potersi aggiungere quell’incontro che, essendo a due, presuppone che Dio si manifesti a me personalmente. Un’azione non solo misteriosa poiché si fa esperienza, si fa cronaca. È questa la storia, incredibile per chi non crede, di un Dio che interviene ad personam, che conosce quel tale non credente e lo avvicina, gli fa dono di un’esperienza che lo trasforma come per una metamorfosi in un credente forte. he questo delicato percorso esperienziale venga fatto attraverso l’odio del credente nei confronti di un credente d’altro, o di un popolo fedele contro un popolo infedele (o diversamente fedele), è pura follia. Comprendo perfettamente quanto mi dicono i miei amici credenti e apostoli, che spetta a Dio compiere il dono e a loro tocca testimoniarlo, ma la testimonianza non è sufficiente: seppur sia quasi tutto, è nulla senza di Lui. Che senso avrebbe una violenza su di me o su un popolo fatto di tanti come me? Lo so, nell’ambito delle competenze religiose e nella dottrina c’è risposta a questi quesiti e chissà da quanto tempo, ma il problema è storico e riguarda il diritto del non credente di porre le sue questioni e di farlo oggi con l’ansia del tempo e la cornice del presente. E i credenti devono ascoltare le questioni magari mal poste, non correggere le domande per codificarle anticipandole a risposte già date. In questo contesto la guerra tra due credenti di religione differente e tra due popoli che credono in un Dio diverso, appare semplicemente stolta. È tempo semmai che i credenti mostrino la pace, il proprio Dio della pace, poiché io mai crederò in un Dio della guerra e se mi si presentasse gli chiuderei la porta in faccia. Quando penso alla guerra nei luoghi in cui è nato e vissuto il Cristo, alla guerra tra musulmani e ebrei, non vedo certo la figura di Dio né la sua sapienza, ma l’uomo rivestito di arroganza e di miseria. Una guerra che è, tra l’altro, contro Dio, poiché un Dio in guerra è privo di fascino e dunque non attrae. Anzi semmai spaventa.
Tratto da "Avvenire" 21 maggio 2002
Alcune
immediate considerazioni sulla chiesa e sulla guerra
- Premessa. Prima di esaminare l'atteggiamento seguito dalle gerarchie ecclesiastiche cattoliche dinanzi al recente conflitto del Golfo, è opportuno ricordare come nell'occasione i più insistenti richiami guerrafondai siano stati lanciati dall'interno dello schieramento laico (con particolare insistenza dai repubblicani, ma pure molti socialisti hanno elegantemente calpestato le tradizioni storiche del loro partito, per non parlare dei liberali). Sull'altro fronte, i lettori avranno notato -in alcuni quotidiani della seconda metà di gennaio- le fotografie dei dirigenti del Pci in Piazza S.Pietro, con mogli e figlioletti, in attesa delle dichiarazioni pacifiste del Pontefice, al quale venne in tale occasione riconosciuto un ruolo di orientatore delle coscienze, ancorché laiche. Si è osservato che solo la proverbiale ed indisponente rudezza abbia impedito a Wojtyla, in questo drammatico inizio d'anno, di occupare in una pacifica guerra-lampo i territori della svenduta cultura laica. Tuttavia... non è tutto oro quel che riluce, e -nei limiti di un intervento circoscritto entro il respiro di poche cartelle- proviamo a sollevare alcuni spunti critici sulla posizione vaticana, a partire dai caratteri di un pacifismo cattolico più vantato che reale ed in ogni caso supportato da particolari strategie contingenti. -Sacre Scritture pacifiste? Se abbondano i volumi ed i contributi dedicati alla valorizzazione delle potenzialità pacifiste insite nel messaggio cristiano, sono assolutamente carenti studi che ricordino invece le pesantissime responsabilità storiche dei cattolici nella giustificazione divina della guerra e che pongano in discussione le stesse premesse teologiche "pacifiste" dei sacri testi. Le sante scritture vengono insomma citate a senso unico: grande successo è arriso ad es. al passo di Isaia nel quale il profeta afferma "Dobbiamo trasformare la spada in aratro e le lance in falci", mentre non ricordo di aver mai sentito spiegare quell'altra dichiarazione di Gioele, che rivolse al prossimo un invito di tutt'altro genere "Fabbricate spade con le vostre zappe e lance con le vostre falci". Il fatto si è che nell'Antico Testamento è possibile trovare, a seconda dei gusti, tutto... ed il contrario di tutto. Per secoli la cattolicità vanto' le virtù guerriere del Dio degli Eserciti ed interpreto' -in un parallelismo denso di significati- l'apostolato religioso come una milizia, collegandolo apertamente alla missione del soldato. Si assegnarono finanche santi patroni alle diverse armi: basti pensare che le camicie nere della MVSN fascista ebbero come protettore S.Michele Arcangelo (e durante il ventennio nero altolocati monsignori pubblicarono discorsi nei quali, per l'appunto, l'alato messaggero venne additato come il precursore... di Mussolini, avendo a suo tempo riportato l'ordine tra le ribelli schiere celesti). Ecco, insomma, che gli odierni pacifisti cattolici incorrono, certamente in buona fede, nell'errore simmetrico dei reietti guerrafondai cattolici di ieri: interpretare scritture e simboli a seconda delle proprie aspirazioni, attribuendo un substrato teologico a valutazioni assolutamente terrene e contingenti. Senonché, precisato che nemmeno nei Padri della Chiesa è possibile -a meno di voler agire con i criteri di cui si è detto- ravvisare questa pretesa opposizione alla guerra e tantomeno una dottrina od un criterio di comportamento in proposito (si rimanda la bel volume di A.Morisi, La guerra nel pensiero cristiano dalle origini alle Crociate, edito da Sansoni nel 1963), è altro il criterio cui uniformarsi per valutare le posizioni di volta in volta assunte dal Vaticano di fronte al fenomeno bellico. - Comandamenti divini o umane necessità? Nel 1940 lo statunitense Sidney Hook sintetizzò felicemente il criterio interpretativo utile a decodificare il magistero pontificio in linea generale e, nella fattispecie, in materia di guerra: "in ogni situazione drammatica è possibile predire il comportamento della Chiesa cattolica con una certa sicurezza sulla base di una valutazione dei suoi interessi concreti in quanto organizzazione politica, più che sulla base di ciò che stabiliscono i suoi dogmi eterni". Per trovare conferma di quest'asserzione, tanto ovvia quanto dimenticata, prendiamo ad es. quel concetto di "non intervento" tanto richiamato a proposito del Golfo. E limitiamoci a verificare se i pontefici l'abbiano davvero seguito allorquando la sua attuazione non tornava a loro comodo (come durante la fase risorgimentale). Non ci riferiamo allo slancio giovanilista del neo-eletto ed inesperto Pio IX, che diede mandato al gen. Durando di marciare contro gli austriaci (ed il comandante delle truppe pontificie rivolse alle sue schiere, il 5 aprile 1848, un proclama nel quale il neoguelfismo rinverdiva i fasti delle crociate e dichiarava la guerra santa). Si prenda piuttosto l'allocuzione dallo stesso Papa rivolta il 28 settembre 1860 al Concistoro, della quale riproduciamo il significativo esordio: "Non possiamo astenerCi dal deplorare, oltre agli altri, quel funesto e pernicioso principio, che chiamano di 'Non intervento', da certi Governi poco tempo fa, tollerandolo gli altri, proclamato ed usato ancora quando si tratti dell'ingiusta aggressione di qualche Governo contro un altro: cotalché par che si voglia onestare, contra le umane e divine leggi, una tal come impunità e licenza di assalire e manomettere gli altrui diritti, le proprietà e i dominii stessi, conforme vediamo accadere in questa età luttuosa". E non si trattava di un momentaneo soprassalto cagionato dal compiersi dell'unità nazionale italiana, considerato che la 62° proposizione del Sillabo condanno' quattro anni più tardi la convinzione di quanti ritenevano dovesse "proclamarsi e osservarsi il principio del così detto non-intervento". Evidentemente, le preoccupazioni di natura temporale spinsero Pio IX ad interpretare le volontà divine pro domo sua. Del resto, le radici della concezione di "guerra giusta" affondano nella prassi e nella dottrina cattolica, e solamente a Novecento inoltrato i pontefici invertirono -non senza stridenti contraddizioni e ritorni nel solco precedentemente tracciato- la rotta, resisi dolorosamente conto del fatto che oramai la guerra non veniva condotta contro infedeli, pagani od eretici, ma dilaniava le nazioni cristiane ed indeboliva in forma preoccupante il centro della cristianità. I primi segnali di questa "ragionevole" tendenza sono contenuti nell'esortazione del 2 agosto 1914, indirizzata da Pio X "a tutti i cattolici del mondo". Emblematicamente, l'accorato ammonimento del Papa culminava in una preoccupazione per il triste destino incombente sul proprio gregge: "non possiamo non preoccuparCi anche Noi e non sentirCi straziare l'animo dal più acerbo dolore per la salute e per la vita di tanti cittadini e di tanti popoli, che ci stanno sommamente a cuore". Fu il tragico destino dei popoli dell'Occidente cristiano l'un contro l'altro armati ad indurre Benedetto XV alla protesta contro una strage che davvero appariva "inutile" (come se vi fossero stragi utili). Magistrale si rivelo', nella tarda estate 1918, la brusca riconversione della politica vaticana dalle precedenti simpatie austriache verso i lidi delle potenze vincitrici (Francia in primis). Ciò nondimeno, le drammatiche invocazioni alla pace lanciate da Benedetto XV mantengono ancor oggi un richiamo ed un significato, anche se si deve situarle in quel precipuo contesto politico-diplomatico-religioso, evitando di assolutizzarle e di leggerle alla stregua di un punto di non ritorno, ovvero di una naturale ed incontrovertibile posizione propria di tutta la Chiesa e destinata a svilupparsi linearmente. Del resto, già nella grande guerra fiorirono svariati esempi della "doppiezza" vaticana, che -mentre si muoveva per favorire un'intesa tra le nazioni belligeranti- lascio' aperto il campo all'opera dichiaratamente guerrafondaia di una parte delle gerarchie ecclesiastiche, mossesi in totale sintonia con gli interessi delle rispettive borghesie nazionali. In Italia è noto il caso di p. Agostino Gemelli, consulente dello Stato Maggiore delle Forze Armate, ma meriterebbe maggiore attenzione - all'interno di una visione complessiva- il ruolo giocato dagli Ordini Militari e dal clero castrense (vedi come Karl Kraus -nel dramma Gli ultimi giorni dell'umanità, ed. it. pp. 221/222- mette in scena mons. Allmer, Provicario militare dell'esercito austriaco e Prelato pontificio). Se dalle guerre "nazionali" passiamo a quelle coloniali, si evidenzia con maggiore nettezza il quadro di un disinvolto opportunismo, basato su freddi calcoli empirici: Pio XI ricorse a veri equilibrismi per dribblare la condanna della Società delle Nazioni e non deprecare a sua volta la guerra di aggressione portata dall'Italia fascista all'Abissinia. Troppo spazio richiederebbe citare i brani dell'allocuzione del 27 agosto 1935 al Congresso delle infermiere, vero esempio di "pilatismo" -se non di dotta ipocrisia- e sostanziale autorevole giustificazione della campagna mussoliniana. Pio XII non ebbe invece soverchie attenzioni diplomatiche nell'assumere posizione rispetto alla guerra civile spagnola: il suo appoggio ai ribelli franchisti fu sempre leale, convinto e senza riserve, al punto di ergersi a ideologo della vittoria legionaria (nel telegramma a Franco del 1 aprile 1939 e nel Radiomessaggio del 6 aprile 1939). In questo secondo documento il Pontefice ascrisse alla Divina Provvidenza il successo delle armi fasciste e così spiego' il significato di quella terribile guerra: "La Nazione eletta da Dio come principale istrumento della evangelizzazione del nuovo Mondo e come baluardo inespugnabile della fede cattolica ha testé dato ai proseliti dell'ateismo materialista del nostro secolo la più elevata prova che al di sopra di ogni cosa stanno i valori eterni della religione e dello spirito". Una chiave di lettura tutta "teologica", dunque, che cancellava le spiegazioni civili e giustificava le efferatezze dei soldati di Cristo (responsabili, tra l'altro, dell'uccisione di centinaia di religiosi baschi: la S.Sede si limitò nell'occasione ad inoltrare -tramite canali segreti- proteste formali). Sulla posizione assunta dal medesimo Papa nella seconda guerra, il discorso si fa davvero complesso. Ernesto Bonaiuti seguì passo passo l'atteggiamento della Santa Sede verso il conflitto e concluse sconfortato che Pio XII e la curia romana mancarono assolutamente di spirito profetico, appiattendosi su una diplomazia priva di reale efficacia. Buonaiuti non imputo' queste carenze alla personalità del Pontefice, ma le inserì in un più vasto orizzonte: "a riguardare nel suo complesso l'azione politica internazionale di questo Papa, si ha la netta impressione che le sue deficienze, la mancanza assoluta di qualsiasi corrispondenza tra la sua parola, il suo gesto, i suoi enunciati e la bruciante realtà circostante non siano affatto imputabili all'individuo, ma unicamente a quel complesso di idee e di valori che, ormai ufficiale dell'ortodossia cattolica, risulta essere un'arida e tradigrava sopravvivenza di situazioni ideali, culturali e religiose nettamente superate dal cammino dei tempi e delle esperienze collettive" (E. Buonaiuti, Pio XII, Ed. Riuniti, 1965, p. 252). Sul silenzio del Pontefice per la sorte di milioni di ebrei uccisi nei lager nazisti molto si è discusso e scritto negli anni Sessanta (il servilismo dei governi di centro sinistra impedì di rappresentare in Italia il dramma Il Vicario, di Rodolf Hochhuth, che poneva il dilemma morale se fosse lecito assistere al male senza fare tutto quanto è in proprio potere per impedirlo). Se il Vaticano non appoggio' esplicitamente l'invasione dell'URSS, ciò fu dovuto non tanto alla sua freddezza verso la "crociata" antibolscevica, quanto ai dubbi... sui crociati (i quali, comunque, vennero entusiasticamente sostenuti da larghissima parte del clero italiano). In merito al comportamento di Papa Pacelli si rimanda alle note di Salvemini, che rivelo' puntigliosamente le udienze concesse da Pio XII a schiere di soldati dell'Asse, avvalorando l'impressione di suggellare con le sue benedizioni la marcia delle armate nazifasciste: "quando parlava alla radio a tutto il mondo, Pio XII pregava per la pace ed esortava alla pace. Quando parlava a soldati tedeschi e italiani ammirava l'eroismo dei combattenti. Visto e considerato che soldati francesi, inglesi e americani non potevano andare a Roma a farsi benedire, Pio XII avrebbe fatto meglio ad astenersi da quelle benedizioni e da quei discorsi a soldati che si battevano agli ordini di Mussolini e di Hitler " (cfr. G.Salvemini, Stato e Chiesa in Italia, Feltrinelli, 1969, pp.415). - Guerra e pace nel secondo dopoguerra La svolta rispetto alle tematiche della guerra si ebbe con il Concilio Vaticano II e con l'enciclica Pacem in terris (11 aprile 1965). In quel documento -e nella successiva Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo- si sostenne l'assurdità della guerra nucleare e si auspico' l'attuazione di un processo di disarmo "non unilaterale". Tuttavia, di nuovo, ecco il segno della "doppiezza" vaticana: contestualmente alla presa di distanza dal fenomeno bellico si rilancio' la presenza dei ministri di culto negli eserciti col Decreto conciliare Christus Dominus, nel quale si suggerì che in ogni nazione venisse eretto un Vicariato Castrense, per segnare la presenza istituzionale della Chiesa nel mondo militare (in molti Stati i dignitari ecclesiastici ottennero l'equiparazione ai gradi militari). Troppo nota -ma sempre meritevole di considerazione- è la polemica del 1965 tra don Milani ed i Cappellani militari toscani per trattarne in questa sede. E veniamo, finalmente, alla posizione assunta dalla Chiesa sulla guerra nel Golfo. Premesso che anche in questa occasione riteniamo doversi ricercare le ragioni dell'opzione di Giovanni Paolo II nella difesa degli interessi contingenti della cristianità, cerchiamo per l'appunto di precisare i punti fondamentali perseguiti dalla diplomazia vaticana. Vediamo innanzitutto di tracciare le principali preoccupazioni connesse con la guerra del Golfo: l'ansietà per la sorte delle comunità cristiane all'interno del mondo arabo (espressesi concordemente contro l'intervento militare in Kuwait), il timore che i mussulmani potessero interpretare l'intervento occidentale come una crociata cattolica (con le immaginabili conseguenze ai danni delle minoranze religiose), la sensibilità per la questione palestinese (congiunta a residuali sentimenti antiebraici), la volontà di regolare con un assetto stabile la situazione del Libano e di garantire la sicurezza della locale comunità maronita. Rispetto a queste esigenze, dunque, si comprenderà come l'intervento multinazionale fosse del tutto incoerente e controproducente. Da qui la condanna di questa guerra, espressa con fermezza dalle colonne de "L'Osservatore Romano". Il quotidiano vaticano invoco' per il Medio Oriente "quella pace giusta e duratura che è dono prezioso di Dio ed aspirazione profonda del cuore umano", come riporta la titolazione di prima pagina del 28 febbraio (ma, a significare la premurosa attenzione alle vicende nazionali ed ai sentimenti popolari, una fotografia affiancata al suddetto titolo mostrava il Papa a colloquio con i familiari dei due piloti italiani catturati dagli irakeni, sui quali tante ondate di commiserazione vennero montate dai mass media italiani). Sul numero del 2 marzo de "L'Osservatore Romano" venne riprodotto il testo del discorso rivolto da Wojtyla al Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, occasione nella quale l'oratore si espresse sui riflessi bellici degli strumenti informativi, lamentando il mancato rispetto della verità ed individuando nella informazione distorta una fonte di ingiustizia. Oltre a mettere sotto accusa agenzie giornalistiche e radiotelevisive per il compiacimento bellicistico, il Pontefice intese probabilmente mostrare il disappunto per le polemiche sollevate dal suo pacifismo, polemiche aspre che in qualche misura lo indussero a rettificare il tiro ed a precisare - domenica 17 febbraio, durante una visita nella parrocchia romana di S.Dorotea- la sua posizione "Noi non siamo pacifisti. Non vogliamo la pace ad ogni costo. Pace giusta, pace e giustizia. La pace è sempre opera della giustizia. Ma è anche frutto della carità, dell'amore". Tale precisazione (della quale, valutata la genericità della seconda parte, le fonti informative enfatizzarono il riferimento al rifiuto del pacifismo come ideologia) non poteva non restituire al governo, alla DC e finanche ai partiti laici testé sbilanciatisi in una polemica antipapalina che riecheggiava il peggior anticlericalismo d'altri tempi, una nuova apertura di credito ed una possibilità di recupero. Come puntualmente avvenne. All'intervento di Wojtyla fece corona la dichiarazione del Rettore della Pontificia Università lateranense (mons. Pietro Rossano, Vescovo vicario di Roma), che dai microfoni di "Radio Vaticana" getto' un secchio d'acqua fredda sui fervori di quei pacifisti laici che per qualche settimana si erano sentiti in trincea fianco a fianco con Wojtyla: "Chi professa un pacifismo a oltranza senza proporre soluzioni operative non è più vicino alla pace di quanti giudicano inevitabile la guerra nel Golfo". Ecco serviti di tutto punto gli improvvisati catecumeni del PCI ed anche personaggi solitamente ponderati come Giampaolo Pansa, che dalle colonne de "L'Espresso" era uscito con un'inopinata dichiarazione di fedeltà al Pontefice: " Sì, di fronte allo schifo della guerra, mi onoro di essere un papista al seguito di Wojtyla". A chiarire ulteriormente le posizioni intervenne la festa per l'anniversario dei Patti lateranensi e della loro revisione del 1984, svoltasi alla presenza di Cossiga nell'ambasciata d'Italia in Vaticano. La celebrazione divenne l'occasione per tessere le lodi del "provvidenziale" Concordato e per decantare le ragioni della politica (nella fattispecie, della partecipazione italiana all'azione di "polizia internazionale", per usare l'eufemismo che solo un cattolico del calibro di Andreotti avrebbe potuto coniare) per bocca del Segretario di Stato mons. Sodano. Immediato l'ossequio dei chierichetti del settimanale "Il Sabato", che sul numero del 2 marzo titolarono "Trattato benedetto" un articolo ostentatamente papalino, nel quale, oltre a vantare le solide garanzie offerte dal Trattato mussolinian- craxiano alla missione del Pontefice- non esitarono a polemizzare con la parte maggioritaria della DC, per i toni dissonanti rispetto alle posizioni di Wojtyla. E la lettura del settimanale ciellino lascia l'impressione che, al di là della guerra nel Golfo, l'oggetto del contendere fosse ben altro, e cioè il dogma dell'obbedienza perinde ac cadaver al verbo del discendente di Pietro. A questo punto, proviamo a trarre alcune provvisorie conclusioni. L'idillio tra pacifisti laici (PCI, Verdi, DP ecc.) e il Papa è durato poco, e probabilmente le integralistiche bordate scagliate da Giovanni Paolo II verso la metà di marzo contro le degenerazioni morali delle popolazioni emiliane e toscane segneranno una presa di distanza dal Pontefice, le cui posizioni sulla guerra -come si è visto, rettificate- rispondevano, almeno in parte, ad esigenze, sia pur nobili, di parrocchia. Nel senso, precisiamo, di intervenire con nettezza laddove sono in gioco gli interessi della cristianità, mentre in altre circostanze si dimostra minore sensibilità: quando, pochi anni or sono, erano le ineffabili milizie maronite (le ricordate? con le decalcomanie di Cristo sui fucili mitragliatori) ad imperversare, la S.Sede non parve preoccuparsi degli "infedeli" che venivano a trovarsi sulla traiettoria di quelle pallottole benedette. Ora che in Libano le formazioni armate cristiane si trovano a malpartito, Wojtyla chiede a gran voce una risoluzione stabile per il Medio Oriente. Richiesta più che legittima, ed in buona parte condivisibile, peraltro. Ma non si contrabbandi per missione universale quella che ci pare piuttosto duttile, empirica e finanche opportunistica attenzione ad interessi particolari. E soprattutto, in quello che resta a sinistra dello scomposto fronte laico, non ci si faccia ottenebrare dalla voluttà di trovarsi finalmente dalla parte... dei fedeli, incorrendo in un macroscopico errore di prospettiva. Al di là di momentanee ed occasionali intese, il rispettivo percorso diverge, a meno che noi non si voglia accettare la reductio ad unum e ritornare all'ovile. Ma, per piacere, non si mascheri questo sotto le spoglie di una ritrovata visione pacifista. Per non ritrovarci magari, un domani, nel gregge ad applaudire nuove guerre sante... indette nel nome della Cristianità.
I
cristiani e la guerra
In un tempo di grande stanchezza per la nostra chiesa e anche per la società, siamo chiamati a vivere il tema della fede come resistenza e della resistenza della fede. Questo ci costringe a guardare con coraggio dentro noi stessi, le nostre scelte, le nostre omissioni. Troppe volte abbiamo fatto passare come resistenza ciò che invece aveva il volto cinico di un adeguamento astuto al mondo. Basterebbe guardare al fatto che la profezia si è svuotata, nella chiesa, in proclamazione di astratti principi e che la dignità della politica si è frantumata in una logica di opportunismo e di piccola furbizia. ATTUALIZZAZIONE
DI UNA PAGINA DI BONHOEFFER
IL
VERO RESISTENTE LA FEDE
COME RESISTENZA LA
RESISTENZA DEI CREDENTI Resistenza come sequela Resistenza come ascolto di Dio Resistenza come ascolto delle
vittime Resistenza come martyria CONCLUSIONI Le parole di Bonhoeffer erano dette quando Hitler era vincente in Europa e nel mondo, ma hanno straordinario valore anche per noi, in un tempo in cui la chiesa in Occidente sembra indicare più la via delle ricette etiche che quella della bella testimonianza. C’è una stanchezza dei credenti, che è figlia di un ruolo etico che la società sembra sempre più domandare, e di un riconoscimento dell’azione ecclesiale, a cui si chiede una legittimazione etica della politica. Il risultato è "lo svuotamento della parola della croce", è il venir meno della testimonianza coraggiosa dei credenti, che sempre più stanno nel coro. Spesso le parole e i gesti delle chiese sulla guerra e sull’economia hanno più il sapore di vecchie e stanche dottrine, sia pure aggiornate, che l’assunzione davanti al Crocifisso dei drammi della storia. Volendo incidere sui grandi poteri e modificarne i comportamenti, si percorre la via dell’ideologia e non quella della profezia. Il risultato è l’elaborazione di una dottrina sociale, che ha la pretesa di umanizzare l’economia e la guerra, con l’effetto di giustificarne i meccanismi profondi. LA RESISTENZA CRISTIANA La resistenza cristiana è una resistenza nella pazienza e nella mitezza, che ha il volto della condivisione della vita con chi soffre e con chi è vittima. Una condivisione che ha il prezzo più alto e rappresenta una perfetta assimilazione al mistero di Gesù, il testimone fedele. P. Christian, priore di Tibhirine, pochi giorni prima del sequestro, indica le parole costitutive della resistenza cristiana: pazienza, povertà, presenza, preghiera, perdono. Così conclude: "Perdono è il primo nome di Dio nella litania dei 99 nomi, Ar Rahman, Ar Rahma. E la pazienza è l’ultimo nome dei 99, Es Sabour. Ma Dio è al tempo stesso povero. Dio è al tempo stesso presente, è al tempo stesso preghiera. Ecco la pace che Dio dona. Non è come la dona il mondo". Queste parole sono l’ultima consegna di Christian prima del suo martirio e il martirio dà ad esse la parresia del Vangelo.
Tratto da Missione Oggi dicembre 1999
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