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Il primato moralistico

 

di Gianni Vattimo

 

Il Parlamento olandese approva una legge che ammette l’eutanasia anche attiva, per pazienti che la richiedano (o l’abbiano richiesta suo tempo); la Francia ha già da tempo previsto una forma di «famiglia» diversa da quella tradizionale, fondata su un patto civile di solidarietà che può legare anche persone dello stesso sesso; la Spagna di Aznar, di cui la nostra destra «cattolicissima» ci richiama sempre l’esempio ha aperto le «narcosalas» in cui si somministra eroina a tossicodipendenti che non possono o non vogliono disintossicarsi.

Altri paesi d’Europa, magari molto severi in fatto di droghe, legalizzano il vero e proprio matrimonio omosessuale, o prevedono la possibilità di adozione per i single o per coppie di «diversi», o concedono nelle strutture sanitarie pubbliche la fecondazione assistita a donne single. Eccetera eccetera. Non sarà che, in un ideale (e augurabile) albo dei proibizionismi in atto nel mondo, o anche solo nell’Europa dei Quindici, l’Italia sarebbe al primo posto?

Quel primato «morale e civile» di cui parlò Gioberti nell’Ottocento - e a cui abbiamo ancora buoni motivi di credere, almeno per qualche aspetto della nostra vita collettiva - non si è trasformato in un primato «moralistico», e certo niente affatto civile? Moralistico è senza alcun dubbio il rifiuto di considerare il problema della droga in termini meno astrattamente ideologici, come ha tentato di fare, con scarso successo ma con indubbia buona fede e con molte ottime ragioni, il ministro Veronesi al recente convegno di Genova; moralistico, dogmatico, in fondo inumano è anche il rifiuto di discutere la questione dell’eutanasia. Il diritto alla vita è davvero identificabile con il puro e semplice diritto alla sopravvivenza a tutti i costi?

Davanti a una persona cara che sia ridotta allo stato puramente vegetativo, chi può pensare che sia delittuoso staccare la spina? Persino offrire il proprio dolore a Dio possono farlo soltanto coloro che sono ancora in possesso delle proprie facoltà. E chi non crede di doverlo fare, magari anche pensando che Dio non è più il Dio assetato di sacrificio venerato dai primitivi?

Davvero viola qualche principio, o anche qualche comandamento biblico, decidere per legge che una persona può fare un testamento biologico, lasciare delle «direttive anticipate», che i medici dovranno rispettare nel caso che si verifichino certe condizioni - dolore intollerabile senza ragionevoli probabilità di guarigione o di semplice miglioramento; perdita di ogni possibilità di vita di relazione, delle facoltà mentali, situazioni insomma in cui uno non considera più vita la vita? C’è, nel rifiuto anche solo di discutere la possibilità di legalizzare l’eutanasia, un misto di rigidità (nei medici, il giuramento di Ippocrate, come si sa) e di sadismo ignaro della carità.

Ciò che tutti temiamo di più della morte non è tanto il fatto di non esserci più né, forse, l’Inferno (un luogo sempre più vago anche nella predicazione cattolica); ma proprio l’eventualità di essere ridotti, prima di morire, a un peso intollerabile per noi stessi e per gli altri. Perché sarebbe volontà di Dio, o della natura, non permetterci di eliminare, o almeno ridurre di molto, questa paura?

 

 

Tratto da "La Stampa" 2 dicembre 2000

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