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La scelta dell'eutanasia
un diritto lacerante


di LUIGI MANCONI

 

UN lettore, Rodolfo Ziberna, scrive a "Repubblica": "Con quale cuore e sentimenti di carità si è davvero in grado di mantenere in vita un malato terminale che soffre le pene dell'inferno e che certamente è destinato alla morte?". E ancora: "Vi sarà un diritto a una morte serena, a una morte che sia dignitosa? Vi sarà il diritto di una persona lucida, agonizzante, di non subire la violenza contro natura di una tecnologia che in quel momento è in grado solo di prolungare la sofferenza?" e così conclude: "Certo, la risposta può essere lacerante per molti, ma mai così dolorosa come per colui al quale questo diritto viene negato".
Stiamo parlando, appunto, di un "diritto lacerante": ovvero, sempre e comunque, di una scelta tragica tra l'altissimo valore dell'intangibilità della vita umana e il fondamentale diritto all'autodeterminazione di chi, di quella vita mortificata dalla sofferenza o annichilita dallo stato vegetativo, è il soggetto. Di questi temi abbiamo discusso, la scorsa settimana, nel corso del convegno "Il diritto a una morte dignitosa" (organizzato dalla Consulta di Bioetica, dalla Fondazione Ravasi e da chi scrive). In quella sede, Indro Montanelli ha ribadito la sua posizione: "Sono vicino al grande passo e intendo avvalermi del diritto di scegliere come e quando morire". Un'affermazione così netta e intensa ha connotato drammaticamente una discussione che, in quel convegno e nella sensibilità collettiva, compie, finalmente, alcuni passi avanti. Il confronto non è più (grazie al cielo, è il caso di dire) tra chi afferma una opzione etico-religiosa ("solo Dio può darci e toglierci la vita") e chi le oppone un argomento sacrosanto, ma esclusivamente pragmatico ("bisogna ridurre le sofferenze dei malati"). Chi oggi prende in considerazione l'ipotesi estrema della eutanasia - in casi limitati e rigorosamente circoscritti - lo fa, a sua volta, a partire da una opzione morale. Ovvero, a partire dalla riflessione umanissima (e compassionevole) proprio sul senso dell'esistenza. In altre parole, possiamo considerare il concetto di vita esclusivamente sotto il profilo della sua continuità biologica? Ritengo, appunto, un imperativo etico domandarsi se la mera sopravvivenza vegetativa - ad esempio, quando un trauma causa l'interruzione dei collegamenti tra la corteccia cerebrale e i centri nervosi sottostanti - possa considerarsi vita degna di essere vissuta; e se, dunque, a essa si possano applicare le categorie di intangibilità e di sacralità. E la stessa riflessione deve farsi in presenza di patologie irreversibili, che producano dolori intollerabili. In sostanza, il concetto di vita, per chi non disponga di una forte ispirazione religiosa, non è scindibile dalla sua dotazione di senso. E a dare senso è, innanzitutto, il rapporto, per quanto esile e intermittente, con gli altri: e la capacità di conoscenza e di relazione, di sentimento e di esperienza. Può esservi ciò in presenza di sofferenze non sedabili, di stadi terminali, di stati vegetativi permanenti? Chi dubita di questo ritiene che l'individuo debba essere messo nelle condizioni di esercitare il diritto a una morte dignitosa attraverso una scelta di autodeterminazione.
Tutto ciò non rende meno tragica quella scelta e non evita il rischio, che pure esiste, di una banalizzazione dell'eutanasia. Per evitare ciò, il discorso sull'interruzione volontaria della propria sopravvivenza va correlato a due essenziali condizioni. La prima è rappresentata dal "testamento di vita" o "dichiarazione anticipata di volontà": uno strumento giuridico che consenta alla persona - anche nel caso di perdita delle facoltà mentali - di disporre anticipatamente in merito ai trattamenti sanitari, da accettare, ma anche da rifiutare (con la possibilità di affidare tale scelta a persona di fiducia). La seconda condizione che può consentire di affrontare con senso di responsabilità, ma anche col necessario coraggio, il discorso dell'eutanasia, è lo sviluppo di adeguate terapie contro il dolore. Su questo piano, il nostro paese sconta un terribile ritardo. Qualora esso venisse colmato - e la cosa non è affatto scontata - le parole del ministro della Sanità, Umberto Veronesi, sarebbero ancora più condivisibili: "Se l'utilizzo della morfina nei casi gravi, con dolore e sofferenza intollerabili, diventerà una regola che, con grande attenzione, possa essere seguita da ogni medico comprensivo e caritatevole, allora la richiesta di anticipare l'evento biologico terminale sarà meno frequente".

 

 

Tratto da "La Repubblica" 17 dicembre 2000

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