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Flessibilità? Primo garantire i diritti


Il professor Aris Accornero, professore di sociologia industriale all'
Università la Sapienza di Roma, autore del «Il lavoro flessibile, cosa
pensano davvero imprenditori e manager».


Professore Accornero, cosa si intende davvero per flessibilità.

«Tutto quello che può facilitare un'azienda a rispondere ad una domanda
diversa: perché non c'è più l'esigenza di una produzione di massa, ma
differenziata».

Anche a lei la stessa domanda,il lavoro fisso è destinato a scomparire?

«Assolutamente no. Il nord/est,che è stato fra le prime regioni ad applicare
contratti diversificati, ora esprime un'esigenza di stabilizzare i rapporti
di lavoro. Anche per non disperdere i costi di formazione di una manodopera
già selezionata.Spesso le imprese fanno dei patti fra loro, per non rubarsi
il personale».

Quindi la flessibilità non è una tendenza inarrestabile.

«Ancora una volta no. Prima di tutto questa tendenza alla diversificazione
produttiva potrebbe finire: ad esempio quando inizierà la produzione dell'
auto ad idrogeno, all'inizio ce ne sarà solo un tipo. E poi la flessibilità,
che tutto il mondo ci invidia, in Italia è strutturale: è la flessibilità
delle piccole imprese, che per esempio negli Stati Uniti sono quasi
inesistenti...Non è un caso che ora sono soprattutto le grandi imprese a
chiederla in Italia, e le aziende del Sud, dove sono nate 150000 nuove
imprese in tre anni, per abbassare il costo del lavoro. Ma nel Sud la
renditività e la produttività è legata al contesto difficile. I trasporti
per esempio, la sicurezza, o il costo dell'energia».

E il lavoro fisso quindi non diventerà un ricordo?

«Come ho detto, la flessibilità non può essere un processo indefinito in un'
azienda, perché porterebbe all'impresa virtuale, con marchio,prodotto, sede,
virtuale. Invece i dati dicono che dopo un aumento dei contratti flessibili,
c'è stato un arresto ed è aumentata l'occupazione stabile».

C'è il pericolo di interpretare la flessibilità come mancanza di diritti?

«C'è bisogno di una rete protettiva, leggera e universalistica, che
attraversi la discontinuità lavorativa. E garantisca diritti primari come la
malattia, la disoccupazione, l'anzianità».

Cosa emerge da parte degli imprenditori?

«Che attraversano questo periodo con naturalezza e senza eccessivi
allarmismi. Il 30% non usa la flessibilità, il 60% delle piccole imprese non
ne hanno bisogno. Una quota desiderabile viene attestata al 20%, una cifra
meno drammatica di quanto rilevato dal sindacato e dalla Confindustria».

E sull'articolo 18?

«I vincoli al licenziamento sono l'ultimo dei motivi segnalati come causa di
introduzione del lavoro flessibile».

Giovanna Altieri è direttore dell'IRES, istituto per gli studi economici e
sociali della CGL, ha pubblicato in gennaio un rapporto su «L lavoro Atipico
in Italia: le tendenze del 2001». Da cui sono stati tratti i dati e
consultabile anche su Internet.

Allora dottoressa Altieri, il lavoro standard è morto?

«No, e i dati del 2001 lo dimostrano. Ma non ci sarà per tutti e sempre».

E allora?

«E allora il dibattito è troppo acceso sulla questione contrattuale.Il
problema della flessibilità è nei modelli organizzativi delle imprese,nella
loro capacità di fronteggiare la competizione attraverso la qualità. E
funzionale, nei lavoratori,ottenuta soprattutto attraverso la formazione. La
partita non si gioca sulla mera riduzione del costo del lavoro».

tratto da "L'Unità", 26 febbraio 2002




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