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«D'Amato fermati, vogliamo scendere»


Articolo 18 «E' l'ultimo dei nostri problemi» fa capire a Confindustria un numero crescente di imprenditori del Nord grandi, piccoli e medi, che non vogliono esasperare la conflittualità . Ma, salvo rare eccezioni, la fronda rimane sotto traccia. Perché «chi dissente con il capo, viene emarginato».


Manuela Cartosio

 


MILANO
Morire per l'articolo 18? No, grazie. Sono sempre più numerosi gli imprenditori che si smarcano dal muro contro muro della Confindustria. Nomi illustri (Agnelli, Benetton, Marzotto, Marcegaglia, Romiti, Merloni, Lucchini) e meno noti mandano un esplicito messaggio al presidente Antonio D'Amato: fermati. Giovedì scorso, in 57 hanno bigiato l'assemblea della giunta che ha rinnovato la squadra di viale dell'Astronomia e D'Amato ha inaugurato il secondo biennio del suo mandato con 20 voti in meno rispetto a due anni fa. In tutte le regioni del Nord imprenditori grandi, medi e piccoli cantano lo stesso ritornello: l'articolo 18 è l'ultimo dei nostri problemi, il gioco non vale la candela, non esasperiamo un conflitto che ci creerà un sacco di problemi nelle aziende. Temono un'ondata di scioperi articolati e il blocco generalizzato degli straordinari che potrebbero partire a maggio, se il governo si ostinerà a dire che lo sciopero generale «non ha cambiato niente».

Quelli degli imprenditori veneti, ex grandi elettori di D'Amato, sono «ben più che mugugni», dice Diego Gallo, segretario regionale della Cgil. Le prese di distanze sono sia individuali che collettive. Una trentina d'imprenditori medio-piccoli trevigiani hanno sottoscritto una lettera che critica l'oltranzismo di Confidustria. «Non l'hanno resa pubblica per ragioni di opportunità, ma l'ho vista in bozza con i miei occhi». Il giorno prima dello sciopero generale, la Federazione industriale veneta incontrando Cgil, Cisl e Uil ci ha tenuto a manifestare «forti riserve e perplessità» sulla linea D'Amato.

Non si contano i faccia-faccia alle tv locali in cui i sindacalisti si trovano di fronte imprenditori che si lamentano non di non poter licenziare a piacimento, ma «dell'eccessiva mobilità». Nella contrattazione di secondo livello la richiesta «spontanea» delle aziende è di «fidelizzare» i lavoratori. «Siamo al punto che qualche imprenditore propone una multa per i lavoratori che si autolicenziano». Mentre nel Nord-Est le aziende si rubano i lavoratori tra loro, Confindustria e governo fanno la guerra per liberalizzare i licenziamenti. Un paradosso, commenta Gallo, che le lotte articolate inaspriranno. Soprattutto in Veneto dove «bastano poche ore di sciopero per mandare in tilt il just in time, per scompaginare il sistema».

Come è successo quando la Cgil per preparare la manifestazione di Roma del 23 marzo ha rosicchiato qualche ora di lavoro per fare assemblee, presìdi, volantinaggi. Se a maggio Cgil, Cisl e Uil insieme metteranno in campo gli scioperi a scacchiera - il blocco degli straordinari in molte aziende è già in atto - «l'effetto sarà garantito». Sull'adesione dei lavoratori il segretario regionale della Cgil non ha dubbi: «Il 16 aprile si sono fermate anche le piccole fabbriche dove il sindacato non è presente. C'è disponibilità a proseguire la lotta e non faremo sconti».

Anche in Lombardia, afferma il segretario della Fiom Tino Magni, il fronte imprenditoriale dà segni diffusi di sfaldamento. «Però te lo dicono solo in privato che le barricate sull'articolo 18 non le vogliono fare. La Confindustria è l'ultima organizzazione dove vige il centralismo democratico. Chi dissente con il capo è emarginato».

Per questo, salvo rare eccezioni, la fronda anti-D'Amato resta sottotraccia. Per farla uscire allo scoperto, «il sindacato deve aprire una fase nuova»: scioperi articolati su organici e organizzazione del lavoro che traducano su scala aziendale la battaglia generale per i diritti, con l'obiettivo - ad esempio - «di far diventare fissi tutti i lavoratori atipici».

Gli imprenditori sanno che in azienda devono fare i conti con il sindacato e «piuttosto di subire la conflittualità, preferiscono fare gli accordi». I 978 accordi siglati tra il 1999 e il 2001 nelle aziende metalmeccaniche lombarde dimostrano che il pragmatismo dei padroni è più forte dell'ideologia di Federmeccanica, contraria per principio agli aumenti salariali in cifra fissa. Il 69% degli accordi li concede e per questo le Associazioni industriali non li hanno firmati. I restanti hanno sì la firma dell'Associazione ma, spesso, hanno anche un allegato - sottoscritto dall'azienda e dalle Rsu mentre l'uomo di Federmeccanica era uscito a fumare una sigaretta - che fa diventare fissi i premi che nei fogli precedenti erano solo variabili. Un gioco delle tre tavolette improponibile quando in ballo c'è l'articolo 18; lo «sveliamo» solo per dimostrare che tra il dire e il fare padronale c'è di mezzo il mare del quieto vivere in azienda.

Il direttivo nazionale della Cgil convocato per il 6 e 7 maggio discuterà su come proseguire la lotta. La Fiom lo farà nel comitato centrale del 13 e 14 maggio. La Cisl sarà d'accordo con gli scioperi articolati? «Al momento non possiamo né prevedere, né escludere niente», risponde il segretario nazionale Pierpaolo Baretta. Anche se, aggiunge, «le quotidiane dichiarazioni di Maroni sono un invito a farli e nel modo più incisivo possibile». Se si va avanti con il muro contro muro, se si persevera nel dire che la concertazione è morta, «nelle aziende si aprirà automaticamente una questione salariale».

E allora, toccati nel portafoglio, gli imprenditori che ora si limitano a mugugnare si faranno sentire dai vertici di Confindustria. Per il momento il malumore c'è, ma - in assenza di un tavolo di trattativa - «non diventa massa critica». Restano segnali che non si traducono in un cambiamento di linea.

L'ipotesi che i padroni lascino D'Amato con il cerino acceso in mano è fantasiosa? «Se il governo proporrà di scambiare la retromarcia sull'articolo 18 con vantaggi materiali come la decontribuzione, potrebbe succedere».

Di certo, conclude Diego Gallo, «se Confindustria e governo potessero tornare indietro, l'articolo 18 nella legge delega non ce lo metterebbero più».

 

Tratto da "Il Manifesto" 24 aprile 2002