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| . . . . . . . . . . . . . | DAVIDE, UN UOMO INGOMBRANTE Nel decimo anniversario della morte di Turoldo di Ettore Masina 
            In "Poesie a Casarsa"
            Pierpaolo Pasolini ha un'immagine di straziante
           
            bellezza per indicare la inevitabilità
            dell'affievolirsi dei ricordi:
           
            Al ven sempri pì sidìn e alt
           
            il  mar dai âins
           
            Si fa sempre più silenzioso ed alto
           
            il mare degli anni.
           
            E' una realtà crudele che ben
            conosciamo: voci che ci sono state carissime,
           
            dalle quali abbiamo appreso le parole
            per vivere, un poco alla volta si
           
            riducono a bisbigli, come di malato, poi
            a povere ceneri nel vento. Tuttavia
           
            ci sono persone che per qualche loro
            caratteristica (per l'amore che gli
           
            abbiamo portato, certamente, ma non solo
            per questo) più tenacemente ci
           
            rimangono presenti e vicine.
           
            Padre David Maria Turoldo, come si
            firmava, Davide, come lo abbiamo sempre
           
            chiamato noi amici, è, per molti, una
            di quelle figure. Come, dopo una sua
           
            visita, rimanevano nelle stanze in cui
            lo avevamo ricevuto, bottiglie vuote,
           
            e libri che ci aveva donato, e carte
            spiegazzate nella forza di un discorso,
           
            e l'eco di grida, talvolta, profetiche,
            così, a dieci anni dalla sua morte,
           
            a me pare che Davide se ne sia andato
            ieri sera o il mese scorso; che non un
           
            mare profondo e silenzioso ci separi da
            lui, ma un'assenza che non si
           
            prolungherà oltre il tramonto o si
            protrarrà soltanto sino all'eucarestia
           
            domenicale. Egli era così ingombrante
            che è ben difficile persino allo
           
            scorrere del tempo riuscire a ridurlo a
            un'ombra.
           
            Sì, "ingombrante" è la
            parola giusta: se vuol dire "che occupa spazio a
           
            dismisura". Davide era così, dal
            punto di vista fisico, e lo fu sin quasi
           
            alla fine del suo Calvario, quando
            apparve davvero come un crocefisso. Tutti
           
            che gli fummo amici ci riconosciamo
            nella descrizione che ne fecero, negli
           
            anni '60, due suoi, e nostri, compagni:
            Luigi Santucci: "Altissimo e biondo
           
            come un covone, è un goffo arcangelo
            dalle mani enormi, che sono forse le
           
            sue ali mancate, a giudicare da come le
            sventola e le dibatte". E Nazareno
           
            Fabbretti: "Alto quasi due metri,
            biondo come un vichingo, con una voce
           
            dolorosa e violenta e due occhi pieni
            di fatica indistruttibile". Penso
           
            che non pochi di voi, del resto, 
            abbiano conosciuto Davide in questa sua
           
            torreggiante corporeità e dunque non
            insisterò sull' argomento, ma non
           
            voglio rinunziare al ricordo sorridente
            di una certa sera, in casa nostra, a
           
            Roma. Era verso la fine del Concilio ed
            erano i giorni in cui andava
           
            emergendo l'impossibilità psicologica
            per papa Montini di procedere
           
            audacemente sulla via della collegialità.
            Il nostro, quella sera, era un
           
            salotto buono in cui un importante
            gesuita straniero ci parlava in maniera
           
            assai fredda di problemi vitali; padre
            Davide ci raggiunse, sul tardi, come
           
            faceva lui, che non tollerava di essere
            assente a riunioni di amici, anche
           
            se alcune si svolgessero in
            contemporaneità. Sedette in silenzio, ma si
           
            capiva che dentro lo agitava una
            moltitudine di sentimenti: e quando il
           
            gesuita nominò Paolo VI, ecco Davide
            balzare in piedi, spalancare le immense
           
            braccia e ruggire: "Questo papa
            bisogna ucciderlo!". E il gesuita guardare l
           
            'orologio e dire,  terrorizzato:
            "Si è fatto tardi, devo andarmene".
           
            (Inutile dire che padre Davide amava il
            papa e scrisse, più volte, su di lui
           
            cose toccanti).
           
            Ingombrante fisicamente, e per vortice
            di passioni, talvolta anche per
           
            innocente gigioneria (lo ricordo
            rientrato dall'esilio londinese con lobbia
           
            e ombrello arrotolato, come un impiegato
            della City...), Davide seppe
           
            tuttavia riempire con delicatezza e con
            irruenza spazî pastorali che il
           
            clero italiano, vescovi compresi,
            sembrava, per lo più, trascurare. Non solo
           
            nel periodo della pace giovannea ma ben
            prima, nell'epoca delle scomuniche,
           
            mostrò sempre tenerezza e sollecitudine
            per i "fratelli atei", come amava
           
            chiamarli, soprattutto per quelli che
            gli sembravano resi tali dallo
           
            scandalo di una Chiesa infedele al suo
            Fondatore. Seppe stargli accanto
           
            apertamente, senza indebite invadenze,
            come una amorevole presenza  (innanzi
           
            tutto laicamente amorevole, se così si
            può dire), ma che non nascondeva il
           
            suo sostrato cristiano; e anche 
            seppe ascoltarli, ammirarne le doti,
           
            cercarne, in una specie di
            macro-ecumenismo, le comuni ragioni di vita.
           
            Pasolini e Vittorini e Sanguineti e
            Fortini, tanto per fare qualche nome,
           
            conobbero in lui, non soltanto la lealtà
            del collega letterato, ma anche  il
           
            sacerdote che, senza aspirazioni
            predatorie, mostrava la grazia vivificante
           
            del vangelo sine glossa. E quando, per
            alcuni di quei cosiddetti "lontani"
           
            fu l'ora del dolore, Davide seppe
            calarsi come un fratello nelle loro
           
            vicissitudini.
           
            Il mio discorso su Turoldo non può
            essere qui altro che un cenno, sia pure
           
            non frettoloso, e mi limiterò allora a
            qualche parola sulla sua poesia. Non
           
            sul valore letterario di essa, poiché
            tutto io sono fuori che un critico, ma
           
            sull'umiltà con la quale egli, poeta
            raffinato, lettore inesauribile di
           
            poeti, uomo di straordinaria cultura, e
            narcisista come sono sempre gli
           
            intellettuali, assetato dunque, di
            bellezza formale, non esitò a "sporcare"
           
            i suoi versi nel fango della Storia.
           
            Perché non dirlo?  Quando si trattò
            di raccogliere tutti i suoi componimenti
           
            in quel volume " O sensi
            miei...",  che fu presentato come la sua opera
           
            omnia, non tutte le sue composizioni vi
            furono raccolte. Gianfranco Ravasi,
           
            che a quell'epoca aveva grande influsso
            su Davide, con il quale aveva
           
            compiuto quella traduzione dei salmi che
            rimane la più alta opera della
           
            riforma liturgica in Italia, lo convinse
            a non inserirvi le poesie scritte,
           
            per così dire, in trincea, quelle che
            Davide definiva "ballate":  Ravasi,
           
            fine critico, sapeva bene che quello era
            materiale grezzo, ganga aurifera
           
            appena raccolta nella violenza delle
            acque, non ancora sedimentata e
           
            filtrata nel silenzio claustrale. Ma noi
            continuiamo ad amare Davide proprio
           
            per quel suo gettarsi allo sbaraglio,
            lui e la sua arte, nelle tragedie e
           
            nelle nascite luminose del mondo
            "altro". Davide non appese mai la sua cetra
           
            ai salici ma sforzò la sua voce
            seguendo gli oppressi nelle loro terribili
           
            lunghe marce alla ricerca di libertà e
            di giustizia: il Cile, il Vietnam, la
           
            Bolivia, il Nicaragua, il Sudafrica, il
            terrorismo dei disperati e quello,
           
            sapiente e feroce, della Cia, all'ombra,
            come lui diceva, di "un dio
           
            finanziere". Con noi singhiozzò,
            nascondendo le lacrime, pregò, maledisse,
           
            sperò, cercò di costruire speranze.
           
            La sua vena lirica tracimò gli argini
            dell'eleganza per fedeltà agli ultimi
           
            e alla loro storia. I dannati della
            Terra furono la sua bussola e la vera
           
            metrica delle sue composizioni. Per
            loro, non tacque, mai. "Il poeta è un
           
            crocefisso al legno della verità"
            diceva.  Anche quando i vescovi sembravano
           
            attenti soprattutto agli equilibri dello
            status quo, anche quando i
           
            superiori ecclesiastici gli chiedevano
            obbedienza alle loro cautele, e la
           
            sua incriminata disobbedienza (che era
            invece fedeltà alla propria vocazione
           
            monacale) comportava la condanna a
            esilii per lui durissimi, ed egli era
           
            costretto a contemplare l'apparente
            trionfo della banalità, della
           
            mediocrità, del conformismo mondano,
            Davide - come don Primo Mazzolari e don
           
            Lorenzo Milani e don Zeno Saltini e
            padre Ernesto Balducci - non ebbe mai
           
            dubbi: il vangelo non poteva che
            radicarsi nelle regioni in cui la
           
            sofferenza causata dall'ingiustizia
            stritolava la vita della povera gente.
           
            Egli non poteva (certamente non voleva,
            ma soprattutto per qualche
           
            misteriosa vocazione proprio non poteva)
            fermare il suo sguardo di monaco
           
            alle pareti della cella e neppure agli
            altari di pietra, né alle tanto amate
           
            solenni liturgie; non lì -. o non
            soltanto lì - era il suo Cristo, ma nella
           
            polvere delle sconfitte, nei ceppi dei
            vinti, nelle baracche degli oppressi.
           
            Davide aveva fra i suoi amici non pochi
            ricchi; entrava nelle loro case con
           
            l'aspersorio delle benedizioni, ma
            invece di donare loro le illusioni che
           
            gli ecclesiastici  hanno sempre
            elargito ai cosiddetti benefattori, poneva
           
            loro le dure richieste della spartizione
            dei beni, unica possibile scelta di
           
            salvezza. Poi riprendeva il suo posto,
            idealmente, nella casa dei suoi
           
            genitori, sospirata povertà, o
            nell'atroce miseria degli infiniti Golgotha
           
            della Terra.
           
            Seppe incontrare in quelle regioni anche
            una poesia sorella, da ascoltare
           
            con reverenza. Nella vita di quest'uomo
            sempre conteso fra la necessità del
           
            silenzio-contemplazione e il bisogno
            quasi primordiale del grido, vi sono
           
            spazî in cui egli scompare dietro il
            canto altrui, dietro le storie degli
           
            umiliati e offesi. Voglio ricordare qui
            il lungo, paziente lavoro di
           
            traduzione de "Il Serpente
            piumato", il poema  di Ernesto Cardenal, "monaco
           
            rivoluzionario - come egli lo definisce,
            - mingherlino uomo con il basco,
           
            magro come una lucertola, che continua a
            cantare"; o le lunghe ore e
           
            attività dedicate con paterna tenerezza
            (e certo qui molti di voi ne sanno
           
            qualcosa) alla affermazione e diffusione
            del libro di Rigoberta Menchù, che
           
            gli parve, come parve a tanti di noi,
            storia sacra, incontro di cosmogonie
           
            che si ricompongono nel comune respiro
            del divino, nel lamento dell'uomo e
           
            della donna che non si arrendono al
            potere del male: lamento che è insieme
           
            grido di dolore e grido di sfida. Di
            resistenza,
           
            E' bello che il libro di Davide appena
            pubblicato, "La mia vita per gli
           
            amici", abbia il sottotitolo
            bonhoefferiano di "Vocazione e resistenza".
           
            Davide non visse soltanto la resistenza
            al nazifascismo, fu chiamato dalla
           
            Storia a vivere, come noi e insieme con
            noi, la resistenza al crollo di
           
            tanti ideali e di tanti miti; sentì la
            drammatica necessità di resistere al
           
            conformismo imposto con tecniche
            raffinate a creature ridotte, come lui
           
            diceva,  a "ombre sui
            muri", coscienze torpide", "anime malate e
            sconfitte".
           
            E poi. poi ha dovuto e saputo resistere
            al male fisico, all'impazzimento
           
            delle cellule che sconvolgeva la sua
            vita. Ha saputo fare anche di più: ha
           
            saputo resistere alle tentazioni
            "religiose" del Dio tappabuchi invocato
           
            come dispensatore di salute. Infine, ha
            resistito alla disperazione: nel
           
            punto più alto della sua umana
            avventura ci ha lasciato un insegnamento che
           
            dice tutto della sua fede: "Vedere
            la luce attraverso il costato aperto del
           
            Cristo". Ma questa vicenda
            meriterebbe ben altro approfondimento.
           
            Così, per avviarmi alla conclusione,
            riprendo il tema delle ballate
           
            turoldiane, per dire che può ben darsi
            che in esse Davide non sia stato
           
            grande poeta: ma hanno pur sempre a che
            fare con la storia della letteratura
           
            italiana perché esse furono lette da
            decine e forse centinaia di migliaia di
           
            persone, molte delle quali ebbero, per
            la prima volta, la rivelazione che
           
            poesia poteva essere grido efficace.
            Nelle ballate di Turoldo trovarono
           
            invettiva, esortazione, omelìa,
            profezia. Con esse egli si accompagnava
           
            come cittadino e come sacerdote a chi
            non voleva arrendersi ai vecchi vizi
           
            italiani, ai vecchi e nuovi poteri. Di
            questi poteri scandagliò e descrisse
           
            l'obiettiva malvagità: dall'egoismo dei
            "garantiti" al crescere del
           
            razzismo, alla miserabile esosità delle
            teorie neoliberiste. Per questo mi
           
            piace collegarlo non solo agli altri
            grandi poeti "civili" italiani
           
            "laureati", ma anche e
            soprattutto  al poeta operaio Ferruccio Brugnaro che
           
            già negli anni '70  forava i fumi
            velenosi di Marghera  per denunziare il
           
            martirio imposto ai lavoratori del
            petrolchimico.
           
            L'uomo come metro per giudicare il
            sistema. E la poesia come strumento
           
            politico, necessariamente eversivo poiché
            non si adegua all'imperialismo
           
            della cultura consumista anzi con esso
            fatalmente confligge: Davide lo dice
           
            con aperta chiarezza in un suo
            brevissimo componimento, intitolato appunto
           
            "Poesia":
           
            Poesia
           
            è rifare il mondo, dopo
           
            il discorso devastatore
           
            del mercadante.
           
            Notate la parola "mercadante"
            invece che "mercante". Davide, non usava se
           
            non  raramente parole arcaiche. Io
            credo che con questa egli abbia voluto
           
            ricordarci che c'è un'antica storia
            dietro il consumismo neo-capitalista,
           
            la storia di Caino che rifiuta di
            essere il custode di suo fratello, la
           
            storia di chi alla propria avidità di
            cose e di potere non esita a
           
            sacrificare vite umane.
           
            Noi non possiamo dire che cosa
            griderebbe oggi Davide. O sì? Hanno ancora
           
            senso quei quattro versi? C'è nel
            nostro presente un discorso devastatore
           
            fatto da qualche mercadante? Quanto ci
            manchi, fratello Davide.
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