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| . . . . . . . . . . . . . |   ACTION FOR PEACE:Perché, come, quando – le sfide di oggi
 Conoscenza e solidarietà, dire la veritàGli anni dell’intifada delle pietre erano stati
          segnati dalla resistenza popolare fatta di tante donne e tanti
          giovani, all’occupazione israeliana e dalla speranza di uno Stato
          palestinese, per vivere in libertà e 
          pace accanto allo Stato di Israele; quelli più recenti, della
          seconda intifada, sono segnati dalla frustrazione di un intero popolo
          per una occupazione militare e coloniale crescente, una speranza di
          pace caduta, la libertà negata, mentre è cresciuta la divisione
          politica interna, le donne sono rimaste ai margini, si è acuita la
          disuguaglianza sociale, dentro cui ha operato il fondamentalismo. Nel
          1990 il movimento per la pace internazionale aveva abbracciato
          Gerusalemme con la passione e la consapevolezza “del tempo di
          pace”: dopo la provocatoria passeggiata di Sharon, nel 2000, sulla
          spianata delle moschee, quando, alla reazione dei ragazzi palestinesi
          delle pietre, nei punti dell’accerchiamento militare delle città
          “autonome,  sono state
          opposte bombe e mitragliatrici, è emerso con forza il problema di una
          azione nuova, di un pacifismo attivo per la protezione della
          popolazione civile, di una solidarietà globale.Dalla
          fine del 2000, le delegazioni pacifiste che si sono recate in
          Palestina e Israele, insieme alla solidarietà, hanno messo in moto la
          conoscenza di una drammatica situazione che in sette lunghi anni
          dall’accordo di Oslo si era creata. E’ venuto alla luce quanto
          poco foriero “di pace”fosse il processo svoltosi in quei sette
          anni. Il permanere dell’occupazione, insieme alla frammentazione del
          territorio ad opera degli insediamenti coloniali nel frattempo
          raddoppiati, rendevano impossibile per i palestinesi accettare questa
          situazione, che minava alle radici la possibilità di uno Stato
          indipendente. “Dire
          la verità” nel nostro paese, contro l’isolamento internazionale
          dei palestinesi che avevano osato dire di no a soluzioni ingiuste, è
          stata per alcuni mesi l’attività fondamentale, delle varie
          associazioni, a cominciare dal progetto “ io donna vado in
          Palestina”, delle donne in nero e non solo, mentre si faceva sempre
          più pressante la richiesta di protezione internazionale per la
          popolazione civile. Abbiamo
          ripreso a conoscere una realtà, per sette anni oscurata dalla delega
          su “il processo di pace” affidata unicamente agli Stati Uniti. Ci
          si è resi conto del colpevole silenzio della Comunità internazionale
          e dell’Europa di fronte al logorarsi del processo di pace, che
          assisteva immobile alla morte di una speranza, di pace e di sicurezza,
          nella società palestinese e in quella israeliana, già scossa
          dall’assassinio di Rabin, maturato in una società divisa e
          impoverita, in cui cresceva il rifiuto della destra fondamentalista ad
          ogni ipotesi di pace. L’immigrazione
          dall’Africa e dalla Russia di oltre un milione e mezzo di persone
          comportava costi economici alti, ma non una più alta coesione
          sociale, anzi. L’insicurezza sempre più profonda ha corroso anche
          il campo di pace israeliano, non in grado di vedere il nesso
          necessario tra politiche di pace e benessere economico e sociale. Il
          suo sfaldamento è andato di pari passo con la chiusura della società
          e la crescita del sentimento che la causa dei propri problemi sia
          nell’”altro”, un “nemico” vicino di casa.   Guerra e terrorismo Le
          elezioni di Sharon sono state anche frutto di questa grande
          insicurezza e avversione a politiche che, in nome della
          globalizzazione, spostavano le fabbriche nei paesi arabi a bassissimo
          costo di manodopera, mentre per catturare il consenso si era dato
          grande spazio a nuove e illegali colonie. Dopo una campagna elettorale
          centrata sulla volontà di “sistemare le cose” con i palestinesi,
          fare piazza pulita degli accordi di Oslo, per garantire
          “sicurezza” alla società israeliana, la scelta di Sharon è stata
          spingere i palestinesi ad una militarizzazione del conflitto (che per
          alcuni mesi si era retto solo sul lancio delle pietre da parte di
          giovani, maggioranza delle prime vittime dell’esercito israeliano)
          che, data la disparità di forze, avrebbe condotto inevitabilmente
          alla loro sconfitta, non tenendo a mente quello che già nell’88
          ebbe a dire Rabin “ho appreso una cosa in questi ultimi mesi: non
          potrete mai governare con la forza un milione e mezzo di palestinesi:
          è una lezione dalla quale dobbiamo trarre le conseguenze”. Obiettivo
          della politica del governo israeliano è la negazione della possibilità
          di costruire uno Stato Palestinese, distruggendo l’ANP e utilizzando
          gli strumenti della umiliazione e violenza su tutta la società
          palestinese. Chiusura strettissima delle città che impedisce di
          andare al lavoro, a scuola o all’ospedale, impedisce la libertà di
          movimento; distruzione dell’economia per l’impossibilità di
          produrre e commerciare; distruzione dell’agricoltura con
          sradicamento di migliaia di alberi di ulivo e 
          da frutta; fine del turismo; e poi bombardamenti e omicidi; la
          guerra è contro i civili, contro un intero popolo. Questa
          guerra si intensifica dopo l’attentato terrorista dell’ 11
          settembre negli USA: la politica di Bush in Afghanistan, attraverso
          bombardamenti di villaggi e stragi di civili, definita come guerra
          infinita al terrorismo, diventa in realtà la rappresentazione di una
          nuova fase. La guerra militare si unisce a quella economica e sociale
          come dimensione permanente in cui il conflitto Israele/Palestina
          diventa un caso emblematico, rimandandoci addirittura immagini
          analoghe, come nel caso dei prigionieri, mentre si sviluppa una
          campagna di identificazione tra ANP e terrorismo e aumenta in Israele
          il numero di attentati contro la popolazione civile.Di fronte alla
          immobilità e silenzio delle Istituzioni nazionali e internazionali,
          la pratica del pacifismo, caratterizzata dalla solidarietà e
          vicinanza con le popolazioni coinvolte nei conflitti, pone il problema
          della protezione internazionale della popolazione civile e pratica
          l’interposizione in prima persona, anche come sostegno alla
          resistenza non violenta, con palestinesi e israeliani e missioni
          civili di altri paesi.   Interposizione, resistenza non violenta, protezione della popolazione
          civileLa
          necessità di uscire dalla militarizzazione del conflitto, che riduce
          sempre piu la partecipazione popolare alla resistenza, il bisogno di
          rompere l’isolamento, porta diverse organizzazioni e gruppi della
          società civile palestinese a promuovere una campagna internazionale
          per la protezione del popolo palestinese (GIPP).  Action
          for peace, coordinando varie associazioni, gruppi, sindacati, ong, si
          sviluppa in risposta a questo appello, con una propria piattaforma. Si
          intende operare con una diplomazia dal basso in relazione alle
          popolazioni colpite e a quelle forze che intendono praticare nei due
          luoghi la non violenza, attraverso l’interposizione nei luoghi del
          conflitto armato, strumento principale per sollecitare le istituzioni,
          in particolare l’Europa, e nello stesso tempo agire direttamente,
          insieme a palestinesi, israeliani e attivisti di altri paesi. In
          Israele, di fronte ad una guerra che fa strage di diritti umani,
          mietendo migliaia di vittime e umiliando continuamente i palestinesi,
          che favorisce il fondamentalismo e il terrorismo, molti gruppi si
          attivano, con manifestazioni, azioni di solidarietà, con la
          resistenza palestinese non violenta. Alcuni 
          riservisti obiettano al servizio militare, rifiutano di andare
          a sparare sui propri vicini, mettono in discussione questa guerra. A
          fine anno nasce una coalizione per la pace tra israeliani e
          palestinesi (personalità della cultura e della politica), promossa
          dal rettore dell’Università di Gerusalemme Sari Nusseibeh, David
          Grossman e molti altri per raggruppare intorno a “Time for Peace”
          tutti coloro che in un campo e nell’altro vogliono la ripresa di un
          dialogo. Negli
          stessi giorni oltre 250 persone, sulla base della piattaforma di
          Action for Peace, dall’Italia vanno nei territori occupati e
          Israele, praticando insieme a delegazioni di altri paesi,
          l’interposizione pacifica e la solidarietà sul campo con la
          presenza ai check point, fronteggiamento a mani alzate dei carri
          armati, incontri, discussioni, manifestazioni. Alla posizione
          irrealistica  e ottusa
          della “equidistanza”, che nega la differenza tra paese occupato e
          paese occupante, che in Italia ed Europa caratterizza le reazioni di
          politica e istituzioni, si contrappone la vicinanza attiva alle
          persone nei luoghi colpiti su una scelta comune: fine
          dell’occupazione; smantellamento delle colonie; creazione dello
          Stato Palestinese lungo i confini del 1967; soluzione al problema del
          diritto al ritorno  per i
          profughi. Sollecitare forze di interposizione internazionali, come
          condizione per riaprire la strada per una pace giusta: su questo
          Action for Peace manifesta anche a Bruxelles, all’interno del
          coordinamento europeo, il 27 febbraio, richiedendo inoltre la
          sospensione dell’accordo economico di associazione di Israele
          all’Unione Europea.   Disobbedienza
          alla guerra, rifiuto del terrorismo, azioni per la pace  Nei
          primi mesi dell’anno si intensificano sul territorio di Israele gli
          attentati suicidi che fanno centinaia di vittime, aumentando il senso
          di paura e insicurezza nella società israeliana, sentimenti sui quali
          Sharon costruisce la sua “guerra al terrorismo”: passa
          dall’occupazione e dall’assedio, alla invasione dei territori
          palestinesi, con rastrellamenti di massa, centinaia di morti, fino
          alla barbarie dei crimini di guerra. L’esercito israeliano fa
          prigioniero il presidente Arafat nella sua stessa residenza e poi lo
          stringe in un assedio vero e proprio, senza luce né acqua, sotto le
          mitragliatrici dei carri armati, a Ramallah. Continuano le varie
          delegazioni e staffette – all’interno della piattaforma di Action
          for Peace, e coordinate volta per volta da diverse associazioni – 
          e si prepara per la Pasqua del 2002 una carovana della pace. Oltre
          400 persone, moltissimi giovani, in una situazione per la maggior
          parte sconosciuta, di fronte alla violenza della guerra,  praticano nei territori disubbidienza civile, 
          trasgredendo le regole imposte da un esercito israeliano che
          viola tutte le regole internazionali, compresa la Convenzione di
          Ginevra sui diritti umani in tempo di guerra. L’ideologia della
          guerra globale permanente, fondata sulla idea dell’annullamento da
          parte della potenza militare, del nemico, porta alla distruzione di
          ogni idea di possibile composizione pacifica dei conflitti, portato di
          civiltà  che sembrava
          acquisito dopo la sconfitta del nazifascismo e la fine della seconda
          guerra mondiale. E’ una ideologia che comporta anche la limitazione
          della democrazia interna, una ulteriore deformazione della società
          israeliana, trasforma in paranoia la paura del terrorismo. D’altra
          parte, disperazione e fondamentalismo, che sono le radici reali del
          terrorismo, vengono alimentati, non certo ridotti o eliminati da
          questa politica del terrore: la disgregazione e le paure della società
          israeliana crescono, in parallelo con la disperazione e la miseria
          nella società palestinese. La
          carovana della pace di Pasqua si è trovata quindi di fronte ad una
          situazione diversa, non solo perché più violenta e inaccessibile, ma
          perché sembra mutare la natura stessa del conflitto, che, in forza
          del suo dichiarato obiettivo “il terrorismo”, tende a legittimarsi
          e a voler essere legittimata  nelle
          sue più efferate manifestazioni, come la strage di Jenin, 
          così come nella quotidiana violazione dei diritti umani:
          sparare sulle ambulanze, far morire i feriti o i malati privandoli del
          soccorso medico, impedire la sepoltura dei morti, sparare dai tetti
          sui bambini che giocano per strada. La difesa dei diritti umani, la
          protezione di civili, come è accaduto nell’ospedale di Ramallah,
          hanno preso il posto di quella interposizione a mani alzate fatta ai
          check point nelle precedenti missioni.  La
          comunità internazionale civile, il movimento per i diritti e contro
          la guerra, di cui Action for peace è parte, ha quindi nuove analisi e
          strategie da pensare    Action for Peace, una fase nuova Oggi
          ci troviamo di fronte a due sfide: proseguire le missioni civili,
          raccogliendo la grande disponibilità che arriva dalla società, dai
          movimenti per i diritti e contro la guerra; 
          collegare ad esse l’agire nel nostro paese. Sempre piu’
          necessario è “dire la verità”, combattendo la disinformazione e
          mobilitando l’opinione pubblica, creare occasioni di informazione e
          di incontri, operare una pressione politica su istituzioni nazionali e
          internazionali, a cominciare dal Parlamento italiano ed europeo. 
          Sono infatti  evidenti
          i rischi di una regressione politica e culturale, riemerge il fantasma
          dell’antisemitismo, con manifestazioni preoccupanti, ma riemerge
          anche la sua strumentalizzazione, 
          per aggredire un pacifismo strutturalmente legato alle società
          civili di entrambi i campi, determinato però nella denuncia delle
          violazioni dei diritti umani e nella pratica per la loro protezione.
          Che non si definisce solo come “solidarietà con il popolo
          palestinese”, ma come ricerca di una pace giusta, sulla premessa
          della forte denuncia della politica di guerra del Governo Israeliano. 
          Essa sta distruggendo la Palestina e i diritti del suo popolo, 
          nello stesso tempo colpisce la società e l’ economia
          israeliana. In
          Israele la guerra avvelena le coscienze di tutta una generazione,
          mentre sottrae risorse alle spese sociali ( abbiamo visto grandi
          manifestazioni di protesta contro il taglio delle spese sociali, fatte
          da persone diverse da quelle che manifestano contro l’occupazione),
          il suo rappresentarsi come risposta al terrorismo continua a coprire,
          agli occhi della maggioranza delle persone, i veri problemi. Ben pochi
          denunciano la contraddizione tra la natura etnocratica dello Stato di
          Israele e la sua fisionomia democratica. Pochi si rendono conto che la
          militarizzazione della società e delle menti israeliane, va di pari
          passo con il degrado della vita materiale; la pratica di Action con
          Peace deve misurarsi anche con questo: i ponti vanno costruiti non
          solo tra palestinesi e israeliani, ma nel corpo stesso delle due
          società.  Per
          questo è nostra intenzione muoverci concretamente anche in quella
          direzione,  in relazione
          con le società civili israeliane e palestinesi, attraverso la
          prosecuzione della presenza delle missioni civili e di campagne di
          solidarietà, anche materiale. Governo Italiano ed Unione Europea
          devono aprire corridoi umanitari, con- vertendo fondi, come già
          richiesto da alcune ong, per rispondere all’emergenza. Mentre
          ci prepariamo per la grande iniziativa di “Time for Peace” a fine
          giugno, è indispensabile realizzare un piu’ forte coordinamento a
          livello europeo per sollecitare iniziative efficaci dell’UE.  Il
          grave divieto opposto dal Governo di Israele all’entrata di
          delegazioni di solidarietà e di missioni umanitarie va denunciato con
          forza, così come lo schiaffo dato all’ONU con il rifiuto di
          accettare una Commissione di indagine sul massacro di Jenin : 
          anche questi fatti sono sintomo di regressione democratica e
          spregio delle Istituzioni internazionali che colpiscono in primo luogo
          quella società.    8
          maggio 2002   _________________________________________________________________ |