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L’OSTIA E L’UOMO

Dal qualche giorno avevo lasciato dietro le spalle il portone del carcere, mi trovavo a Pavia presso l’abitazione della mia compagna, per trascorrevi alcuni giorni di permesso.

Tra una carezza leggera e una coccola gigante, mi capita tra le mani uno scritto a firma di un non meglio identificato Don Franco.

La mia ragazza che lo conosce bene, mi spiega di chi si tratta, e mi consiglia di andarlo ad ascoltare durante la messa.

Ci sono andato, e durante le Feste Natalizie ci sono ritornato volentieri.

Infatti è risultato  uno di quegli incontri che ti segnano dentro e no ti consentono indifferenze.

In 26 anni di carcere ne ho conosciuti di preti, presuntuosarnente pensavo di averli incontrati tutti dopo averli memorizzati la parola.

Mi sbagliavo alla grande, perchè  s’è vero che i preti sono anch’ essi uomini, e sembrano tutti della stessa pasta, uomini come lui non si somigliano tra loro, anzi non si somigliano proprio.

Non potendo andare alla Messa di mezzanotte, perché ho la prescrizione del rientro in casa alle ventidue, mi ci sono recato la mattina dell’anno nuovo.

Lui se ne stava in mezzo alla Chiesa e senza troppi salamelecchi inizia a raccontare.

Le sue parole si spandono nell’uditorio, io penso alla scala di Milano, a Riccardo Muti e la sua bacchetta magica.

A dire il vero rammento pure qualcuno che non la smetta mai di sibilarmi: “Lei è un detenuto non lo dimentichi mai, e tale resterà per sempre”.

Don Franco si erge in note pacate, in anse e anfratti appena sfiorati.

Nelle pause il capo è abbassato, quando lo rialza, spara gli occhi in un dritto lungo sui fedeli.

Non c’è ansia né fretta in quello sguardo, c’è tanta voglia di ripescare un senso, e un senso dare, a chi l’ ha perduto e neppure se ne accorge.

Ho davanti un prete a misura di un uomo, e mi chiedo se anche gli altri vicini, percepiscono questa mia sensazione.

Me lo chiedo, perché se così fosse , se così sentiamo tutti, allora abbiamo innanzi una possibile alternativa per non avere più  paura di noi stessi e degli altri, per non continuare a pensare a un rispettabile inferno.

Don Franco no approfitta del nome di Dio, non lo tira a mano per cento, mille volte, non inciampa in alcuna teatralità, non ripete strofe a memoria del vangelo, come fossero pagine scritte solo per essere lette.

Non raccoglie i cocci di quest’ umanità con termini in disuso.

L’impressione è di trovarmi di fronte una fotografia, similitudine di quell’ altra Croce posta al suo fianco.

E’ pittore istintivo dal pennello innato tra le dita, racchiuso e aperto nelle immagini che disegna, rese  comprensibili da mano di architetto sopra la sua testa.

Non è una predica la sua, no è un discorso ripetuto e ostinato, non c’è niente di banale di banale di quello che dice.

Un dritto e poi un rovescio ricamato di sorpresa, egli stesso ne è stupito.

L’ uomo rinuncia a Dio perché vorrebbe liberarsi di una impegnativa che lo costringe a pensare, anche rinunciare.

L’ uomo quando vuole determinare la propria felicità crea infelicità e sofferenze.

La teoria del super uomo, nasce e infervora gli animi più acerbi, non certamente per un mero calcolo filosofico, più semplicemente è l’illusoria  soluzione all’incapacità di possedere il coraggio e la coerenza per una teoria più umile.

“in questi concetti c’è senz’ altro una sapienza rivoluzionaria, non soltanto perché sospinge l’ uomo alla propria origine ontologica dell’ essere insieme”, della stessa cultura del “noi”.

Lo è soprattutto del dinamismo dialettico e quindi di atteggiamento di vita; la parola non rimane passiva, ferma tra attese trepide, e peggio sospese, ma avanza di pari passo a quella chiamata che è rivoluzione senz’ armi, amore e solidarietà nella gioia e nel dolore.

Rimango seduto ad ascoltare, ma non perdo l’ occasione di prendere appunti come mia buona abitudine :”l’ omo tende a risolverei propri problemi solamente con la propria testa e con il proprio cuore, senza l’ incontro con Cristo.

La vita, questa vita, non dobbiamo tenerla chiusa in noi, ma farla girare, proprio perchè non c’è una professione come ruolo sociale, e, dall’ altra una professione di fede.

C’è Dio.

La riconciliazione con Dio è solidale con la storia dell’ uomo, solo allora io sono cristiano, e sono dentro la mia storia.

Se io vado per mio conto, creo ostacolo all’ altro, e nessuna pretesa razionalistica potrà tentare nuovi orizzonti, nuove aperture, o formulare nuove posizioni atomistiche per sfondare la Verità che, invece è li, scritta e rivelata”.

Io continuo a scrivere, a tentare caparbiamente di confutare, scandagliando a memoria i mondi popperiani che mi sono appartenuti, riesumando nichilismi e alabarde filosofiche di nicelliana  memoria. E nonostante la mia dura cervice, non troppo scampo avanti una onestà intellettuale che induce a rimanere in silenzio, a non fare  rumore con i miei detriti a difesa.

Più mi inerpico sulla montagna della mia supposta arroganza, più mi sento antiumano, contrario alla vita stessa, a quella vita che don Franco eleva stile di vita.

Mi chiedo allora cosa c’è di scandaloso nella consapevolezza di una condivisione, di un’ appartenenza a un mistero che ci portiamo dentro e ci riconduce all’ uomo che è in noi?Credo sia fascinoso e avventuroso vivere una vocazione di maledetto per forza, infatti avventurarsi e catapultarsi verso ignoti lidi è più facile che rimanere fermi ad ascoltare, a ponderare, a sentire.

Quali stratagemmi, quali mistificazioni, quali comodi rifugi sono stati costruiti da e su quella Croce per infondere una sicurezza e un senso a questo mondo?

Quale vita imprevedibile e quale mondo trascendente potrà mai fare paura all’ uomo che procede in compagnia di se stesso, degli altri, in orme e segni digitali umani da ricondurre la ragione ai sentimenti che nascono e che non sono mai errati, bensì sono le nostre azioni – reazioni sbagliate.

E’ una perversione dello spirito, una patologia dell’ umanità la fede in Cristo, ha detto qualche tempo addietro un saggio dalla lucida follia, alludendo persino alla morte di Dio, alla caduta dei valori, nel venire meno di ogni certezza.

Ma quelle certezze che arrancano e annegano nelle debolezze, no sono astrazioni o immagini virtuali, siamo noi ad essere sempre più smarriti e impauriti, sempre noi a ritenere più abbordabile l’ effimero del tutto e subito, alla fatica dell’ esistere credendo nell’ uomo.

Allora quel vecchio saggio, precursore di tanti altri illuminati, ha avuto un’ allucinazione, perché non si tratta di ipotetica reazione protettiva o di una ritirata della realtà che non sappiamo affrontare, forse, e a ragione: urge ritrovare la strada da cui siamo partiti.

Perché? Proprio per questo essere un po’ perduto, l’ uomo contemporaneo non riuscirà mai a sopportare il peso della propria nullificazione, il carico psicologico e fisico della propria natura.

Non saranno le iconografie sofisticate della potenza umana, della discrezionalità degli attuali direttivi oggi, e dei ruoli direttivi meglio definiti domani, a coniugare quella “centralità” quella unità che don Franco  muove verso di noi.

Sono seduto, ma ora non scrivo più, è giunto il momento della Comunione.

Vedo quell’ Ostia  deposta in tante mani, a ben osservare le mani che la custodiscono, si può capire un’ intera storia che ci appartiene.

Le mani sono un libro aperto. Ho nel cuore tanta emozione, la vedo quell’ Ostia; così piccola e fragile, ha potenza sufficiente per fiarmi considerare cos’ è veramente bello.

Dio solito viene ritenuto bello l’ oggetto di considerevole valore economico, quello che ha un prezzo, io status  symbol, insomma tutto ciò che si può tradurre in un bene di consumo rientra nella categoria del bello.

Un esempio? Un alba non è bella, ma può esserlo uscire a quell’ ora da un locale notturno.

Una cultura del bello presuppone elasticità e dinamismo della mente, capacità di proiettare una nuova categoria esistenziale, sradicata dal vuoto apparire, dal cannibalismo imperante, da quel tanto pubblicizzato Darwinismo sociale.

Chissà che nell’ acquisizione di un nuovo strumento interpretativo, non sia più facile e meno tortuoso avere conoscenza di sé e del mondo.

Si, uno strumento di giudizio nuovo, nella possibilità importante di pensare che ci sia del bello in ogni incontro umano in ogni interazione, in ogni ambiente.

Quell’ Ostia non l’ ho avuta tra le labbra eppure sento che conquista metri alle miserie  che ci corrodono, al terrore e alla pietà delle lacerazioni subite e inferte, non tanto rimozione del male compiuto che non può essere ritrattato, bensì conoscenza di non essere più le persone che eravamo.

Un’ opportunità di sentirci all’ origine di un progetto di investimento alla vita.

Caro don Franco, sono ritornato tra queste quattro mura, però mi sento meglio, sento che ci sentiamo tutti più bene.

Non siamo più soli.

 

 

 

 

 

 

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