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PER PAOLO BORSELLINO

(CON ALCUNI TESTI DI PAOLO BORSELLINO, LILIANA FERRARO, NANDO DALLA CHIESA, RICCARDO ORIOLES)


C'è una frase indimenticabile di Paolo Borsellino, la sua replica grande e
nitida alla polemica sui "professionisti dell'antimafia": "Non ho mai
chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono
rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno".
La gente mi moriva attorno: un problema morale. E' detto con una semplicità
ed una precisione assolute.
Ripubblichiamo qui di seguito alcuni brevi brani di un discorso e di una
lettera di Paolo Borsellino, e tre ricordi di lui scritti da Liliana
Ferraro, da Nando dalla Chiesa e da Riccardo Orioles (molte altre cose sono
state scritte, e più estese e forse più eloquenti, ma queste sono di quelle
che ci hanno particolarmente commosso).
Ricordo il giorno della morte di Paolo Borsellino e come seppi la notizia:
stavo ancora una volta traslocando, e vivendo senza televisione in serata
chiamai ad un numero di telefono, che non ricordo più quale sia e non so se
vi sia ancora, dal quale la Sip diffondeva un secco notiziario: ed in
solitudine, in una stanza ormai vuota di una casa che stavo abbandonando per
sempre, sentii dalla smorta e meccanica vocina registrata che anche
Borsellino, ed i ragazzi che erano con lui, erano stati assassinati. Muggii
di dolore.
Credo questo sentire sia stato allora il sentire di tanti in tutta Italia:
dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992 in cui persero la vita Giovanni
Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinari, Rocco Di Ciillo e Vito
Schifani, in tutta Italia vi era stato un sentimento di sbigottimento e di
lutto profondi, e un bisogno dirompente di reagire (ripenso con tenerezza
alle tante iniziative anche piccole e minime che ovunque furono realizzate
in quei giorni).
Quando il 19 luglio avvenne la strage in via D'Amelio e morirono Paolo
Borsellino, Emanuela Loi, Walter Cusina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina e
Agostino Catalano, credo che tutti sentimmo una ferita nelle carni.
La spina, il pungolo, lo sperone nelle carni (è l'enigmatica espressione di
Kierkegaard): se tutti ci riconoscemmo allora nella figura di Antonino
Caponetto non fu solo per il suo volto e contegno ieratico e straziato, e la
sua personale vicenda e figura magnanima e dolente, di antico padre di eroi
greci, di antico padre biblico di eroi; ma perché seppe due volte dire
quello che tutti sentivamo: lo smarrimento profondo e indicibile quasi, e
poi la volontà di riscatto, di proseguire la lotta, di non permettere che
Falcone e Borsellino fossero assassinati una seconda volta dalla resa, dal
tradimento, dall'oblio.
Paolo Borsellino ed Emanuele Basile; Paolo Borsellino e Rocco Chinnici;
Paolo Borsellino con Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Giuseppe Di
Lello, Leonardo Guarnotta: il pool; Paolo Borsellino con Giovanni Falcone
all'Asinara; Paolo Borsellino bollato come "professionista dell'antimafia";
Paolo Borsellino che denuncia lo smantellamento del pool e la resa dello
Stato; Paolo Borsellino e Rita Atria; Paolo Borsellino che nella biblioteca
comunale di Palermo scandisce il suo testamento spirituale e tutti sentono
che è il commiato di un morituro; Paolo Borsellino schernito da un traditore
per la "procura col mare"; Paolo Borsellino che sa che l'esplosivo per
ucciderlo è arrivato...
Paolo Borsellino che sa che non c'è più tempo. Poi lo schianto. Poi l'
insurrezione di Palermo ai funerali delle vittime. Poi le parole delicate
come petali e penetranti come raggi di luce di Caponnetto. Poi ancora anni
ed anni di lotte e sofferenze, di orrori e di resistenza. Poi tu, che leggi
queste righe, e che ti chiedi come serbare la fedeltà e portare avanti la
lotta di Paolo Borsellino.


*
Una notizia biobibliografica
Magistrato, membro del pool antimafia di Palermo che istruì il maxiprocesso
a Cosa Nostra, fu assassinato dalla mafia nel 1992. Era un uomo giusto e
coraggioso. Si può ripetere per lui quanto scrisse di sé Paolo nella seconda
lettera a Timoteo, 4, 7: "Ho combattuto la buona battaglia, sono arrivato
fino al termine della mia corsa, ho serbato la fede".
E' stato tra gli autori dell'atto d'accusa alla base del grande processo
noto come "maxiprocesso" alla mafia, una sintesi di quella decisiva
ordinanza-sentenza del pool antimafia di Palermo è stata pubblicata a cura
di Corrado Stajano con il titolo Mafia: l'atto d'accusa dei giudici di
Palermo, Editori Riuniti, Roma 1986.  Alcuni suoi testi in: AA. VV., Sulla
pelle dello stato, La Zisa, Palermo 1991; sua la bella prefazione a Rocco
Chinnici, L'illegalità protetta, La Zisa, Palermo 1990. Cfr. anche la
raccolta di alcuni interventi pubblici di Falcone e Borsellino, Magistrati
in Sicilia, Ila Palma, Palermo 1992.
Tra le opere su Paolo Borsellino fondamentale è Umberto Lucentini, Paolo
Borsellino. Il valore di una vita, Mondadori, Milano 1994; cfr. anche
Giommaria Monti, Falcone e Borsellino, Editori Riuniti, Roma 1996. Materiali
utili in alcuni libri di giornalisti che riportano anche interviste e
colloqui avuti con Borsellino: innanzitutto Saverio Lodato, Venti anni di
mafia, Rizzoli, Milano 2000; Luca Rossi, I disarmati, Mondadori, Milano
1992; cfr. anche Giorgio Bocca, L'inferno, Mondadori, Milano 1992; ed anche
Alexander Stille, Nella terra degli infedeli, Mondadori, Milano 1995.
Naturalmente si vedano anche le opere di e su Giovanni Falcone, di Antonino
Caponnetto, di Giuseppe Di Lello. Segnaliamo anche un tratto commovente alla
pagina 292 di Umberto Santino, Storia del movimento antimafia, Editori
Riuniti, Roma 2000. Ricordiamo che le parole di Caponnetto ai funerali di
Borsellino sono state riedite per nostra cura da ultimo nel testo diffuso
nella rete telematica dal titolo "Documenti per una cultura antimafia:
Antonino Caponnetto, Una preghiera laica ma fervente".


*
Paolo Borsellino: da un ricordo di Giovanni Falcone
Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la
mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo
uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini
della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati
partecipi della sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni
Falcone, l'estremo pericolo che correva, perché troppe vite di suoi compagni
di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che
egli si imponeva. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda
situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a
rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita
è stata un atto d'amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha
generato. Perché se l'amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e
per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura,
amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa
terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze
morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la
patria a cui essa appartiene. Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo.
E non solo nelle tecniche di indagine. Ma anche consapevole che il lavoro
dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare sulla stessa lunghezza d'
onda del sentire di ognuno. La lotta alla mafia (primo problema da risolvere
nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una
distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche
religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza
del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale,
dell'indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità. Ricordo la
felicità di Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo, conseguente
ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi
disse: "La gente fa il tifo per noi". E con ciò non intendeva riferirsi
soltanto al conforto che l'appoggio morale della popolazione dà al lavoro
del giudice. Significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro,
stava anche sommovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione
della convivenza con la mafia, che costituiscono la sua vera forza. (...)
[Questo brano è estratto dal discorso tenuto da Paolo Borsellino il 23
giugno 1992, ad un mese dalla strage di Capaci, alla cerimonia promossa dai
boy-scout della parrocchia di Sant'Ernesto a Palermo; il testo integrale è
nel libro di Umberto Lucentini, Paolo Borsellino. Il valore di una vita,
Mondadori, Milano 1994, alle pp. 256-258].


*
Paolo Borsellino: da una lettera ad una insegnante
(...) 1. Sono diventato giudice perché nutrivo grandissima passione per il
diritto civile ed entrai in magistratura con l'idea di diventare un
civilista, dedito alle ricerche giuridiche e sollevato dalle necessità di
inseguire i compensi dei clienti. La magistratura mi appariva la carriera
per me più percorribile per dar sfogo al mio desiderio di ricerca giuridica,
non appagabile con la carriera universitaria, per la quale occorrevano tempo
e santi in paradiso. Fui fortunato e diventai magistrato nove mesi dopo la
laurea (1964) e fino al 1980 mi occupai soprattutto di cause civili, cui
dedicavo il meglio di me stesso. E' vero che nel 1975, per rientrare a
Palermo, ove ha sempre vissuto la mia famiglia, ero approdato all'ufficio
istruzione processi penali, ma alternai l'applicazione, anche se saltuaria,
a una sezione civile e continuai a dedicarmi soprattutto alle problematiche
dei diritti reali, delle distanze legali, delle divisioni ereditarie. Il 4
maggio 1980 uccisero il capitano Emanuele Basile e il consigliere Chinnici
volle che mi occupassi io dell'istruttoria del relativo procedimento. Nel
mio stesso ufficio frattanto era approdato, provenendo anch'egli dal civile,
il mio amico d'infanzia Giovanni Falcone, e sin da allora capii che il mio
lavoro doveva essere un altro. Avevo scelto di rimanere in Sicilia e a
questa scelta dovevo dare un senso. I nostri problemi erano quelli dei quali
avevo preso a occuparmi quasi casualmente, ma se amavo questa terra di essi
dovevo esclusivamente occuparmi. Non ho più lasciato questo lavoro e da quel
giorno mi occupo pressoché esclusivamente della criminalità mafiosa. E sono
ottimista perché vedo che verso di essa i giovani, siciliani e non, hanno
oggi attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni
sino ai quarant'anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza
di reagire di quanta io e la mia generazione ne abbiamo avuta.
(...) 3. La mafia (Cosa Nostra) è un'organizzazione criminale, unitaria e
verticisticamente strutturata, che si distingue da ogni altra per la sua
caratteristica di «territorialità». Essa è divisa in famiglie, collegate tra
loro per la dipendenza da una direzione comune (Cupola), che tendono a
esercitare sul territorio la stessa sovranità che su esso esercita, o deve
esercitare, legittimamente, lo Stato. Ciò comporta che Cosa Nostra tende ad
appropriarsi di tutte le ricchezze che si producono o affluiscono sul
territorio, principalmente con l'imposizione di tangenti (paragonabili alle
esazioni fiscali dello Stato) e con l'accaparramento degli appalti pubblici,
fornendo al contempo una serie di servizi apparenti rassemblabili a quelli
di giustizia, ordine pubblico, lavoro, che dovrebbero essere gestiti
esclusivamente dallo Stato. E' naturalmente una fornitura apparente perché a
somma algebrica zero, nel senso che ogni esigenza di giustizia è soddisfatta
dalla mafia mediante una corrispondente ingiustizia. Nel senso che la tutela
dalle altre forme di criminalità (storicamente soprattutto dal terrorismo) è
fornita attraverso l'imposizione di altra e più grave forma di criminalità.
Nel senso che il lavoro è assicurato a taluni (pochi) togliendolo ad altri
(molti). La produzione e il commercio della droga, che pure hanno fornito
Cosa Nostra di mezzi economici prima impensabili, sono accidenti di questo
sistema criminale e non necessari alla sua perpetuazione. Il conflitto
irreversibile con lo Stato, cui Cosa Nostra è in sostanziale concorrenza
(hanno lo stesso territorio e si attribuiscono le stesse funzioni) è risolto
condizionando lo Stato dall'interno, cioè con infiltrazioni negli organi
pubblici che tendono a condizionare la volontà di questi perché venga
indirizzata verso il soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di quelli
di tutta la comunità sociale. Alle altre organizzazioni criminali di tipo
mafioso (camorra, 'ndrangheta, sacra corona unita) difetta la caratteristica
della unitarietà ed esclusività. Sono organizzazioni criminali che agiscono
con le stesse caratteristiche di sopraffazione e violenza di Cosa Nostra, ma
non ne hanno l'organizzazione verticistica e unitaria. Usufruiscono inoltre
in forma minore del «consenso» di cui Cosa Nostra si avvale per accreditarsi
come istituzione alternativa allo Stato, che tuttavia con gli organi di
questo viene a confondersi. (...)
[Il testo precedente consiste di due estratti da una lettera che la mattina
del 19 luglio 1992 Borsellino aveva iniziato a scrivere in risposta ad una
professoressa di Padova che tre mesi prima lo aveva invitato ad un incontro
con gli studenti di un liceo. Abbiamo ripreso il testo dalle pp. 289-291 del
bel libro di Umberto Lucentini citato].


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Liliana Ferraro: un ricordo di Falcone e Borsellino
(...) Ho conosciuto Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel 1983 e ho subito
cominciato a lavorare per loro e con loro. Nel 1984 (pentimento di Tommaso
Buscetta) abbiamo sognato la vittoria. Nel 1985 abbiamo pianto gli amici
Cassarà e Montana ma non ci siamo fermati: Falcone, Borsellino e gli altri
facevano indagini e scrivevano l'ordinanza, io procuravo i mezzi materiali e
facevo costruire l'aula-bunker.
Ma arrivò quel terribile 1989. Io dicevo: "Molliamo tutto". Giovanni e Paolo
ripetevano: "Mai". Nonostante che, al Consiglio superiore della
magistratura, gli avessero fatto fare 14 ore di anticamera, digiuni, senza
telefono, erano stati «sistemati» in una stanzetta senz'aria, umiliati come
giudici e come persone.
"Mai", rispose Paolo anche alla dolce Agnese che, in una sera della fine di
giugno del 1992, in una saletta dell'aeroporto di Roma, lo pregava di
«lasciare», preoccupata per la vita del suo uomo, del padre dei suoi figli.
"Mai", aveva già risposto, in un caldo pomeriggio di agosto del 1985, anche
Nino Caponnetto quando gli chiesi di lasciare Palermo, insieme a Giovanni e
Paolo, perché non vi era certezza di difendere la loro vita. "Mai - disse
Caponnetto -. Porta all'Asinara Giovanni, Paolo e le loro famiglie. Così
potranno continuare a scrivere l'ordinanza tranquilli e sicuri. Io resto
qui, perché non si dovrà mai dire che lo Stato fugge davanti al nemico.
Nessuno di noi può interrompere il proprio lavoro". (...)
[Abbiamo estratto questo brano dalla Postfazione di Liliana Ferraro al libro
di Giommaria Monti citato in bibliografia. Sul contributo di Liliana Ferraro
all'attività del pool antimafia di Palermo cfr. Francesco La Licata, Storia
di Giovanni Falcone, Rizzoli, Milano 1993; e Alexander Stille, citato nella
nota bibliografica].


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Nando dalla Chiesa: un ricordo di Paolo Borsellino
(...) La profezia: certo, a quella di Sciascia egli ora ne contrapponeva
nella sua interiorità un'altra, quella della propria morte imminente.
Lasciò, volle lasciare una sorta di testamento pubblico. Fece capire di
avere qualche idea sull'assassinio del suo amico. Poi si alzò scusandosi;
disse che doveva tornare a lavorare e se ne andò.
Ma a quel punto successe una cosa straordinaria, uno spettacolo al quale si
può assistere, probabilmente, una sola volta nella vita. Mentre il
magistrato, non alto di statura, si alzava e scendeva dal piccolo palco, la
folla -circa ottocento, mille persone- si alzò in piedi. E si mise ad
applaudire. Forte, sempre più forte, con una commozione che attraversava
come una corrente elettrica tutti i corpi e forse anche le cose presenti.
Dieci,  quindici interminabili minuti di applausi. Quasi che a lui vivo
volesse riservare gli applausi riservati al suo amico, per incoraggiarlo ad
andare avanti. Ma più crescevano gli applausi, più tra i brividi che
graffiavano l'intestino dirompeva la realtà vera. La gente aveva capito
quello che il giudice superstite sentiva come sua intima certezza. E
sapendolo misurato e coraggioso, non  aveva pensato che si fosse fatto
cogliere dal panico o dallo scoramento. Se lui, con il suo testamento
morale, aveva fatto capire che cosa si attendeva, non c'era dubbio che ciò
sarebbe accaduto.
Il pubblico di Palermo aveva voluto salutare per l'ultima volta il suo
giudice. Aveva voluto ringraziarlo da vivo. Non aveva potuto ringraziare il
suo amico, che tanti in città avevano scoperto di amare troppo tardi.
Bruciava il rimpianto di quei silenzi, e degli applausi indirizzati a chi
ormai non poteva più sentire. Ma ora lui, mentre tornava al lavoro alle
undici di sera, doveva sentire gli applausi della città. Che per questo non
finivano mai. (...)
[Questo testo di Nando dalla Chiesa è estratto dal ritratto di Paolo
Borsellino alle pagine 164-168 del suo recente libro Storie eretiche di
cittadini perbene, Einaudi, Torino 1999. L'incontro cui si fa riferimento è
quello del 25 giugno 1992 alla biblioteca comunale di Palermo, cui
Borsellino intervenne parlando a braccio; la trascrizione dell'intervento di
Borsellino può essere ora letta sia nel volume di Lucentini che in quello di
Monti citati nella nota bibliografica].


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Riccardo Orioles: un ricordo di Paolo Borsellino
L'ultima volta che ho visto Borsellino dev'essere stato a Roma, a una
conferenza in un liceo. Borsellino è quello che appena ti vede ti saluta,
senza accorgersene, con un accento palermitano strettissimo; perché siamo
fuori dalla Sicilia, e siamo siciliani. C'è una scritta in fondo all'aula,
coi nomi di due ragazzi che "per sempre insieme": uno dei due nomi -guarda
un po'- è Riccardo e l'altro, per una meravigliosa coincidenza, è quello
della mia compagna di allora. Tu gl'indichi con un cenno ironico i due nomi
e lui, senza capire bene, istintivamente sorride. Gli uomini -i militanti-
della scorta, un paio di giornalisti autorevoli, e i liceali; e lui che
comincia a parlare, serenamente. E il fresco attento dell'aula e, fuori
nella piazza romana, una gilornata di sole.

 

[Questo testo di Riccardo Orioles è estratto dalla sua e-zine Tanto per
abbaiare, 24 luglio 2000, n. 32; la e-zine di Orioles si può leggere nel
sito telematico pacifista Peacelink: www.peacelink.it; l'autore - il miglior
giornalista italiano vivente - può essere contattato all'indirizzo di posta
elettronica: ricc@libero.it].

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