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GUERRIERI IN ERBA

 

Alcuni studenti mi hanno chiesto perché in questi ultimi tempi si verificano fatti delinquenziali compiuti da adolescenti e giovani adulti, non più e non solo di bassa estrazione sociale, ma provenienti da famiglie borghesi e benestanti.

Prima di rispondere, ho pensato ad un’altra dimensione, differente nello spazio, perchè limitato, e nel tempo, perchè in eccesso.

Ho pensato al carcere.

A ben guardare, persino qui dentro ogni cosa non è più al suo posto, “ le gabbie di partenza “ non sono più le stesse, e se osservo con attenzione, mi accorgo non solo che gli extracomunitari sono dappertutto, che i tossicodipendenti abbondano, che i giovani non sono più quelli di una volta, quelli che per una precisa scelta di vita decidevano di imboccare il vicolo cieco, consapevoli del rischio di andare a sbattere la testa.

Mi accorgo anche che ci sono i malavitosi con tanto di patente a punti, e con stupore mi rendo conto che sono una minoranza in via di estinzione.

Allora agli occhi balzano due considerazioni: che il problema sicurezza è legato al crimine di piccolo cabotaggio e che i ragazzi che sopravvivono nelle patrie galere somigliano più ad un groviglio di vite disastrate per dipendenze di ogni genere, non ultima quella di esorcizzare la vita.

Ai miei tempi si scivolava dalla trasgressione  alla devianza, alla criminalità, per uno scopo semplice, per denaro: il rischio e il rapporto causa-effetto erano inquadrati in un conflitto permanente tra base e vertice, quindi tra malavitosi e istituzioni.

La fotografia che appare nitida oggi, mostra un agglomerato umano detenuto, che aiuta a rispondere alla domanda postami all’inizio.

A mio modo di vedere c’è stato in questi anni una specie di mutamento antropologico, che stravolge ogni parvenza di linearità, addirittura contorce il più corretto ed onesto dei valori, la famiglia.

Dapprima c’è l’illusione da parte del nucleo familiare, di essere “ perbene”, perché si è raggiunto un benessere economico, con la convinzione che ciò non può comportare alcun tipo di rinculo.

Eppure è in questo modo di vivere “ sempre in piedi “ che nasce l’iconografia del nuovo disagio, come ha ben detto qualcuno, “il disagio dell’agio”.

E’ fin troppo facile, parlare di benessere materiale che disconosce o peggio ripudia il benessere spirituale, appare persino retorico accennarlo, quando la realtà sta in  un’educazione che riconosce unicamente i primi della classe, coloro che non si fanno fregare in prossimità della meta.

Qual’è oggi la famiglia che ci rappresenta tutti? Non certo quella di ieri, la nostalgia del passato non consente un paragone credibile, forse la verità è che siamo cambiati noi, a tal punto che non esiste più un modello di famiglia.

Esiste invece un imperativo che contempla e avvolge non solo la famiglia, ma anche la vita, e con ciò intendo il linguaggio contemporaneo, che sovverte i lignaggi, le religioni e  le politiche, quel linguaggio che mette a soqquadro e drammaticamente inverte il concetto di “ essere con l’avere “, rendendo vani e fallimentari negli adolescenti i processi e percorsi di costruzione della propria identità.

Tanti anni fa un vecchio saggio mi disse: “una fortezza resiste se la guarnigione è bene addestrata”.

Quale famiglia resiste ai conflitti fisiologici ad ogni salto generazionale, se gli stili educativi corrono sull’assenza di tempo, sull’atomizzazione dell’ascolto, sulla comodità di concedere attenuanti, in rifugi costruiti a misura, che deresponsabilizzano?

E’ molto più facile elargire un sì, che un no, perché quest’ultimo comporta spiegazioni ed allenamento alla fatica.

Per il ragazzo che è in attesa al palo, il sentiero si restringe, diviene una scorciatoia, l’ammenda è facile da pagare per rincorrere da una parte un’autonomia e capacità di scelta prive del proprio carico di responsabilità, perché indotte da un’infantilizzazione che rasenta la follia, dall’altra è ovvio che avanza l’assenza di freni e di capacità a mediare ( nozioni queste che in un recente passato erano peculiari della famiglia, della scuola, etc. etc.).

Va da sé, che così facendo è ben più stimolante non subordinare mai le passioni alle regole, a tal punto che quel desiderio di autonomia, improvvisamente irrompe con il suo carico di sconosciute responsabilità, e contenerne la spinta senza conoscerne il senso, equivale a trovarsi disarmati e arresi già in partenza.

Nella comunità “Casa del Giovane” di don Franco Tassone a Pavia, dove sono tutor, ho compreso quanto sia difficile conoscere ed interpretare il mondo di un minore, mettersi nei suoi panni.

Proprio in questa nuova avventura, ho scoperto un’altra differenza tra l’età adolescenziale odierna e quella che fu mia, se mai ne ho avuta una.

La mia ribellione, il mio urto e  fastidio era soprattutto per gli adulti, con le loro belle certezze e i loro domani precostituiti.

I ragazzi che osservo, seguo, ascolto oggi, non hanno rancori, ire, ferite da addossare ai grandi, è come se quell’eredità fosse scomparsa, non urge più il bisogno di “affratellarsi “ per essere antagonisti degli adulti, ora è necessario formare il gruppo per competere e vincere con i propri pari.

Per essere “ tosti “ occorre tecnologia avanzata, abiti griffati e perfezione dell’immagine.

Nasce il gruppo dei pari che combatte gli altri pari, e le armi usate nelle contese, sono quelle che i grandi lasciano senza protezione all’intorno. Sono le armi delle parole,  quelle parole che teatralmente condannano la violenza, per poi esortare i propri figli a non credere a nessuno, neppure a tante storie anonime, drammatiche, devastanti, scritte e cancellate nella frazione di uno sparo.

  

Vincenzo Andraous

Carcere di Pavia e

tutor della Comunità “Casa del Giovane” di Pavia

gennaio 2002

 

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