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Dossier 

Dio e la guerra 


La contraddizione tra guerra e Cristianesimo
di don Primo Mazzolari

Quando Dio arma gli eserciti
di Umberto Galimberti

Superare la teologia della guerra giusta
di Emmanuel C. Mac Carthy (sacerdote statunitense ed ex generale dell'esercito)

Distorsioni sull'Islam: la "guerra santa"
dal sito arabcomint.com 

Il Dio degli eserciti resti nella Bibbia
di Francesco Cossiga

Il pacifismo non è una semieresia
di mons. Luigi Bettazzi (presidente emerito di Pax Christi)

Gli eserciti di Dio non fanno guerre
di Giuseppe Laras (rabbino capo di Milano)

Guerra e pace nell' Ebraismo
di R. Della Rocca (rabbino capo di Venezia)

Ma Dio non ama la guerra
di Vittorino Andreoli

Alcune immediate considerazioni sulla chiesa e sulla guerra
di Mimmo Franzinelli

I cristiani e la guerra
di Massimo Toschi
 

 

 

La contraddizione tra guerra e Cristianesimo

don Primo Mazzolari

 

Il cristiano che non si scopre in contraddizione col Vangelo di pace, o non si è mai guardato in Colui che— essendo « segno di contraddizione » — svela i pensieri degli uomini, oppure ama ingannare se stesso. La misura della nostra elevazione spirituale viene fornita dalla maggiore o minore consapevolezza delle nostre contraddizioni, la quale ci distoglie dal sentirci soddisfatti e dal legare lo Spirito al nostro corto passo e ai nostri brevi traguardi.

Non è forse una contraddizione

che dopo venti secoli di Vangelo gli anni di guerra siano più frequenti degli anni di pace?

che sia tuttora valida la regola pagana: « si vis pacem, para bellum»?

che l'omicida comune sia al bando come assassino, mentre chi, guerreggiando, stermina genti e città sia in onore come un eroe?

che nel figlio dell'uomo, riscattato a caro prezzo dal Figlio di Dio, si scorga unicamente e si colpisca senza pietà il concetto di nemico per motivi di nazione, di razza, di religione, di classe?

che l'orrore cristiano del sangue fraterno si fermi davanti a una legittima dichiarazione di guerra da parte di una legittima autorità?

che una guerra possa portare il nome di « giusta » o di « santa », e che tale nome convenga alla stessa guerra combattuta dall'un campo o dall'altro per opposte ragioni?

che si invochi il nome di Dio per conseguire una vittoria pagata con la vita di milioni di figli di Dio?

che venga bollato come disertore e punito come traditore chi, ripugnandogli in coscienza il mestiere delle armi, che è mestiere dell'uccidere, si rifiuta al « dovere » ?

che sia fatto tacere colui, che per sé soltanto, senza la pretesa  di coniare una regola per gli altri, dichiara di sentire come peccato anche l'uccidere in guerra?

che si dica di volere la pace, e poi non ci si accordi sul modo, appena sopraggiunge il dubbio che ne scapiti la potenza, l'orgoglio, l'onore, gli interessi della nazione?

che si predichi di porre la vita eterna al disopra di ogni cosa, e poi ci si dimentichi che il cristiano è l'uomo che non ha bisogno di riuscire quaggiù?

Crediamo che questi pochi accenni bastino per dar rilievo alla nostra sostanziale contraddizione, per metterci in vergogna davanti a noi stessi, e per sentirci meno sicuri in un argomento ove la nostra troppa sicurezza potrebbe degenerare in temerarietà o in un delittuoso conformismo alle opinioni dominanti.

 

Tratto da Primo Mazzolari, Tu non uccidere, 1955

 

Quando Dio arma gli eserciti

Umberto Galimberti

 

Vorrei spendere una parola inutile contro la guerra che l' Occidente sembra apprestarsi a scatenare contro il mondo dell'Islam. "Inutile" perché è noto a tutti quanto gli strumenti della ragione siano deboli contro la potenza dei singoli che annullano le differenze, infiammano i cuori, dopo avere assopito o addirittura ottenebrato le menti. La storia umana è uscita dalla dimensione simbolica solo da due secoli e limitatamente all'Occidente, che con l'illuminismo ha promosso il primato della ragione e quel suo corollario che è l'ateismo, essendo Dio il fondamento di ogni dimensione simbolica.
Prima di allora la «guerra santa» o, come dicono gli arabi la «jihad» , era comune tanto al mondo islamico quanto all'Occidente cristiano, e affondava le sue radici nell'antica cultura ebraica, il cui Dio era un dio di guerra, capace di scatenare venti e tempeste, tuoni e fulmini, calamità di ogni genere in aiuto alle genti poste sotto la sua protezione, aggiungendo alla confusione del campo di battaglia quello delle potenze naturali, controllate dalla sua soprannaturale potenza.
La «guerra santa» ebraica finì nel ‘70 dopo Cristo con la distruzione del tempio di Gerusalemme, ma a raccogliere l'eredità fu il Cristianesimo che già con l'Apocalisse di Giovanni riesuma l'iconografia della guerra santa per la raffigurazione di Cristo, cinto di una corona d'oro, nella mano una falce affilata, con un angelo ai suoi ordini, per fare vendemmia della terra e depositarla nel torchio dell'ira divina (Apocalisse 9,19).
Il Cristianesimo diverrà religione dell'Occidente sotto il segno della guerra quando Costantino vide nel sole di mezzogiorno qualcosa che assomigliava al segno della croce: «In hoc signo vinces» . Con quel segno si convertirono in seguito le popolazioni del nord, dette «barbari» , che invadevano l'Impero romano, sotto quel segno si riunirono le truppe di Carlo Magno che diedero origine al Sacro Romano Impero separato dall'Impero d'Oriente di fede ortodossa e dall'Islam che aveva fatto la sua comparsa nel VII secolo in Arabia Saudita con Maometto.
Maometto non ripudiava né la rivelazione ebraica né quella cristiana, rivendicava tra i suoi predecessori il patriarca Abramo, distruttore di idoli e adoratori di Allah, solo insisteva sul carattere definitivo della sua rivelazione rispetto a quella ebraica e cristiana, negando la proclamata divinità di Gesù Cristo.
L'allora mondo conosciuto si divise in tre parti: l'Ortodossia occupò, a partire da Costantinopoli, il mondo slavo, mentre nel Mediterraneo rimasero a contendersi le terre l'Islam e il Cristianesimo, entrambi a colpi di «guerre sante» o come da noi si diceva «crociate» , dove gli arabi distinguevano la terra della pace (dar alIslam) dalla terra della guerra (dar alharb), a cui corrispondeva da parte cristiana la terra dei fedeli (partes fidelium) da quella degli infedeli (partes infedelium).
Questa mentalità, nel mondo cristiano non si estingue con il Medioevo, ma inaugura l'età moderna con Cristoforo Colombo che nel suo «Giornale di bordo» precisa gli obiettivi della sua avventura. Il primo è quello di un figlio devoto della cristianità che vuol salvare il mondo portando il battesimo ai pagani. Il secondo è quello in cui il mondo moderno si riconoscerà: riportare in patria tanto oro ( «il Signore nella sua bontà mi faccia trovare questo oro» , 23 dicembre 1492). Costo dell'operazione: quella «moltitudine di ignudi e indifesi» , come li chiama Colombo nel suo Giornale di bordo, erano sette milioni al suo arrivo e saranno appena quindicimila sedici anni dopo.
Esportare battesimi e importare ricchezza è stato il senso di questa guerra santa cristiana, e insieme, pur nel mutar dei nomi e delle forme, il senso della «modernità» , avanzata a colpi di colonialismo prima territoriale e oggi economico.
Da questo breve excursus storico appare evidente che la «guerra santa» o «jihad» non è una prerogativa del mondo islamico e neppure un'arretratezza medioevale (dal momento che percorre l'intero arco della storia moderna), ma è un tratto tipico delle religione monoteiste, che in buona fede, trovano in Dio la giustificazione dei delitti più esecrabili compiuti in suo nome. Nulla allora di più benefico della «morte di Dio» proclamata da Nietzsche e anticipata un secolo prima dall'ateismo illuminista.
Una morte (e qui bisogna che si presti una grande attenzione) che non lascia solo orfani ma anche eredi. E tra gli eredi non fatichiamo ad annoverare quanti, lasciata alle spalle la «guerra santa» , oggi approdano alla «guerra giusta» . Dove la nozione di «giustizia» , tra due contendenti senza un arbitro, difficilmente si scosta dalla nozione di «vendetta» , che attorciglia la storia in una spirale i cui risvolti tragici nessuno fatica a immaginare.
Israeliani e palestinesi, nel loro piccolo, ci hanno già raccontato il futuro. Un esercito tra i più attrezzati del mondo e una povertà tra le più disperate del mondo da cinquant'anni sono l'uno nelle mani dell'altro. Se questo decidiamo sia il nostro futuro, non abbiamo che da seguire passivamente la storia.
L'Islam è ancora immerso nella dimensione simbolica, la più terribile, perché i simboli lavorano con la legge del tutto o nulla, categoria religiosa che prevede solo salvezza o dannazione. L'Occidente è appena uscito dalla dimensione simbolica ed è approdato all'uso illuministico della ragione, non grazie al Cristianesimo che parla di pace senza avere le carte in regola, ma grazie alla scristianizzazione dell'Occidente, che, lasciate alle spalle le figure apocalittiche della fede, ha incominciato a frequentare i percorsi più angusti, più modesti se si vuole, ma più efficaci della ragione che, senza una verità precostituita alle spalle, non dimette il lavoro duro della ricerca e della comprensione.
Ora è necessario che l'Occidente non rinneghi se stesso e gli strumenti razionali che ha faticosamente guadagnato nel corso della sua storia, e non ripiombi nel simbolico e nella violenza che sempre accompagna questa dimensione, per la quale il bene sta tutto da una parte e il male dall'altro: «O con noi o contro di noi» come inopportunamente dice il presidente Bush con chiaro riferimento alla lettera e allo spirito biblico madre e padre di tutte le «jihad» .
La cristianità teocratica del Medioevo da un lato e la teocrazia islamica dall'altro avevano trasmesso alla «modernità» il loro paradigma universalistico. In forza di un privilegio stabilito da Dio toccava all'Islam su un versante e alla cristianità sull'altro difendere le proprie forme culturali fino ai confini della terra. L'Islam è rimasto prigioniero di questa vocazione.
Non vorrei che l'Occidente, che ritiene di essersene liberato, grazie al processo di scristianizzazione che nel suo seno è in corso da due secoli, oggi non riprenda, sotto nuove forme e nuovi metodi, la vocazione messianica in cui è cresciuto per diciotto secoli. E con la forza delle armi e del denaro scelga, di fronte a un'aggressione terribile, la via della distruzione e dell'integrazione, proponendo se stesso come «totalità» , invece di cogliere la possibilità di crescita umana implicita nel confronto con la «diversità» .
Ogni tanto la storia si incarica di rendere la soluzione dei problemi non più rinviabile. E chiede una scelta. Per quanto riguarda noi occidentali la scelta è se proseguire, sia pure in forme laicizzate, la vocazione messianica che fa coincidere l'Occidente con la totalità umana, o se invece non è meglio percorrere l'altra via che visualizza l'Occidente come una parte nell'orizzonte più ampio della totalità umana.
Nel primo caso quel che seguirà ai preparativi bellici che l'Occidente sta approntando, anche se non sarà chiamata «guerra santa» , in nulla si distinguerà da una vera e propria «jihad» , perché quando il bene è tutto da una parte e il male tutto dall'altra il simbolico ha già fatto il suo lavoro più importante e devastante, e l'Occidente avrà rinunciato alla sua prerogativa, che è poi quella dell'uso costante della ragione, da salvaguardare ogni giorno dalla potenza devastante dei simboli che, sotto la protezione delle religioni, ancora regola gran parte dell'umanità. E gli effetti, non da oggi, sono sotto gli occhi di tutti.

 

Tratto da "La Repubblica" 25 settembre 2001

 

 

Superare la teologia della guerra giusta

Emmanuel C. Mac Carthy
Sacerdote statunitense ed ex generale dell'esercito

 

   Per gran parte della mia vita, certamente gli anni in cui indossavo l’uniforme di generale dell’esercito, pensavo in modo diametralmente opposto a quanto ora esporrò.
   Il presupposto di queste riflessioni è che Cristo ha qualcosa d’importante da dirci sul modo di vivere la vita cristiana. Lo scopo è di ricercare la verità di Cristo, con la comunità dei cristiani e all’interno di essa. È un testo serio perché il problema è serio: si tratta della guerra e di ciò che Cristo attende nei suoi confronti da coloro che lo seguono. Non procede da uno spirito ostile verso qualcuno nella comunità cristiana. Ma vi sono fatti terribili e spiacevoli nella storia cristiana e nella vita cristiana di oggi, che dobbiamo esaminare. Abbiamo 1.600 anni di cristianità postcostantiniana che hanno giustificato la guerra e la violenza. Ogni secolo ha visto un crescendo di brutalità e di vittime della guerra. Una percentuale impressionante di queste distruzioni disumane può essere attribuita a coloro che si confessano cristiani, discepoli del Principe della pace.
   Ma non fu sempre così. Durante i primi tre secoli del cristianesimo, la chiesa era nonviolenta. Poi, all’inizio del quarto secolo, accettò di collaborare, cioè di partecipare alla guerra e alla violenza del dittatore di Roma, allora non cristiano, Costantino; iniziò la costantinizzazione della chiesa.
   Alla fine del ventesimo secolo, i cristiani continuano a uccidere e a costruire strumenti di morte, giustificando il tutto con la morale e la teologia, nel nome di Cristo. Ma è davvero questo che Gesù pensava per i suoi discepoli? Se non è così, come può la chiesa approvare che i cristiani accettino questo sistema?

IL COMANDAMENTO DI CRISTO
 
Certo sarebbe più confortevole per la comunità di Cristo, specie per chi esercita un ruolo di guida, dedicarsi solo ai problemi di giurisdizione episcopale. Ma questi non sembrano così pressanti come quello della giustificazione cristiana della violenza e della guerra in un mondo di distruzione tecnologica avanzata. Proclamare il Vangelo, ma facendo eccezione quando tocca le questioni centrali del nostro tempo, è tradirlo.
   Il nemico di una nazione non è nemico di Dio. Il nemico di una persona o di un gruppo, chiunque esso sia, è un figlio di Dio, che dev’essere amato come Gesù lo ama. Gesù è Dio incarnato, è l’immagine del Dio invisibile. Non è solo una dimensione della vita cristiana: è la norma ultima per tutto l’agire del cristiano. E ha esplicitamente chiesto ai suoi seguaci di "osservare tutto quello che ha comandato" e di "amare come lui ha amato".
   Il comandamento di Gesù "amate i vostri nemici" è sempre all’imperativo, al plurale e non conosce eccezioni. L’amore dei nemici, con Gesù per modello, è il contrario della morale comune. Si può dire con certezza, secondo gli esperti biblici, che l’espressione è dovuta a Gesù stesso. Risulta anche che è la più citata nei primi due secoli del cristianesimo. Non è dunque possibile sbagliarci: l’amore incarnato in Gesù, che i cristiani sono chiamati a condividere e ad imitare, è l’amore nonviolento verso tutti, nemici compresi.
   Se Gesù Cristo è la norma ultima della condotta cristiana, risulta chiaro che vi sono degli assoluti etici nei comportamenti del discepolo cristiano. Per esempio, a chi deve cercare di "vivere Gesù Cristo", non è lecito l’omicidio di massa, cioè la guerra. Vi sono attività alle quali il cristiano non può partecipare, perché contrarie alla volontà di Dio rivelata da Cristo.
   Osservo che non si tratta della sola guerra nucleare, ma del rigetto totale e senza equivoci, teorico e pratico, di ogni guerra. Nella vita e nell’insegnamento di Gesù non c’è nulla che possa far pensare che, mentre non è lecito incenerire un popolo con testate nucleari, sarebbe lecito incenerirlo con il napalm. È la guerra che il cristiano mette in questione, non solo la guerra nucleare.

IL MONDO HA BISOGNO DI VERI DISCEPOLI DI CRISTO
  
L’equilibrio del terrore è una morale che Cristo non ha mai insegnato. L’etica delle stragi di massa non c’è nell’insegnamento di Gesù. La storia della giustificazione della guerra è un continuo sfoggio di eufemismi: la strage di massa è chiamata "dimostrazione di forza" o "azione cautelare". Con questo tipo di linguaggio, il Principe della menzogna è invitato a nozze. Nella dottrina della guerra giusta, Gesù Cristo, che è il tutto della vita cristiana, è spiazzato. Potrebbe benissimo non essere mai esistito. La dottrina della guerra giusta non ha niente a che fare con la sua persona e il suo insegnamento.
   Siamo chiari. Tagliare in quattro un capello a proposito della moralità dei tipi di strumenti usati ai fini della strage di massa, non è ciò di cui il mondo ha bisogno, da parte della chiesa. Ha invece bisogno della presenza di cristiani disposti a pagare di persona insieme a Cristo. Il mondo ha bisogno di cristiani che proclamino: "Il discepolo di Gesù non può partecipare alla strage di massa; deve amare come Cristo ha amato, vivere come Cristo è vissuto e, se necessario, morire come Cristo è morto, amando il proprio nemico".
   Alcuni cercano di far apparire l’insegnamento di Gesù sulla nonviolenza ingenuo e ridicolo: come se la nonviolenza cristiana fosse un’interpretazione di Gesù e del suo insegnamento teologicamente semplicista, assurda e impraticabile. Cristiani con simili idee sembrano oggi essere la maggioranza nelle chiese. L’autentica nonviolenza cristiana viene raramente messa alla portata della comunità cristiana. Quando in chiesa, o in scuola o in seminario si presenta l’occasione di riflettere sull’amore nonviolento, lo si fa normalmente in termini così vaghi e superficiali da far pensare che nessuno, neppure Cristo in persona, saprebbe difendere una tale posizione.

LA CHIESA DEI PRIMI SECOLI
  Eppure, durante i primi 300 anni, la chiesa ebbe dovunque una visione di Gesù e del suo insegnamento come nonviolenti. La chiesa insegnò questa etica di fronte ad almeno tre tentativi dello stato di liquidarla, nonostante i rischi di torture e di morte. Se mai c’è stato motivo di rappresaglie giustificate e di uccisioni difensive, nella forma di dottrina della guerra giusta oppure di rivoluzione violenta giusta, fu allora: le élites economiche e politiche di Roma miravano ad una politica di sterminio della comunità cristiana. Invece la chiesa insisteva senza riserve sul fatto che, disarmando l’apostolo Pietro, Gesù aveva disarmato tutti i cristiani. Questi continuavano a credere che Cristo era, come dice un’antica liturgia, "la loro fortezza e la loro forza", e poiché Cristo era tutto ciò di cui avevano bisogno in fatto di difesa e di sicurezza, non avrebbero cercato altro.
   Quando venivano offerte ai cristiani delle occasioni di ammansire lo stato romano unendosi ai suoi eserciti, le respingevano, perché la chiesa primitiva vedeva un’incompatibilità totale tra l’amare come Cristo ama e l’uccidere. Il Dio della comunità cristiana non era Marte, ma Cristo. Era dunque Cristo, non Marte, a determinare il modo di vedere e di vivere del cristiano. Era Cristo, non Marte, che dava la sicurezza e la pace. Durante questi 300 anni, la chiesa continuava a diffondersi. Sopravvisse senza mai ricorrere alla guerra e alla violenza.
   Nella chiesa primitiva nonviolenta nessuno disse che i cristiani dovessero ignorare il male o "lasciar correre". Il cristiano sapeva di dover lottare contro il male: ma doveva vincere il male con il bene; se fosse stato necessario, doveva persino "dare la sua vita" in questa lotta. Per la chiesa primitiva, il martirio era un’attività sociale vera e propria, al massimo livello.

LA "RESPONSABILITÀ SOCIALE" DEI PRIMI CRISTIANI
  "Deporre la propria vita" (e non uccidere un’altra), rispondendo al male con il bene, era considerato atto supremo di responsabilità sociale. Si riteneva che il modo più efficace di essere socialmente responsabili era di rifiutare la collaborazione con il male sociale, la guerra e la strage di massa. E non era sufficiente opporsi al male a parole: era ritenuta condizione essenziale, nel proprio concreto, amare come Cristo ha amato, a costo anche di gravi pene, anche della vita.
   Questa spiritualità cristiana primitiva, consistente nel parlare chiaro e nel pagare di persona, dista anni luce dall’etica ambigua di chi con le parole dice di essere contrario alla guerra, ma poi vi partecipa, in attesa che tutti siano d’accordo di non più parteciparvi. I nostri padri dei primi tre secoli sapevano che Gesù, loro Dio e Signore, non permetteva a nessuno dei suoi discepoli di sostituire la violenza all’amore; e allora parlavano e agivano con coerenza, da cristiani socialmente responsabili.
   In concreto, la nonviolenza cristiana non era un ingenuo e sterile ricorso a un idealismo irrealistico. La nonviolenza cristiana è la volontà di Dio rivelata nella vita e insegnamento di Gesù Cristo. Le utopie sono sogni umani, l’insegnamento di Gesù è, invece, un mandato divino, al quale tutti i cristiani sono tenuti a prestare fede totale. Quando Dio parla, un’obbedienza incondizionata è la sola risposta giusta, perché la parola di Dio è potenza e saggezza. Obbedire alla volontà di Dio significa essere realisti e pragmatici. Mentre il rifiuto di obbedirgli è il colmo dell’ingenuità: è il non fidarsi della sua saggezza ad essere irrazionale. Adorare Cristo in pubblico, mentre in segreto si giudica come irrealistica la sua dottrina della nonviolenza, è aberrante.
   C’è chi ritiene che Gesù abbia bisogno delle loro rettifiche, perché incapace di esprimersi a riguardo della violenza e dei nemici. Per loro il martirio come attività socialmente responsabile non ha senso, quando si hanno le possibilità di eliminare il nemico: ecco la dinamica operativa dell’etica che giustifica l’omicidio. Per i cristiani vicini a Gesù, invece, combattere la guerra con la guerra è partecipare al male e accrescerlo.
   Siamo onesti: la ricerca di un Vangelo con delle scappatoie non ha senso. Non è la verità a motivare tale ricerca. È la paura; è lo spavento dinnanzi alla morte; è il rifiuto di credere che Cristo è risorto, e questo proprio attraverso la sua morte.

"RIVESTITEVI DI CRISTO"
 
A rendere il comandamento "amatevi come vi ho amato" possibile e ragionevole è la coscienza che Gesù è in mezzo a noi. La risurrezione di Cristo e la sua presenza tra noi confermano la verità e la forza del suo amore. Senza conversione alla fede nella persona di Cristo, la fede nell’etica di vita che egli proclama è insostenibile. Senza la risurrezione della sua persona, la fede nell’etica della sua croce di amore nonviolento è vuota. Ma se Cristo è risuscitato, allora questa croce dell’amore nonviolento è davvero la Via e la Verità.
   Sapendo quante altre logiche cercano di imporsi, S. Paolo richiama al cristiano la necessità di "pregare senza sosta". Se si è uniti a Cristo nella preghiera, non si riesce più a giustificare la violenza e la guerra, come invece non dispiace a una certa teologia. Una continua coscienza della realtà di Dio come Amore è fondamentale in Gesù. È a questa coscienza che la preghiera ci converte, "rivestendoci del pensiero di Cristo".
   Lo spirito di Cristo non è primariamente centrato sul rifiuto della violenza, ma sull’amore. Il centro di questo amore è la comunità di amore che abita dentro di noi, la Trinità. Una spiritualità veramente cristiana ci conduce a una presa di coscienza crescente del totale coinvolgimento della nostra persona e di tutta la creazione nella comunione d’amore che è la Trinità. Chi è impegnato a "rivestirsi del pensiero di Cristo", a vivere alla presenza del Dio-Amore, compassionevole, è inconcepibile che possa arrivare a giustificare la guerra e la violenza, tantomeno a parteciparvi.
   La dottrina della guerra giusta è un tentativo di giustificare moralmente la strage di massa, che Gesù ha esplicitamente escluso dalla sua logica. È un cristianesimo senza Cristo. Giustificare la logica di Marte come compatibile con la sequela di Cristo è un abominio idolatrico, che continuerà a spargere caos e tragedie.
   La scelta è tra il "rivestirsi del pensiero di Cristo" o no. Impossibile rimanere neutrali. Non è facile "rivestirsi del pensiero di Cristo", richiede conversione. Ma è il prezzo della pace sulla terra. Se non si accetta di pagare il prezzo della pace, si pagherà il prezzo della guerra. Se non si vuole assumere la "santa violenza" (o ascesi) di una vita di preghiera incessante, con la quale impossessarsi del Regno dei Cieli, si dovrebbe almeno avere l’onestà di non giustificare come cristiana la violenza, da cui i regni di questo mondo sono inevitabilmente condotti alla distruzione.
   Da 1.600 anni il popolo di Dio è stato bloccato dalle giustificazioni cristiane al massacro di vite umane. Questo deve finire. La partecipazione cristiana alle barbarie della strage di massa è la negazione del Vangelo. La chiesa deve interdirsi di giustificare delle rappresentazioni false e grottesche di Cristo e della sua dottrina, in contraddizione con i suoi insegnamenti più chiari. Non c’è passo del Vangelo in cui Cristo dica che i suoi discepoli sono esenti dal seguirlo quando temono certe conseguenze. La sequela di Cristo include la fedeltà ai modi di agire di Cristo. Il suo cammino è quello della croce, è l’amore nonviolento, sempre.
   Siamo chiamati dal Principe della pace a essere un popolo di pace. Dobbiamo essere testimoni pacifici della risurrezione, contenti di pregare senza tregua, di amare alla maniera di Cristo. Non si pretende nulla di più da noi. Non c’è bisogno d’altro da parte nostra.

 

Centro per la nonviolenza cristiana di Baxter (USA), Pasqua 1982

 

 

Distorsioni sull'Islam: la "guerra santa"

dal sito arabcomint.com
 

 

Molte idee errate sull’Islam circolano nel mondo occidentale, e coinvolgono pressoche’ tutti gli aspetti della religione. Probabilmente l’ Islam e’ la religione che piu’ distortamente viene percepita da coloro che non la conoscono, a causa di diversi fattori, non ultimo un continuo attacco (peraltro ingiustificato) condotto dai mezzi di comunicazione di massa. Molto spesso, la religione islamica viene associata a fenomeni che con essa non hanno alcun legame e, non di rado, capita di assistere ad episodi in cui essa viene spiegata da persone che non hanno mai letto il Corano, non conoscono la storia e la predicazione di Maometto, e che, tuttavia, ritengono di conoscere tutto sull’Islam perche’ hanno letto l’ultimo articolo sul giornale di moda, o hanno visto l’ultimo film di Tizio, o hanno ascoltato Caio in televisione. Il consiglio che si puo’ dare a chi voglia conoscere effettivamente l’Islam e’ di rivolgersi alle fonti originali, al Corano, soprattutto, ed a testi di scrittori accreditati.

Detto cio’, cercheremo di spiegare il punto di vista islamico rispetto ad una delle questioni che maggiormente suscitano equivoci e malintesi, e cioe’ il concetto di jihad islamica, quella che erroneamente viene definita “guerra santa”. Il termine jihad, innanzitutto, non ha tale significato. Esso nella lingua araba, significa piuttosto: sforzo, inteso soprattutto in senso interiore. Nell’accezione piu’ vera e completa, il jihad rappresenta lo sforzo intimo e personale che ogni credente deve compiere per riuscire a conformare il propro comportamento alla volonta’ di Dio. Tutto e’ jihad: prendersi cura di un genitore anziano e’ jihad, crescere I propri figli sforzandosi di educarli ai precetti islamici, resistere con pazienza alle avversita’ ed alle difficolta’, lottare attraverso mezzi leciti per far conoscere la verita’ (di qualsiasi tipo, non solo religiosa), sono tutti esempi di jihad. Accrescere la propria conoscenza della religione attraverso lo studio, la meditazione, l’ascolto, anche questo e’ jihad. Ma il termine jihad, indica anche lo sforzo materiale teso a difendere se’ stessi, la propria famiglia, il proprio paese da attacchi esterni. Dio insegna agli uomini, nel Corano, che la guerra di difesa e’ una guerra lecita, anzi doverosa per ciascuno, uomo o donna che sia. E, comunque, anche nella guerra combattuta per difendersi, il musulmano deve conservare la sua umanita’, ed essere categorico nel non colpire civili, donne, vecchi, bambini, animali, piante. Chiaramente la guerra non e’ l’obiettivo dell’Islam, ne’ rappresenta la normalita’ per I musulmani. Essa e’ piuttosto l’ultima risorsa a cui bisogna giungere nel corso di circostanze straordinarie, dopo che tutti gli altri mezzi di difesa sono falliti. L’Islam e’ la religione della pace; uno dei nomi di Dio e’ Pace; il saluto islamico e’ “as-salamu aleikum”, che significa pace; il Paradiso e’ la casa della pace; l’aggettivo “musulmano” significa pacifico, perche’ sottomesso alla volonta’ di Dio. Pace e’ la natura, il significato, l’emblema e l’obiettivo dell’Islam.

In Occidente, invece, si parla di jihad come di una guerra che I musulmani sono spinti a combattere per diffondere l’Islam. Nulla di piu’ errato. Gia’ la storia luminosa e mai segnata da eccessi barbari e sanguinari della nascita dell’ impero islamico testimonia che questa non e’ l’attitudine del musulmano. L’Islam spinge alla diffusione del suo messaggio attraverso l’esempio e la parola e, a detta di tutti gli storici, esso non si e’ mai propagato “sulla punta della spada”. “Non c’e’ costrizione nella religione” (Corano 2:256). Sarebbe assurdo combattere per religione quei popoli che il Corano impone di rispettare e, nel caso di costituzione dello Stato Islamico, di proteggere e di tutelare nei beni, nella persona, nella fede religiosa.

“Dialogate con belle maniere con la Gente della Scrittura( Cristiani ed Ebrei), eccetto quelli di loro che sono ingiusti. Dite loro: “Crediamo in quello che e’ stato fatto scendere su di noi ed in quello che e’ stato fatto scendere su di voi, il nostro Dio e il vostro sono lo stesso Dio, ed e’ a Lui che ci sottomettiamo”. (Corano 29:46)

 

tratto dal sito arabcomint.com 

 

 

Il Dio degli eserciti resti nella Bibbia

Francesco Cossiga

 

Caro direttore, sul Corriere della Sera , apprendo da un articolo intitolato: «Bibbia e Padre Nostro, pronto un nuovo testo», di Roberto Zuccolini, che oltre alla modifica certamente opportuna della traduzione del Vangelo di Matteo, in cui tra le invocazioni del Padre Nostro vi è finora quella tradizionale che ci hanno insegnato fin da bambini: «Non ci indurre in tentazione», che potrebbe diventare «Non ci abbandonare alla tentazione», vi sarebbe anche, ahimè!, il mutamento della espressione, sempre ricorrente nell’Antico Testamento, della invocazione a Dio e del suo appellativo quale: «Dio degli Eserciti», in il meno «bellicoso» e più «pacifista», «Dio dell’universo»! Ed io dichiaro qui, da laico cristiano e come laico cristiano, membro della Chiesa Cattolica, di non essere assolutamente d’accordo con questo mutamento dell’appellativo e dell’invocazione da «Dio degli Eserciti» a «Dio dell’universo». È un segno di ciò che Jean Guitton in uno splendido libro, «Il Cristo dilacerato», denunziava già molti anni fa: il ricorrere nella vita della Chiesa di antiche eresie e l’infiltrarsi in essa, quasi sempre in forme «pietistiche», di idee semieretiche o quanto meno equivoche. Il Dio non dei filosofi, come diceva Pascal, ma il Dio di Abramo, di Mosè, di Isacco e di Giacobbe è certo anche il «Dio dell’universo» il «Pantacreator», ma è anche il «Dio degli Eserciti».
Non la vita, ma la verità infatti è il più alto valore cristiano, ché altrimenti non si spiegherebbe la somma virtù del Martirio che sostituisce e Battesimo e Penitenza! La carità è il più grande valore cristiano e la prima virtù del cristiano, non la sua caricatura e cioè la filantropia. E verità e carità sono certo l’anima della pace, ma non certo del pacifismo, che porta spesso a sacrificare e pace e verità, a favore di una «avirtuosa» tranquillità puramente naturale! Il Dio degli ebrei e dei cristiani - e noi siamo cristiani, perché Gesù e Maria furono ebrei - è giustamente appellato il «Dio degli Eserciti».
Senza l’uso della «giusta e santa violenza», infatti il popolo ebraico non avrebbe potuto prendere possesso della terra promessagli dal Dio nell’Alleanza: sterminando quegli tra gli occupatori di essa che agli ebrei e alla loro occupazione si opponevano con le armi. Senza l’uso legittimo della violenza a Poitiers, a Lepanto, sotto le mura di Vienna, l’Occidente cristiano sarebbe stato travolto dall’Islam teocratico e guerriero: senza l’uso legittimo della violenza, agli uomini guidati dal «Dio degli Eserciti», non sarebbe stata possibile quella «ingerenza umanitaria» che ha difeso i diritti fondamentali dei cattolici e dei musulmani, contro la «pulizia etnica» condotta dai serbo-croati ortodossi in Bosnia-Erzegovina e da essi ancora contro gli albanesi musulmani del Kosovo.
È che, come saggiamente notava Jean Guitton, nel mondo cristiano si è da tempo insinuata - forse anche per una cattiva lettura di Molina e di Suarez, per l’oblio di Agostino e anche per l’ingiusta condanna contro i Giansenisti -, una forma larvata di semi-pelagianesimo, basata su un ottimismo puramente terreno e non fondato sulla Grazia, che ci è stata concessa anche a motivo del peccato originale e tramite la crocifissione di Nostro Signor Gesù Cristo e non tramite certo la Sua partecipazione... al banchetto di Caana, cosa che come tramite alla Redenzione molti cattolici, laici ed ecclesiastici, preferirebbero in fondo al dramma del Getzemani e del Golgota! È che nel mondo cristiano, e soprattutto in alcune organizzazioni del cosiddetto volontariato cattolico, si è forse quasi inserita la semieresia del «pacifismo» come valore umano e cristiano preminente, che è cosa ben diversa dalla pace, che è la tranquillità nell’ordine, ma nell’ordine giusto e non in un qualunque ordine, e per stabilire o ristabilire il quale è talvolta necessaria quella guerra che da Agostino a Tommaso, da Molina a Suarez, all’insegnamento costante del magistero della Chiesa, può non solo essere una guerra giusta, ma, come nel caso dell’ingerenza umanitaria e in generale della tutela degli Stati e dei popoli più deboli, addirittura moralmente doverosa.
Teniamoci quindi, in fedeltà teologica e letterale all’Antico Testamento, senza il quale non sarebbe stato possibile il Nuovo Testamento, all’appellativo e all’invocazione al Dio degli Eserciti e non indulgiamo a un banale umanesimo naturalista, con aspetti di immanentismo semi-pelagiano chiamandolo, cosa ovvia, ma limitativa, solo e soltanto Dio dell’universo, appellativo e invocazione che è nella mente e nel cuore di ogni cristiano, di ogni ebreo, di ogni musulmano e anche di ogni vero filosofo, ma anche continuiamo ad appellarlo ed invocarlo come «Dio degli Eserciti».

 

Tratto da "Corriere della Sera" 22 maggio 2002

 

 

 

Il pacifismo non è una semieresia

mons. Luigi Bettazzi
presidente emerito di Pax Christi

 

Ho letto sul Corriere di mercoledì 22 la lettera del sen. Cossiga sul «Dio degli Eserciti». La lettera è rivolta al direttore: ma, pubblicata sul giornale, diventa indirizzata a tutti, soprattutto - mi consenta - a quanti seguono la... semieresia del pacifismo. Il sen. Cossiga, per la conoscenza che ha della dottrina cristiana, ama pontificare dando un tono di infallibilità alle sue opinioni e condannando come eretici (o... semieretici) quanti non condividono le sue opinioni.
Prima di tutto il sen. Cossiga saprà che gli «Eserciti» di cui era proclamato il Dio non erano originariamente quelli terreni, bensì quelli angelici o quelli cosmici, così da giustificare la nuova proposta di universalismo. Secondo, sembra che non tenga conto di una progressiva maturazione nella comprensione della Scrittura, dal Primo Testamento (ma allora, vogliamo perpetuare lo sterminio della popolazione che accompagnava le conquiste di nuove città?) al Nuovo e al cammino della Chiesa, passato dalle guerre «sante» alle guerre «giuste», alle guerre «di difesa» e oggi - anche in molti interventi pontifici - alla non violenza, che non è passività o rassegnazione, bensì attività intelligente e forte, capace di indurre i violenti a rinunciare alla loro violenza. Gesù stesso, schiaffeggiato durante la passione, non offrì materialmente l’altra guancia ma contestò: «Se ho sbagliato dimmi dove ho sbagliato; ma se non ho sbagliato, perché mi percuoti?».
I casi citati dal sen. Cossiga sono esempi di come noi - popoli potenti, spesso prepotenti - privilegiamo la violenza, che oltretutto premia - militarmente, economicamente, politicamente - chi è più forte, e non tentiamo invece di utilizzare i metodi non violenti, che sono molto più efficaci, poiché non seminano odi e risentimenti.
Non difendo il pacifismo in tutte le sue espressioni; ma rimango amareggiato che si voglia autorevolmente esaltare il «Dio degli Eserciti», degli eserciti umani, proprio a cominciare da quelli occidentali, che nel mondo vengono considerati eserciti «cristiani».

 

Tratto da "Corriere della Sera" 25 maggio 2002

 

 

Gli eserciti di Dio non fanno guerre

Giuseppe Laras 
Rabbino capo di Milano

 

Sul Corriere del 22 maggio compare un lungo intervento del senatore Francesco Cossiga così intitolato: «Cossiga: il Dio degli Eserciti resti nella Bibbia». L’autore, partendo dalla notizia della discussione sulle modifiche della traduzione di alcuni passi, lamenta, in particolare, il rischio del mutamento dell’espressione, ricorrente nel testo ebraico della Bibbia, «Dio degli Eserciti» in «Dio dell’Universo». Senza voler entrare nella polemica, tutta interna al mondo cattolico, ma pur condividendo la critica di fondo da lui mossa contro un pacifismo concettualmente troppo statico, vuoto e verboso, vorrei amichevolmente far notare al presidente Cossiga che l’espressione originale ebraica Tzevaòth (singolare: Tzavà ), che segue nella Bibbia il nome di Dio e che viene di solito tradotta con «eserciti», in realtà non fa riferimento a eserciti nel senso di insieme di uomini armati e bellicosi, ma a ben altro genere di eserciti o schiere: quelle angeliche o celesti, formate, cioè, da esseri spirituali. E quindi, ben lungi dal richiamare violenza, quell’espressione, accostata a Dio, richiama - al contrario - l’attributo dell’amore che connota e accompagna la presenza di Dio nel mondo.
A proposito poi della «giusta e santa violenza» messa in atto dal popolo ebraico - ai tempi biblici - per prendere possesso della terra di Canaan a lui promessa da Dio, è forse opportuno osservare che quelle antiche popolazioni erano state condannate da Dio alla scomparsa a causa dell’idolatria professata e del tenore di vita scellerato, e che, se avessero modificato il loro comportamento attraverso la Teshuvà (Pentimento), sarebbero sopravvissute.
Vorrei, quindi, concludere - parafrasando ma capovolgendo l’esortazione finale del senatore Cossiga - proprio per essere «in fedeltà teologica e letterale con l’Antico Testamento» a non tradurre più la nota e ricorrente espressione con «Dio degli Eserciti», ma con quella di ben altro e più profondo significato «Dio delle schiere celesti».

 

Tratto da "Corriere della sera" 25 maggio 2002

 

 

Guerra e pace nell' Ebraismo

R. Della Rocca 
rabbino capo di Venezia

 

Guerra e pace sono da sempre temi che assillano l’ebraismo.

Basta dare un’occhiata alla Bibbia per convincersi che di tanto in tanto ed anche con troppa frequenza siamo stati coinvolti in qualche guerra.

lo stesso ingresso del nostro popolo nella Terra di Israele con Giosuè è stato contrassegnato da grandi e continue battaglie.

In verità le testimonianze bibliche della storia ebraica vedono come eccezionali i periodi di pace. Spesso la Bibbia ci racconta che la "terra è stata in pace per quarant’anni" (Giudici, 3:11, 5:31) oppure per ottant’anni (3:30) e questi intermezzi tra guerre furono evidentemente degni di essere registrati.

Quello che è vero per il popolo ebraico al tempo dei regni, è del resto vero per tutta l’umanità: ovunque la pace è sempre stata una parentesi fra molte guerre.

Tuttavia le norme ebraiche relative alla guerra presentano molte restrizioni e riserve. Nella sua opera "Mishnè Torah" nel trattato relativo all’istituto monarchico. Maimonide dedica diversi capitoli alle norme da osservare in guerra e alla guerra stessa. In sostanza Maimonide raccomanda che una guerra deve avere una sua giustificazione morale che però non può essere una giustificazione arbitraria ma deve essere sancita da una decisione del Sinedrio e non demandata alla esclusiva volontà del re; inoltre devono essere prese strettissime misure atte ad assicurare un trattamento umano al nemico anche allo scopo di preservare la stessa umanità e moralità ebraica.

Ed ancora secondo Maimonide non si deve muovere guerra contro alcuno al mondo prima che venga fatta un’offerta di pace conformemente a quanto è detto nel Deutoronomio (20:10): "Quando ti avvicinerai ad una città per combattere contro di essa, prima le rivolgerai un appello di pace".

Aggiunge Maimonide che quando si cinge una città d’assedio per conquistarla non si dovrà circondarla da tutti o da quattro lati ma solo in tre direzioni, lasciando la possibilità alla popolazione assediata di fuggire e, per chi lo desidera di salvarsi la vita … non si dovranno abbattere gli alberi da frutta nell’area adiacente, né si priverà la popolazione dei flussi d’acqua come è detto "non distruggere alcun albero" (Deuteronomio 20:19) e ciò si applica non solo per un assedio ma in ogni circostanza.

Secondo Maimonide il divieto include non solo gli alberi ma non si potranno rompere gli utensili, gli abiti, non si potrà gli edifici, chiudere i pozzi o distruggere il cibo (Hilchòt Melachim 6:7-10).

Queste norme, che vanno sotto il nome di "bal tashchìt", vietano appunto le distruzioni indiscriminate gli sprechi di risorse e l’inquinamento esse mostrano l’orientamento delle leggi ebraiche finalizzate ad evitare che la guerra ci svilisca e che quando siamo coinvolti nella violenza perdiamo la nostra umanità infliggendo ad altri forme di brutalità che nemmeno la guerra può giustificare.

Altra importante norma ebraica è quella che non bisogna mai godere della sconfitta dei nostri nemici. Nella celebrazione di Pesach quando ricordiamo la vittoria sui crudeli oppressori egiziani, in tutti i nostri canti non vi è una sola parola di gioia per la distruzione del nemico. Al contrario negli ultimi sei giorni della festività recitiamo solo metà Hallel (Salmi, 113-118) perché il Signore disse agli angeli: "… Le mie creature stanno annegando nel Mar Rosso e voi intonate canti di lode?"

Gli egiziani ci perseguitarono, essi furono nemici mortali eppure anche le loro vite erano preziose vite umane. Per quanto odioso sia un nemico, non si ha mai il diritto di gioire per la sua caduta. "Non gioire quando il tuo nemico cade" (Proverbi, 24:17). Per la stessa ragione quando nel Seder di Pesach enumeriamo le dieci piaghe inflitte agli egiziani, versiamo una goccia di vino fuori dai nostri bicchieri per mitigare la nostra allegria con la triste constatazione che la nostra liberazione è costata la sofferenza da altri esseri umani.

Il nostro bicchiere di felicità non può essere stracolmo, se la nostra libertà ha comportato una tragedia per altri, siano essi pure nostri acerrimi nemici.

Quindi la guerra non è mai stata vista come prima o desiderabile soluzione ai conflitti umani. A David, re di Israele, Dio non consentì la costruzione del Tempio, rimandata al figlio Salomone: "… Tu non costruirai il Mio Tempio, una Casa per il Mio Nome poiché tu sei un uomo di guerra e hai sparso sangue…" (Cronache, 22:8; 28:3). Le guerre condotte da David furono certo guerre giuste ma per quanto giusta sia una guerra chiunque vi sia rimasto coinvolto non è qualificato per costruire un tempio a Dio, poiché il Tempio è simbolo di pace.

La pace è il supremo ideale ebraico: nella visione profetica il centro focale di tutte le nostre speranze messianiche risiede nella pace universale.

In ebraico si dice "shalom". La parola si rifà alla radice "shalem" che dà l’idea di completezza e di interezza. Non vi è completezza in n mondo lacerato dalla guerra e dall’intolleranza.

Per la pace, dicono i Maestri (Trattato Derech Eretz Zutà cap. 9) si può anche mentire e secondo Rabban Shimon ben Gamliel, il mondo si regge su tre cose: la verità, il giudizio e la pace (Trattato di Avòt, 1:18). La verità e il giudizio sono i requisiti essenziali e la più sicura salvaguardia per il mantenimento della pace. La massima sopraccitata di Rabban Shimon ben Gamliel viene così commentata nel talmud: "…Le tre cose in realtà sono una sola: se il giudizio è eseguito, la verità è rivendicata e ne risulta la pace…".

Nessuna benedizione può essere tale se non vi è la pace che la completi e la attui pienamente.

Nella tradizione ebraica dunque la pace è un punto centrale dell’esistenza umana; ogno sforzo deve essere teso al suo raggiungimento, nulla va tralasciato per scongiurare la guerra. La guerra è il male più grande che può toccare l’uomo perché lo sminuisce e lo disumanizza, cancellando la sua componente divina. Ogni ebreo al termine della Amidà, parte principale delle tre preghiere quotidiane, recita la formula: "… Concedi una pace buona su di noi…". La pace non è tale se solamente tacciono i cannoni, perché sia completa dovrà essere buona. Se tacciono i cannoni è già un gran successo, ma è solo il punto di partenza verso la buona pace, che sarà prima di tutto rispetto per ogni persona.

Sempre presente dunque è nella mente dell’ebreo il concetto di pace come bene supremo, dono di Dio, emanazione diretta dell’Eterno tanto che la parola "shalom" pace è divenuta il saluto abituale dell’ebreo quale espressione di buon augurio, conformemente a quella massima rabbinica che cita: "… Sii tu il primo a porgere lo shalom a qualsiasi persona… " (Trattato di Avòt, 4:15).

 

Tratto dal sito Morashà

 

 

Ma Dio non ama la guerra

Vittorino Andreoli

 

Le guerre che si combattono tra persone singole e tra Stati si riconducono facilmente al potere e a quel bisogno di dominio che l’uomo avverte e che lo induce ad aggredire un nemico perché ha mostrato di essere pericoloso o lo potrebbe diventare. Le guerre di religione trovano fondamento invece nel bisogno di difendere il proprio Dio, o la verità ritenuta fondamentale per interpretare il mondo e catalogare la stessa convivenza su questa terra. Si tratta di guerre combattute con tecniche che non si differenziano affatto dalle guerre "civili" (meglio sarebbe chiamarle incivili), e che coinvolgono addirittura gli "Dei". I contrasti tra diverse forme di "credo" sono state la ragione del contendere di molte guerre che hanno insanguinato e divelto corpi, in nome di un’idea o addirittura dell’anima. Le crociate ne rappresentano l’esempio più insigne (oltre che tra i più controversi). Comunque, si tratta di guerre ancor più folli, che non possono essere taciute in un percorso che si voglia occupare delle "follie del mondo". Se la guerra civile può essere vista come l’estensione ad un intero popolo di una lotta, e della sua dinamica, tra individui, e quindi come l’allargamento della percezione del nemico dal singolo ad un’intera popolazione, similmente si può leggere la guerra di religione, detta talora anche "santa" (meglio sarebbe il termine dannata), come l’estensione su larga scala della lotta contro l’eretico. L’eretico che ha scelto una strada diversa da quella indicata viene invitato a rientrare nella fede pena l’espulsione o la condanna, che può giungere all’uccisione, come per un traditore. Nel caso di un intero popolo, lo si attacca per una eliminazione globale, oppure per una vittoria che contempli la rinuncia al "credo" per cui aveva combattuto e perso. E vittoria significa imporre un cambiamento di convinzioni. Talvolta si tratta di adesioni puramente formali, come nel fenomeno dei "conversi" che ha caratterizzato la lotta dei cristiani contro gli ebrei: vinti abiuravano alla propria legge e si convertivano, ma poi nascostamente continuavano a professare la religione originaria come se la guerra non avesse dato esito sostanziale. Sovente le guerre di religione sono condotte dall’autorità religiosa appunto oppure vengono affidate al braccio secolare e quindi agli addetti laici, che non sono dei mercenari non avendo come scopo solo il compenso in denaro e in diritto di saccheggio, ma vi partecipano in qualità di credenti. Una diversità consistente riguarda poi il nemico, identificato nel Male che si proietta non solo su questa terra, ma anche nel cielo. Nemici, e al contempo "indemoniati". Insomma in un caso, la guerra civile, è sempre il potere concreto a dominare, in quella religiosa c’è la fede e semmai il vantaggio temporale che ne è l’effetto. È la verità insomma a entrare in guerra e si combattono guerre della verità. In uno schematismo rigido potremmo riportare le guerre "civili" nell’ambito del potere, quelle "sante" nella sfera della verità. "Verità" è un termine continuamente usato, caposaldo di culture tra loro anche antitetiche. Un termine pieno di fascino e, poiché lo abbiamo incontrato nelle guerre, pieno anche di pericolo e di dramma. Quid est veritas? Ma soprattutto che cosa è essa nel tempo presente, un tempo che ha visto e vede la conoscenza scientifica aggiungersi fortemente a conoscenze raggiunte senza una metodologia capace di universalizzare le conclusioni. La verità che riguarda una religione, la religione vera, è una verità di fede che non si contrappone necessariamente a quella scientifica, ma certo ha un contenuto che si lega alla esperienza ineffabile e singola dell’incontro di ciascun credente con il proprio Dio. Un’esperienza che trasmette una convinzione incrollabile sul piano personale anche se non si regge, o è possibile non si regga, su quello della ragione e della scienza. Esistono credenti di fede così marmorea, da trovare incredibile la domanda di dimostrare il proprio credo. E questo proprio perché l’esperienza è il perno sostanziale del loro credere, pur se non può articolarsi in un sistema logico-razionale. Se è così, e se dunque la verità che entra in guerra coincide con il significato dato alla parola fede, non può essere vinta da un’azione sostenuta da cannoni e nemmeno dalle bombe "intelligenti" della contemporaneità. La parola verità qui sta per "ciò in cui credo". E io non posso pretendere che altri la recepiscano se non attraverso l’esperienza, quell’incontro ineffabile che lega un uomo a Dio. Un incontro in cui Dio da concetto si fa esperienza, da immagine si fa per usare il linguaggio della cristianità uomo, carne. hi non crede e fa parte di una cultura o di una tradizione cristiana, cerca o attende un evento in cui il bisogno di un Dio deve diventare percezione, vissuto, presenza. Non diversamente da quell’esperienza mistica per cui gli eremiti hanno parlato di incontro, di visita, di realtà concreta. Un Dio sceso sulla terra. Insomma, se il termine verità è giustificato, va inteso in maniera e con un significato distinto da quello della scienza: si tratta di una verità sentita personalmente o dal "gruppo" di coloro a cui Dio si è rivelato. È una verità di fede, è un credere in colui che si è svelato. Se così è, pur con tutte le approssimazioni concesse, come si può combattere in nome di una verità religiosa? Come pretendere che una guerra porti chi ha un’esperienza diversa dentro la propria, che rimane sempre ineffabile all’altro? E come è possibile se uno crede in un incontro misterioso e speciale col Signore Iddio, pretendere che sia un uomo, e non Dio, a operare, a convincere circa il "credo" e addirittura imporlo? Non esiste alcun strumento che possa sostituire l’esperienza di fede che chiama in causa Dio. Se non fosse così, il credere sarebbe questione di ragione o di volontà e non vi entrerebbe Dio, il dono che rende credenti, sia pure su una disponibilità dell’uomo. Appare veramente folle pensare che la guerra sia una sorta di incipit ad una conversione. Insomma, la guerra per far credere e per convertire al credere è una follia da tutti i punti di vista attraverso i quali si tenti di analizzarla. Capisco un Dio che si "adira" con i propri credenti e magari demolisce un tempio, ma non posso comprendere un Dio che si arrabbia con i non credenti o i diversamente credenti. Parlo da non credente e mi pare impossibile che qualcuno mi voglia ridurre con la forza a credere. Forse potrebbe carpirmi un assenso, ma mai impormi una fede. Io credo nell’apostolato, nell’esempio offerto. E se l’apostolo mostra che in nome di quel credo egli opera sulla terra in maniera significativa, se è un uomo speciale, mi attira e mi fa conoscere la forza del Dio che lo guida. Ma si tratterà di un comportamento di pace, soprattutto oggi che domina l’odio e la violenza dappertutto. Insomma, se riesco a legare le opere di un apostolo a quel credo, finirò persino per invidiare la sua fede, ma ciò tuttavia non basta per credere. Pascal affermava che non basta voler credere per credere e io aggiungo che non basta nemmeno invidiare la fede per credere. Deve potersi aggiungere quell’incontro che, essendo a due, presuppone che Dio si manifesti a me personalmente. Un’azione non solo misteriosa poiché si fa esperienza, si fa cronaca. È questa la storia, incredibile per chi non crede, di un Dio che interviene ad personam, che conosce quel tale non credente e lo avvicina, gli fa dono di un’esperienza che lo trasforma come per una metamorfosi in un credente forte. he questo delicato percorso esperienziale venga fatto attraverso l’odio del credente nei confronti di un credente d’altro, o di un popolo fedele contro un popolo infedele (o diversamente fedele), è pura follia. Comprendo perfettamente quanto mi dicono i miei amici credenti e apostoli, che spetta a Dio compiere il dono e a loro tocca testimoniarlo, ma la testimonianza non è sufficiente: seppur sia quasi tutto, è nulla senza di Lui. Che senso avrebbe una violenza su di me o su un popolo fatto di tanti come me? Lo so, nell’ambito delle competenze religiose e nella dottrina c’è risposta a questi quesiti e chissà da quanto tempo, ma il problema è storico e riguarda il diritto del non credente di porre le sue questioni e di farlo oggi con l’ansia del tempo e la cornice del presente. E i credenti devono ascoltare le questioni magari mal poste, non correggere le domande per codificarle anticipandole a risposte già date. In questo contesto la guerra tra due credenti di religione differente e tra due popoli che credono in un Dio diverso, appare semplicemente stolta. È tempo semmai che i credenti mostrino la pace, il proprio Dio della pace, poiché io mai crederò in un Dio della guerra e se mi si presentasse gli chiuderei la porta in faccia. Quando penso alla guerra nei luoghi in cui è nato e vissuto il Cristo, alla guerra tra musulmani e ebrei, non vedo certo la figura di Dio né la sua sapienza, ma l’uomo rivestito di arroganza e di miseria. Una guerra che è, tra l’altro, contro Dio, poiché un Dio in guerra è privo di fascino e dunque non attrae. Anzi semmai spaventa.

 

Tratto da "Avvenire" 21 maggio 2002

 

 

Alcune immediate considerazioni sulla chiesa e sulla guerra

Mimmo Franzinelli

 

- Premessa.

Prima di esaminare l'atteggiamento seguito dalle gerarchie ecclesiastiche cattoliche dinanzi al recente conflitto del Golfo, è opportuno ricordare come nell'occasione i più insistenti richiami guerrafondai siano stati lanciati dall'interno dello schieramento laico (con particolare insistenza dai repubblicani, ma pure molti socialisti hanno elegantemente calpestato le tradizioni storiche del loro partito, per non parlare dei liberali).

Sull'altro fronte, i lettori avranno notato -in alcuni quotidiani della seconda metà di gennaio- le fotografie dei dirigenti del Pci in Piazza S.Pietro, con mogli e figlioletti, in attesa delle dichiarazioni pacifiste del Pontefice, al quale venne in tale occasione riconosciuto un ruolo di orientatore delle coscienze, ancorché laiche.

Si è osservato che solo la proverbiale ed indisponente rudezza abbia impedito a Wojtyla, in questo drammatico inizio d'anno, di occupare in una pacifica guerra-lampo i territori della svenduta cultura laica.

Tuttavia... non è tutto oro quel che riluce, e -nei limiti di un intervento circoscritto entro il respiro di poche cartelle- proviamo a sollevare alcuni spunti critici sulla posizione vaticana, a partire dai caratteri di un pacifismo cattolico più vantato che reale ed in ogni caso supportato da particolari strategie contingenti.

-Sacre Scritture pacifiste?

Se abbondano i volumi ed i contributi dedicati alla valorizzazione delle potenzialità pacifiste insite nel messaggio cristiano, sono assolutamente carenti studi che ricordino invece le pesantissime responsabilità storiche dei cattolici nella giustificazione divina della guerra e che pongano in discussione le stesse premesse teologiche "pacifiste" dei sacri testi. Le sante scritture vengono insomma citate a senso unico: grande successo è arriso ad es. al passo di Isaia nel quale il profeta afferma "Dobbiamo trasformare la spada in aratro e le lance in falci", mentre non ricordo di aver mai sentito spiegare quell'altra dichiarazione di Gioele, che rivolse al prossimo un invito di tutt'altro genere "Fabbricate spade con le vostre zappe e lance con le vostre falci". Il fatto si è che nell'Antico Testamento è possibile trovare, a seconda dei gusti, tutto... ed il contrario di tutto. Per secoli la cattolicità vanto' le virtù guerriere del Dio degli Eserciti ed interpreto' -in un parallelismo denso di significati- l'apostolato religioso come una milizia, collegandolo apertamente alla missione del soldato. Si assegnarono finanche santi patroni alle diverse armi: basti pensare che le camicie nere della MVSN fascista ebbero come protettore S.Michele Arcangelo (e durante il ventennio nero altolocati monsignori pubblicarono discorsi nei quali, per l'appunto, l'alato messaggero venne additato come il precursore... di Mussolini, avendo a suo tempo riportato l'ordine tra le ribelli schiere celesti).

Ecco, insomma, che gli odierni pacifisti cattolici incorrono, certamente in buona fede, nell'errore simmetrico dei reietti guerrafondai cattolici di ieri: interpretare scritture e simboli a seconda delle proprie aspirazioni, attribuendo un substrato teologico a valutazioni assolutamente terrene e contingenti.

Senonché, precisato che nemmeno nei Padri della Chiesa è possibile -a meno di voler agire con i criteri di cui si è detto- ravvisare questa pretesa opposizione alla guerra e tantomeno una dottrina od un criterio di comportamento in proposito (si rimanda la bel volume di A.Morisi, La guerra nel pensiero cristiano dalle origini alle Crociate, edito da Sansoni nel 1963), è altro il criterio cui uniformarsi per valutare le posizioni di volta in volta assunte dal Vaticano di fronte al fenomeno bellico.

- Comandamenti divini o umane necessità?

Nel 1940 lo statunitense Sidney Hook sintetizzò felicemente il criterio interpretativo utile a decodificare il magistero pontificio in linea generale e, nella fattispecie, in materia di guerra: "in ogni situazione drammatica è possibile predire il comportamento della Chiesa cattolica con una certa sicurezza sulla base di una valutazione dei suoi interessi concreti in quanto organizzazione politica, più che sulla base di ciò che stabiliscono i suoi dogmi eterni".

Per trovare conferma di quest'asserzione, tanto ovvia quanto dimenticata, prendiamo ad es. quel concetto di "non intervento" tanto richiamato a proposito del Golfo. E limitiamoci a verificare se i pontefici l'abbiano davvero seguito allorquando la sua attuazione non tornava a loro comodo (come durante la fase risorgimentale). Non ci riferiamo allo slancio giovanilista del neo-eletto ed inesperto Pio IX, che diede mandato al gen. Durando di marciare contro gli austriaci (ed il comandante delle truppe pontificie rivolse alle sue schiere, il 5 aprile 1848, un proclama nel quale il neoguelfismo rinverdiva i fasti delle crociate e dichiarava la guerra santa). Si prenda piuttosto l'allocuzione dallo stesso Papa rivolta il 28 settembre 1860 al Concistoro, della quale riproduciamo il significativo esordio: "Non possiamo astenerCi dal deplorare, oltre agli altri, quel funesto e pernicioso principio, che chiamano di 'Non intervento', da certi Governi poco tempo fa, tollerandolo gli altri, proclamato ed usato ancora quando si tratti dell'ingiusta aggressione di qualche Governo contro un altro: cotalché par che si voglia onestare, contra le umane e divine leggi, una tal come impunità e licenza di assalire e manomettere gli altrui diritti, le proprietà e i dominii stessi, conforme vediamo accadere in questa età luttuosa".

E non si trattava di un momentaneo soprassalto cagionato dal compiersi dell'unità nazionale italiana, considerato che la 62° proposizione del Sillabo condanno' quattro anni più tardi la convinzione di quanti ritenevano dovesse "proclamarsi e osservarsi il principio del così detto non-intervento".

Evidentemente, le preoccupazioni di natura temporale spinsero Pio IX ad interpretare le volontà divine pro domo sua.

Del resto, le radici della concezione di "guerra giusta" affondano nella prassi e nella dottrina cattolica, e solamente a Novecento inoltrato i pontefici invertirono -non senza stridenti contraddizioni e ritorni nel solco precedentemente tracciato- la rotta, resisi dolorosamente conto del fatto che oramai la guerra non veniva condotta contro infedeli, pagani od eretici, ma dilaniava le nazioni cristiane ed indeboliva in forma preoccupante il centro della cristianità.

I primi segnali di questa "ragionevole" tendenza sono contenuti nell'esortazione del 2 agosto 1914, indirizzata da Pio X "a tutti i cattolici del mondo". Emblematicamente, l'accorato ammonimento del Papa culminava in una preoccupazione per il triste destino incombente sul proprio gregge: "non possiamo non preoccuparCi anche Noi e non sentirCi straziare l'animo dal più acerbo dolore per la salute e per la vita di tanti cittadini e di tanti popoli, che ci stanno sommamente a cuore". Fu il tragico destino dei popoli dell'Occidente cristiano l'un contro l'altro armati ad indurre Benedetto XV alla protesta contro una strage che davvero appariva "inutile" (come se vi fossero stragi utili). Magistrale si rivelo', nella tarda estate 1918, la brusca riconversione della politica vaticana dalle precedenti simpatie austriache verso i lidi delle potenze vincitrici (Francia in primis). Ciò nondimeno, le drammatiche invocazioni alla pace lanciate da Benedetto XV mantengono ancor oggi un richiamo ed un significato, anche se si deve situarle in quel precipuo contesto politico-diplomatico-religioso, evitando di assolutizzarle e di leggerle alla stregua di un punto di non ritorno, ovvero di una naturale ed incontrovertibile posizione propria di tutta la Chiesa e destinata a svilupparsi linearmente.

Del resto, già nella grande guerra fiorirono svariati esempi della "doppiezza" vaticana, che -mentre si muoveva per favorire un'intesa tra le nazioni belligeranti- lascio' aperto il campo all'opera dichiaratamente guerrafondaia di una parte delle gerarchie ecclesiastiche, mossesi in totale sintonia con gli interessi delle rispettive borghesie nazionali. In Italia è noto il caso di p. Agostino Gemelli, consulente dello Stato Maggiore delle Forze Armate, ma meriterebbe maggiore attenzione - all'interno di una visione complessiva- il ruolo giocato dagli Ordini Militari e dal clero castrense (vedi come Karl Kraus -nel dramma Gli ultimi giorni dell'umanità, ed. it. pp. 221/222- mette in scena mons. Allmer, Provicario militare dell'esercito austriaco e Prelato pontificio).

Se dalle guerre "nazionali" passiamo a quelle coloniali, si evidenzia con maggiore nettezza il quadro di un disinvolto opportunismo, basato su freddi calcoli empirici: Pio XI ricorse a veri equilibrismi per dribblare la condanna della Società delle Nazioni e non deprecare a sua volta la guerra di aggressione portata dall'Italia fascista all'Abissinia. Troppo spazio richiederebbe citare i brani dell'allocuzione del 27 agosto 1935 al Congresso delle infermiere, vero esempio di "pilatismo" -se non di dotta ipocrisia- e sostanziale autorevole giustificazione della campagna mussoliniana.

Pio XII non ebbe invece soverchie attenzioni diplomatiche nell'assumere posizione rispetto alla guerra civile spagnola: il suo appoggio ai ribelli franchisti fu sempre leale, convinto e senza riserve, al punto di ergersi a ideologo della vittoria legionaria (nel telegramma a Franco del 1 aprile 1939 e nel Radiomessaggio del 6 aprile 1939). In questo secondo documento il Pontefice ascrisse alla Divina Provvidenza il successo delle armi fasciste e così spiego' il significato di quella terribile guerra: "La Nazione eletta da Dio come principale istrumento della evangelizzazione del nuovo Mondo e come baluardo inespugnabile della fede cattolica ha testé dato ai proseliti dell'ateismo materialista del nostro secolo la più elevata prova che al di sopra di ogni cosa stanno i valori eterni della religione e dello spirito". Una chiave di lettura tutta "teologica", dunque, che cancellava le spiegazioni civili e giustificava le efferatezze dei soldati di Cristo (responsabili, tra l'altro, dell'uccisione di centinaia di religiosi baschi: la S.Sede si limitò nell'occasione ad inoltrare -tramite canali segreti- proteste formali).

Sulla posizione assunta dal medesimo Papa nella seconda guerra, il discorso si fa davvero complesso. Ernesto Bonaiuti seguì passo passo l'atteggiamento della Santa Sede verso il conflitto e concluse sconfortato che Pio XII e la curia romana mancarono assolutamente di spirito profetico, appiattendosi su una diplomazia priva di reale efficacia. Buonaiuti non imputo' queste carenze alla personalità del Pontefice, ma le inserì in un più vasto orizzonte: "a riguardare nel suo complesso l'azione politica internazionale di questo Papa, si ha la netta impressione che le sue deficienze, la mancanza assoluta di qualsiasi corrispondenza tra la sua parola, il suo gesto, i suoi enunciati e la bruciante realtà circostante non siano affatto imputabili all'individuo, ma unicamente a quel complesso di idee e di valori che, ormai ufficiale dell'ortodossia cattolica, risulta essere un'arida e tradigrava sopravvivenza di situazioni ideali, culturali e religiose nettamente superate dal cammino dei tempi e delle esperienze collettive" (E. Buonaiuti, Pio XII, Ed. Riuniti, 1965, p. 252).

Sul silenzio del Pontefice per la sorte di milioni di ebrei uccisi nei lager nazisti molto si è discusso e scritto negli anni Sessanta (il servilismo dei governi di centro sinistra impedì di rappresentare in Italia il dramma Il Vicario, di Rodolf Hochhuth, che poneva il dilemma morale se fosse lecito assistere al male senza fare tutto quanto è in proprio potere per impedirlo).

Se il Vaticano non appoggio' esplicitamente l'invasione dell'URSS, ciò fu dovuto non tanto alla sua freddezza verso la "crociata" antibolscevica, quanto ai dubbi... sui crociati (i quali, comunque, vennero entusiasticamente sostenuti da larghissima parte del clero italiano).

In merito al comportamento di Papa Pacelli si rimanda alle note di Salvemini, che rivelo' puntigliosamente le udienze concesse da Pio XII a schiere di soldati dell'Asse, avvalorando l'impressione di suggellare con le sue benedizioni la marcia delle armate nazifasciste: "quando parlava alla radio a tutto il mondo, Pio XII pregava per la pace ed esortava alla pace. Quando parlava a soldati tedeschi e italiani ammirava l'eroismo dei combattenti. Visto e considerato che soldati francesi, inglesi e americani non potevano andare a Roma a farsi benedire, Pio XII avrebbe fatto meglio ad astenersi da quelle benedizioni e da quei discorsi a soldati che si battevano agli ordini di Mussolini e di Hitler " (cfr. G.Salvemini, Stato e Chiesa in Italia, Feltrinelli, 1969, pp.415).

- Guerra e pace nel secondo dopoguerra

La svolta rispetto alle tematiche della guerra si ebbe con il Concilio Vaticano II e con l'enciclica Pacem in terris (11 aprile 1965). In quel documento -e nella successiva Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo- si sostenne l'assurdità della guerra nucleare e si auspico' l'attuazione di un processo di disarmo "non unilaterale". Tuttavia, di nuovo, ecco il segno della "doppiezza" vaticana: contestualmente alla presa di distanza dal fenomeno bellico si rilancio' la presenza dei ministri di culto negli eserciti col Decreto conciliare Christus Dominus, nel quale si suggerì che in ogni nazione venisse eretto un Vicariato Castrense, per segnare la presenza istituzionale della Chiesa nel mondo militare (in molti Stati i dignitari ecclesiastici ottennero l'equiparazione ai gradi militari).

Troppo nota -ma sempre meritevole di considerazione- è la polemica del 1965 tra don Milani ed i Cappellani militari toscani per trattarne in questa sede.

E veniamo, finalmente, alla posizione assunta dalla Chiesa sulla guerra nel Golfo.

Premesso che anche in questa occasione riteniamo doversi ricercare le ragioni dell'opzione di Giovanni Paolo II nella difesa degli interessi contingenti della cristianità, cerchiamo per l'appunto di precisare i punti fondamentali perseguiti dalla diplomazia vaticana. Vediamo innanzitutto di tracciare le principali preoccupazioni connesse con la guerra del Golfo: l'ansietà per la sorte delle comunità cristiane all'interno del mondo arabo (espressesi concordemente contro l'intervento militare in Kuwait), il timore che i mussulmani potessero interpretare l'intervento occidentale come una crociata cattolica (con le immaginabili conseguenze ai danni delle minoranze religiose), la sensibilità per la questione palestinese (congiunta a residuali sentimenti antiebraici), la volontà di regolare con un assetto stabile la situazione del Libano e di garantire la sicurezza della locale comunità maronita.

Rispetto a queste esigenze, dunque, si comprenderà come l'intervento multinazionale fosse del tutto incoerente e controproducente. Da qui la condanna di questa guerra, espressa con fermezza dalle colonne de "L'Osservatore Romano". Il quotidiano vaticano invoco' per il Medio Oriente "quella pace giusta e duratura che è dono prezioso di Dio ed aspirazione profonda del cuore umano", come riporta la titolazione di prima pagina del 28 febbraio (ma, a significare la premurosa attenzione alle vicende nazionali ed ai sentimenti popolari, una fotografia affiancata al suddetto titolo mostrava il Papa a colloquio con i familiari dei due piloti italiani catturati dagli irakeni, sui quali tante ondate di commiserazione vennero montate dai mass media italiani).

Sul numero del 2 marzo de "L'Osservatore Romano" venne riprodotto il testo del discorso rivolto da Wojtyla al Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, occasione nella quale l'oratore si espresse sui riflessi bellici degli strumenti informativi, lamentando il mancato rispetto della verità ed individuando nella informazione distorta una fonte di ingiustizia. Oltre a mettere sotto accusa agenzie giornalistiche e radiotelevisive per il compiacimento bellicistico, il Pontefice intese probabilmente mostrare il disappunto per le polemiche sollevate dal suo pacifismo, polemiche aspre che in qualche misura lo indussero a rettificare il tiro ed a precisare - domenica 17 febbraio, durante una visita nella parrocchia romana di S.Dorotea- la sua posizione "Noi non siamo pacifisti. Non vogliamo la pace ad ogni costo. Pace giusta, pace e giustizia. La pace è sempre opera della giustizia. Ma è anche frutto della carità, dell'amore". Tale precisazione (della quale, valutata la genericità della seconda parte, le fonti informative enfatizzarono il riferimento al rifiuto del pacifismo come ideologia) non poteva non restituire al governo, alla DC e finanche ai partiti laici testé sbilanciatisi in una polemica antipapalina che riecheggiava il peggior anticlericalismo d'altri tempi, una nuova apertura di credito ed una possibilità di recupero. Come puntualmente avvenne.

All'intervento di Wojtyla fece corona la dichiarazione del Rettore della Pontificia Università lateranense (mons. Pietro Rossano, Vescovo vicario di Roma), che dai microfoni di "Radio Vaticana" getto' un secchio d'acqua fredda sui fervori di quei pacifisti laici che per qualche settimana si erano sentiti in trincea fianco a fianco con Wojtyla: "Chi professa un pacifismo a oltranza senza proporre soluzioni operative non è più vicino alla pace di quanti giudicano inevitabile la guerra nel Golfo". Ecco serviti di tutto punto gli improvvisati catecumeni del PCI ed anche personaggi solitamente ponderati come Giampaolo Pansa, che dalle colonne de "L'Espresso" era uscito con un'inopinata dichiarazione di fedeltà al Pontefice: " Sì, di fronte allo schifo della guerra, mi onoro di essere un papista al seguito di Wojtyla". A chiarire ulteriormente le posizioni intervenne la festa per l'anniversario dei Patti lateranensi e della loro revisione del 1984, svoltasi alla presenza di Cossiga nell'ambasciata d'Italia in Vaticano. La celebrazione divenne l'occasione per tessere le lodi del "provvidenziale" Concordato e per decantare le ragioni della politica (nella fattispecie, della partecipazione italiana all'azione di "polizia internazionale", per usare l'eufemismo che solo un cattolico del calibro di Andreotti avrebbe potuto coniare) per bocca del Segretario di Stato mons. Sodano.

Immediato l'ossequio dei chierichetti del settimanale "Il Sabato", che sul numero del 2 marzo titolarono "Trattato benedetto" un articolo ostentatamente papalino, nel quale, oltre a vantare le solide garanzie offerte dal Trattato mussolinian- craxiano alla missione del Pontefice- non esitarono a polemizzare con la parte maggioritaria della DC, per i toni dissonanti rispetto alle posizioni di Wojtyla. E la lettura del settimanale ciellino lascia l'impressione che, al di là della guerra nel Golfo, l'oggetto del contendere fosse ben altro, e cioè il dogma dell'obbedienza perinde ac cadaver al verbo del discendente di Pietro.

A questo punto, proviamo a trarre alcune provvisorie conclusioni. L'idillio tra pacifisti laici (PCI, Verdi, DP ecc.) e il Papa è durato poco, e probabilmente le integralistiche bordate scagliate da Giovanni Paolo II verso la metà di marzo contro le degenerazioni morali delle popolazioni emiliane e toscane segneranno una presa di distanza dal Pontefice, le cui posizioni sulla guerra -come si è visto, rettificate- rispondevano, almeno in parte, ad esigenze, sia pur nobili, di parrocchia. Nel senso, precisiamo, di intervenire con nettezza laddove sono in gioco gli interessi della cristianità, mentre in altre circostanze si dimostra minore sensibilità: quando, pochi anni or sono, erano le ineffabili milizie maronite (le ricordate? con le decalcomanie di Cristo sui fucili mitragliatori) ad imperversare, la S.Sede non parve preoccuparsi degli "infedeli" che venivano a trovarsi sulla traiettoria di quelle pallottole benedette. Ora che in Libano le formazioni armate cristiane si trovano a malpartito, Wojtyla chiede a gran voce una risoluzione stabile per il Medio Oriente. Richiesta più che legittima, ed in buona parte condivisibile, peraltro. Ma non si contrabbandi per missione universale quella che ci pare piuttosto duttile, empirica e finanche opportunistica attenzione ad interessi particolari.

E soprattutto, in quello che resta a sinistra dello scomposto fronte laico, non ci si faccia ottenebrare dalla voluttà di trovarsi finalmente dalla parte... dei fedeli, incorrendo in un macroscopico errore di prospettiva. Al di là di momentanee ed occasionali intese, il rispettivo percorso diverge, a meno che noi non si voglia accettare la reductio ad unum e ritornare all'ovile. Ma, per piacere, non si mascheri questo sotto le spoglie di una ritrovata visione pacifista. Per non ritrovarci magari, un domani, nel gregge ad applaudire nuove guerre sante... indette nel nome della Cristianità.

 

I cristiani e la guerra

Massimo Toschi

 

In un tempo di grande stanchezza per la nostra chiesa e anche per la società, siamo chiamati a vivere il tema della fede come resistenza e della resistenza della fede. Questo ci costringe a guardare con coraggio dentro noi stessi, le nostre scelte, le nostre omissioni. Troppe volte abbiamo fatto passare come resistenza ciò che invece aveva il volto cinico di un adeguamento astuto al mondo. Basterebbe guardare al fatto che la profezia si è svuotata, nella chiesa, in proclamazione di astratti principi e che la dignità della politica si è frantumata in una logica di opportunismo e di piccola furbizia.

ATTUALIZZAZIONE DI UNA PAGINA DI BONHOEFFER
   Scrivendo a dieci anni dall’avvento di Hitler in Germania, Bonhoeffer si pone il problema di chi resiste di fronte all’ostensione del male, nella sua abissale malvagità. Si cercherà di leggere questo testo, provando a farne un’attualizzazione rispetto alla situazione di oggi, con tutti i limiti di un’operazione di questo genere. In modo particolare prenderemo come riferimento le guerre di oggi, a partire dalla guerra del Kosovo. Questo testo, presente in Resistenza e resa, presenta una tipologia di coloro che pensano di resistere.

  1. Bonhoeffer denuncia innanzitutto il fallimento degli "esseri razionali", di chi cioè crede che la ragione sia qualcosa al di sopra delle parti, capace di regolare e di trovare soluzioni adeguate al conflitto delle parti.
    Sono coloro che quando il conflitto diventa supremo, non hanno più parole da dire né gesti da compiere, ma si arrendono, diventandone partecipi e giustificatori, ai meccanismi sottili della forza e del dominio. Sono gli illusi che pensano di contenere la guerra con la forza della ragione, e si trovano a predicare le ragioni della forza.

  2. C’è poi il fallimento del "fanatismo etico". Sono coloro che si accontentano dell’astratta declamazione dei principi, dei loro principi, senza assumersi la fatica e la responsabilità di analizzare i reali meccanismi di violenza e di dominio. Essi non sanno guardare lontano, oltre le pareti della loro ideologia, non si piegano su chi si trova nella prova, ma si ritengono soddisfatti di comprimere il mondo nelle loro idee.
    Sono inevitabilmente destinati a stare nel coro di chi canta le lodi dei più forti. Essi arrivano sempre dopo gli eventi e cercano di affermare ad alta voce le loro ideologie, nella convinzione che questo basti a cambiare il mondo.

  3. C’è poi l’uomo di coscienza", che da solo pensa di combattere contro le contraddizioni e le complessità della storia. "S’accontenta di avere una coscienza salva, invece che una buona coscienza, finché non mente alla propria coscienza per sfuggire alla disperazione".
    Sono coloro che non sanno misurarsi con la durezza della realtà, che arrivano a manipolare la realtà, per avere la coscienza tranquilla. Pur di custodire la coscienza, si preferisce credere a ciò che altri ci fanno credere. Basti ricordare, nel nostro paese, un certo solidarismo a buon mercato e consolatorio, che è stata l’altra faccia di una guerra fatta credere come umanitaria.

  4. Viene poi indicata "la via del dovere": "Ciò che viene ordinato viene inteso come la cosa più certa; la responsabilità dell’ordine è di chi l’ha impartito, non di chi lo esegue. Ma attenendosi strettamente al dovere, non si giunge mai al rischio di agire sotto la propria responsabilità, che è la sola maniera di colpire in pieno il male e per superarlo".
    È la via di chi nasconde le proprie responsabilità dietro al rispetto comodo e astuto delle alleanze e degli impegni presi, che usa dei conflitti e della guerra per accreditarsi come colui che è capace di rispondere agli obblighi dati. La tipicità di questo atteggiamento si trova in coloro che fanno dell’obbedienza alle alleanze il paravento dietro cui porre il loro opportunismo politico, che li esenta dalla fatica di trovare vie impervie e originali alla pace.

  5. Ci sono poi coloro che si vogliono "sporcare le mani, per trovare una qualunque soluzione ai conflitti": "Chi è disposto a sacrificare lo sterile principio al compromesso fruttuoso, la sterile saggezza della moderazione al radicalismo fruttuoso, badi che la sua libertà non lo porti alla rovina. Egli accetterà il male per allontanare il peggio e non sarà più in grado di riconoscere che proprio il peggio, che egli vuole evitare, potrebbe essere il meglio. Qui sta la matrice originaria di tante tragedie".
    Dietro questa descrizione stanno i difensori del minor male, che in questo modo hanno giustificato i mali peggiori. Sono i padri e i figli di una cultura di guerra, che pensano che la guerra sia l’unico strumento capace realisticamente di produrre la pace. E dunque hanno inventato degli aggettivi nobili per dare dignità di pace alla guerra: dalla guerra giusta alla guerra umanitaria. Volendo resistere alla guerra, ne hanno fatto l’unico strumento per realizzare la pace, rendendo così credibile ogni guerra, anche la più terribile.

  6. C’è infine chi pretende di resistere "chiudendosi nello spazio della sua interiorità, lasciando che la storia prosegua il suo corso, con il risultato o di rimanere schiacciato sotto la responsabilità per quello che non fa e potrebbe fare o di assumere la logica del fariseo, che trova la sua autogiustificazione nelle sue leggi religiose".
    Basti pensare all’uso che si è fatto delle infinite veglie di preghiera per la pace, all’uso civile di liturgie riparatrici quando c’è un grande lutto nel paese, quasi che si potesse usare la preghiera per coprire le nostre omissioni e le nostre responsabilità. La preghiera in queste situazioni sembra darci una coscienza tranquilla, che ci permette di riprendere il cammino senza che nulla cambi nella nostra vita, senza sentire la responsabilità di cambiare nel profondo la storia.

IL VERO RESISTENTE
   Il testo si conclude con una domanda: chi resiste? La risposta di Bonhoeffer è netta: "Soltanto colui che non ha come ultima istanza la propria ragione, il proprio principio, la propria coscienza, la propria libertà, la propria virtù, ma è disposto a sacrificare tutto questo, quando viene chiamato a un’azione responsabile e obbediente, nella fede e in un vincolo esclusivo con Dio: il responsabile, la cui vita non vuole essere che una risposta all’interrogativo e alla chiamata divini".
   Il vero resistente, allora, è colui che vive in modo radicale la chiamata di Dio e la sua obbedienza a lui. È proprio questa sottomissione assoluta alla signoria di Dio che genera una fecondità storica, che dona al credente di compiere azioni che operano nella storia secondo il realismo dell’Evangelo, non temendo l’opposizione del mondo.
   Ma ci sono testimoni di questa resistenza? La domanda di Bonhoeffer rimbalza su di noi, senza offrire risposte consolatorie. Anzi la sua conclusione è ancora più drammatica: "Siamo stati testimoni muti di azioni malvagie, ci siamo lavati con molte acque, abbiamo imparato l’arte della mistificazione e del discorso ambiguo, l’esperienza ci ha resi diffidenti verso gli uomini e spesso abbiamo loro mancato nella verità e nella libera parola; conflitti insopportabili ci hanno reso arrendevoli e forse persino cinici. Serviamo ancora a qualcosa? Ci sarà rimasta tanta forza di resistenza interiore contro le situazioni imposteci, ci sarà rimasta tanta spietata sincerità verso noi stessi da poter ritrovare la strada della semplicità e della rettitudine?".

LA FEDE COME RESISTENZA
   Scrive Pietro: "Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà la grazia agli umili… Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze di voi. E il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo, egli stesso vi ristabilirà, dopo una breve sofferenza vi confermerà e vi renderà forti e saldi" (1 Pt 5,5-10).
   La citazione tratta dal Libro dei Proverbi è ripresa anche da Giacomo, che la colloca in un passaggio che riguarda le cause della guerra e all’interno di un’alternativa secca: "Non sapete che amare il mondo è odiare Dio? Chi dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio" (Gc 4,4).
   Dunque c’è una prima resistenza ed è quella di Dio davanti ai superbi e i cristiani partecipano e sono chiamati a rendere visibile questa resistenza. Essa ha il suo centro nella passione del Signore: è in Gesù che Dio resiste ai superbi, è la croce il luogo di questa resistenza: "A questo infatti siete stati chiamati, poiché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno nella sua bocca, oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a Colui che giudica con giustizia" (1 Pt 2,21-23).
   La resistenza di Gesù si manifesta nella perfetta obbedienza al Padre e al tempo stesso nella resistenza assoluta alla logica violenta della forza, in qualunque modo giustificata e legittimata. Proprio l’obbedienza al Padre chiede questo, proprio la comunione con il Padre genera questo.
   Dio resiste ai superbi perché è il Dio della pace e dei poveri, il Dio crocifisso, che giudica i pensieri dei superbi e ne smaschera i mezzi violenti con la consegna del Figlio sulla croce. Dio resiste alla logica del mondo inaugurando con l’evento della croce il tempo del perdono, della condivisione, della pace.
   Resistere
è vivere la mitezza là dove la violenza è più grande; è testimoniare la pace al cuore dei conflitti, è stare nella casa dei poveri di fronte al dominio dei potenti. Questa è la via di Gesù, iniziata a Nazareth e compiuta sulla croce. Quando Pietro ci indica di seguire le orme di Gesù, indica esattamente questa strada: una strada a caro prezzo.

LA RESISTENZA DEI CREDENTI
   I discepoli del Signore non hanno una loro resistenza da fare, ma partecipano e vivono dell’unica resistenza che Dio ha compiuto in Gesù di fronte al mondo e al suo principe.

Resistenza come sequela
   Se la resistenza di Dio si compie in Gesù, la sequela indica per il credente la misura concreta della resistenza cristiana. Pietro indica in una condizione umiliata, nella vigilanza e nella sobrietà le caratteristiche della sequela, là dove Dio dona la grazia della resistenza nella fede. Tutto questo per discernere dove la mondanità e lo spirito del mondo prendono il sopravvento e cercano di catturare il cuore dei credenti, conformandoli al buon senso comune e a una riduzione etica della fede.
   I giorni della guerra hanno mostrato un forte adeguamento dei credenti alla ragione politica, spesso giocata sulla menzogna e sulla manipolazione ideologica. Oppure hanno reso visibile un pacifismo ideologico del giorno dopo, che non cerca di prevenire le guerre e i conflitti, ma si contenta moralisticamente di condannarli, spesso con ambigue intenzioni.
   Abbiamo percepito in questo tempo un’assenza di profezia e un’assenza di politica, segno  concreto di un sale che perde il sapore, di una chiesa che non sa più riconoscere la sua casa tra i poveri e tra le vittime.
   Siamo stati operatori di solidarietà, ma non di pace. La pace scandalosa dell’Evangelo è stata messa tra parentesi. È stata consegnata nella mani di generali e politici, con il risultato che ci è toccato di vedere degli agnelli diventati come lupi e dei lupi che pretendevano di apparire agnelli.
   Non abbiamo seguito le orme di Gesù, ma quelle dei soldati e dei bombardieri. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è che hanno perso la fede e la politica, sono aumentate all’infinito le sofferenze dei poveri e delle vittime, è cresciuto l’odio, sono germogliati motivi per nuovi conflitti.

Resistenza come ascolto di Dio
   La resistenza al mondo, ai superbi del mondo, è frutto dell’ascolto di Dio. È’ nell’ascolto del Signore che si genera la forza per resistere: "Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati, perché io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché lo ascolti come gli iniziati. Il Signore Dio mi assiste… per questo rendo la mia faccia dura come pietra" (Is 50,5-7).
   È perché il servo ha ascoltato, che la sua faccia si è fatta dura di fronte ai violenti del mondo. È la sottomissione a Dio che rende possibile la resistenza di fronte ai potenti. Quando i cristiani si perdono in ragionamenti vuoti che servono a legittimare la guerra e la violenza, mostrano che non sono figli dell’ascolto di Dio, che non sono plasmati da questo ascolto, che preferiscono stare alla tavola dei potenti per elaborare nuove etiche che diano buona coscienza ai signori del mondo, piuttosto che essere incatenati nei pretori, solidali davvero con le vittime della terra. Si vuole essere interlocutori credibili, si cerca di esser efficaci, in realtà si rimane prigionieri nel coro di una cultura di guerra.

Resistenza come ascolto delle vittime
   Alla fine di questo secolo, di cui la guerra è la cifra più profonda, possiamo dire che ogni guerra che in esso è avvenuta ha sempre trovato un cristiano pronto a difenderne le ragioni in nome di una astratta etica, che non è mai stato capace di guardare nel profondo il volto delle vittime. Basti pensare alla teoria degli "errori" durante la guerra nel Kosovo, che permetteva alla guerra "umanitaria" di mantenere la sua coerenza anche se si uccidevano civili inermi, che non avevano nessun legame con obiettivi militari, che avevano tutto il diritto di vivere e la cui uccisione è condannata da ogni diritto anche di guerra. Ma le vittime non hanno volto, non hanno nome. Nei filmati sono apparse sempre come una scomoda coreografia di una guerra capace di colpire obiettivi con la massima precisione. Quei filmati in realtà nascondevano tutta la tragedia degli inermi che morivano, delle sofferenze che si aprivano nella vita di molti.
   Hanno cercato di spiegarci che tutto questo era, come si dice nella cultura della guerra, un male necessario, che per una pace giusta si dovevano sopportare anche questi errori e che anche i credenti dovevano riconoscere le ragioni di questa guerra. Qualcuno, molto autorevole, è arrivato a parlare dell’ingerenza umanitaria in Kosovo e dunque dell’azione della Nato come la realizzazione storica del "buon samaritano".
   Ma i discepoli del Signore che si fa vittima sono chiamati ad ascoltare non le parole dei sapienti della guerra, ma il grido muto delle vittime: perché in quel grido c’è il grido del Signore sulla croce, là dove è vittima in mano di altri: "Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio". Dio chiamerà suoi figli gli operatori di pace, perché ameranno i nemici e faranno la pace a misura del Figlio che si fa vittima, resistendo alla tentazione della violenza per sconfiggere il male alla radice, e inaugurando il tempo del perdono. Dio diventa vittima perché le vittime siano ascoltate; i cristiani riconoscono la via della pace secondo Dio e non secondo il mondo quando stanno dalla parte delle vittime, di tutte le vittime.

Resistenza come martyria
   La resistenza cristiana ha il suo punto alto nella testimonianza del Vangelo fino alla consegna della vita. Oggi il martirio in molte parti del mondo è la misura di una resistenza cristiana che si affida alle armi del Signore: l’annuncio del Vangelo, la pace, la condivisione di vita e di destino con i poveri e con le vittime.
   Da Romero ai sette monaci dell’Atlas, appare una nuova fecondità storica del Vangelo, che non si esprime in un progetto o in una ideologia, che non si affida ai mezzi forti del mondo, ma che si incarna nella vita e nella morte violenta di coloro che resistono alla logica del mondo non cercando un dominio religioso, ma consegnando la vita per tutti, in primo luogo per i nemici, come ha fatto il Signore.
   Questa linea di resistenza così è presentata da mons. Claverie, vescovo martire di Orano, in una drammatica omelia in cui affronta il decisivo problema dei cristiani in Algeria, chiamati a scegliere se partire o restare: "È il momento di restare, anche in silenzio ed impotenti, al capezzale di coloro che amiamo: una semplice offerta di presenza, per stare vicini a chi soffre anche solo tenendolo per mano. Questo attesta la nostra volontà di amare gratuitamente… i calcoli troppo umani rischiano di pervertire il meccanismo interiore della missione cristiana: la chiesa non è nel mondo per conquistarlo e neppure per salvarsi, insieme ai suoi beni e al suo personale. Essa è, con Gesù, legata all’umanità sofferente".

CONCLUSIONI
   Quando si parla di resistenza cristiana, non si vuole dunque indicare un modo di difendere spazi di società o un progetto per influenzare l’economia e il governo del mondo, ma stili e di forme di presenza ecclesiale che, nella loro debolezza e fragilità, cercano solamente di resistere alla mondanità, nelle sue molteplici forme, con la forza inerme e creatrice del Vangelo.
   Non c’è una dottrina della resistenza cristiana, ma ci sono cristiani che, per grazia di Dio, al cuore dei conflitti, là dove sistemi ingiusti pretendono di esercitare il loro dominio, resistono testimoniando che l’amore è più forte della morte: secondo il paradosso evangelico del seme che muore per produrre frutto, del farsi poveri per arricchire tutti, del diventare maledizione perché tutti siano benedetti, del dare la vita per i nemici, del perdonare fino a settanta volte sette. Quando questo accade, diventa visibile la resistenza di Dio nei confronti dei superbi.
   Talora questi cristiani non sono riconosciuti dalle chiese, talora le chiese non cercano la sottomissione a Dio e la resistenza alla mondanità, ma al contrario si sottomettono alla mondanità e induriscono il loro cuore di fronte alla Parola di Dio; ma questo non può giustificare nessuno dal venir meno alla vocazione di una resistenza secondo lo Spirito, perché i poveri e le vittime, per continuare a sperare, domandano cristiani che cercano solamente il Regno di Dio e non si arrendono alle culture e ai poteri dominanti.
   La democrazia, la giustizia sociale ed economica, l’identità culturale e l’ambiente diventano luoghi teologici nei quali esercitare la profezia della fede, il discernimento della resistenza cristiana. Non si tratta di costruire una nuova dottrina sociale cristiana, ma di generare credenti che nello Spirito sappiano leggere i segni dei tempi, rendano visibile la fecondità storica del cristianesimo secondo un’originalità mai definita una volta per tutte ma continuamente alimentata dall’azione della grazia, e per questo siano capaci di una testimonianza, coraggiosa ed efficace secondo il Vangelo, dell’amore di Dio e del più piccolo dei fratelli.

NON RICETTE ETICHE MA LA VIA DELLA TESTIMONIANZA
   Le parole di Bonhoeffer erano dette quando Hitler era vincente in Europa e nel mondo, ma hanno straordinario valore anche per noi, in un tempo in cui la chiesa in Occidente sembra indicare più la via delle ricette etiche che quella della bella testimonianza.
   C’è una stanchezza dei credenti, che è figlia di un ruolo etico che la società sembra sempre più domandare, e di un riconoscimento dell’azione ecclesiale, a cui si chiede una legittimazione etica della politica. Il risultato è "lo svuotamento della parola della croce", è il venir meno della testimonianza coraggiosa dei credenti, che sempre più stanno nel coro.
   Spesso le parole e i gesti delle chiese sulla guerra e sull’economia hanno più il sapore di vecchie e stanche dottrine, sia pure aggiornate, che l’assunzione davanti al Crocifisso dei drammi della storia. Volendo incidere sui grandi poteri e modificarne i comportamenti, si percorre la via dell’ideologia e non quella della profezia. Il risultato è l’elaborazione di una dottrina sociale, che ha la pretesa di umanizzare l’economia e la guerra, con l’effetto di giustificarne i meccanismi profondi.

LA RESISTENZA CRISTIANA
   La resistenza cristiana è una resistenza nella pazienza e nella mitezza, che ha il volto della condivisione della vita con chi soffre e con chi è vittima. Una condivisione che ha il prezzo più alto e rappresenta una perfetta assimilazione al mistero di Gesù, il testimone fedele.
   P. Christian, priore di Tibhirine, pochi giorni prima del sequestro, indica le parole costitutive della resistenza cristiana: pazienza, povertà, presenza, preghiera, perdono. Così conclude: "Perdono è il primo nome di Dio nella litania dei 99 nomi, Ar Rahman, Ar Rahma. E la pazienza è l’ultimo nome dei 99, Es Sabour. Ma Dio è al tempo stesso povero. Dio è al tempo stesso presente, è al tempo stesso preghiera. Ecco la pace che Dio dona. Non è come la dona il mondo".
   Queste parole sono l’ultima consegna di Christian prima del suo martirio e il martirio dà ad esse la parresia del Vangelo.

 

Tratto da Missione Oggi dicembre 1999
 

 

 

 

 

 

 

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