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Contro la guerra in Iraq
 
 
 
 
Edward M. Kennedy
Senatore democratico


Il dibattito sull’attacco all’Iraq è diventata una questione di vita o di morte, troppo importante per essere lasciata alla politica.

Non sono d’accordo con chi suggerisce che questa impostazione non possa essere contestata vigorosamente e pubblicamente in tutta l’America.

Quando sono i figli e le figlie di questa nazione a rischiare di perdere la vita, la gente deve parlare ed essere ascoltata. C’è tuttavia una differenza fra onesto dialogo pubblico e appelli di parte.

Ci sono repubblicani e democratici che sostengono l’uso immediato della forza, ma anche altri che hanno sollevato dubbi e dissentito.

In questi gravi tempi per l’America nessuno dovrebbe avvelenare il dibattito pubblico mettendo in dubbio il patriottismo dei rivali o aggredendo chi fa proposte diverse con l’accusa di essere più interessato alla causa della politica che alle proprie tesi.

Io respingo queste accuse. Tutti dovremmo farlo.

E’ possibile amare l’America pur concludendo che non è saggio, ora, andare in guerra.

Il principio che ci deve guidare è particolarmente chiaro quando ci sono vite in gioco: dobbiamo domandarci che cosa sia giusto per il paese, non per il proprio partito.

Sono convinto che usare la forza contro l’Iraq prima di sperimentare altri mezzi metterà a dura prova l’integrità e l’efficacia della coalizione internazionale che ora combatte con noi il terrorismo.

A un anno dall’avvio della campagna contro Al Qaeda, l’Amministrazione devia concentrazioni, risorse ed energie verso l’Iraq.

Questo cambiamento di priorità si verifica prima che sia stata del tutto eliminata la minaccia di Al Qaeda, prima che si sappia se Osama bin Laden è vivo o morto e prima che ci sia la certezza di un consolidamento d’autorità del governo post-taleban in Afghanistan.

Nessuno dubita che l’America abbia duraturi e importanti interessi nel Golfo, o che il regime di Saddam Hussein rappresenti un grave pericolo, che egli sia un tiranno e che la sua ricerca di armi mortali di distruzione di massa non possa essere tollerata. Saddam deve essere disarmato.

Ma come possiamo raggiungere questo obiettivo minimizzando i rischi per il nostro paese? Come possiamo ignorare i pericoli per i nostri ragazzi in divisa, il nostro alleato Israele, la stabilità regionale, la comunità internazionale, la vittoria contro il terrorismo?

C’è chiaramente una minaccia dall’Iraq, ma l’Amministrazione non ha dimostrato in modo convincente che siamo di fronte a una minaccia imminente per la nostra sicurezza nazionale e che un attacco americano unilaterale e preventivo, quindi una guerra immediata, sia necessario.

Quando quarant’anni fa si scoprirono missili a Cuba - missili molto più pericolosi per noi di quelli che Saddam ha oggi - alcuni esponenti al più alto livello di governo spinsero per un immediato attacco unilaterale.

Invece gli Stati Uniti portarono il loro caso all’Onu, ottennero il sostegno dell’Organizzazione degli Stati americani e conquistarono persino i nostri alleati più scettici. Imponemmo un blocco, esigemmo un’ispezione e insistemmo sull’eliminazione dei missili.

Quando il Presidente di allora illustrò quella scelta agli americani e al mondo, ne parlò in termini realistici: non nel senso che il primo passo sarebbe stato necessariamente il passo finale, ma con la certezza che si dovesse provare.

Come disse allora, «è necessario agire... e queste azioni possono essere solo l’inizio. Non correremo prematuramente e senza necessità il rischio di una guerra, ma neppure lo eviteremo se in qualsiasi momento lo dovessimo affrontare».

Nel 2002 anche noi possiamo e dobbiamo essere risoluti e misurati. Ora, per l’Iraq, costruiamo un sostegno internazionale, tentiamo con le Nazioni Unite, perseguiamo il disarmo prima di ricorrere al conflitto armato.

 

Tratto da "La Stampa" 28 settembre 2002

 

 

Perché non esistono le guerre necessarie

Gino Strada

 

Caro direttore, ieri Miriam Mafai scriveva su La Repubblica: "E tuttavia c'è qualcosa che non mi convince in quell'appello, che io non firmerò". L'appello in questione è quello di Emergency, "Fuori l'Italia dalla guerra" (www.emergency.it). Sarebbe utile discuterne a fondo, prima di passare alle "dichiarazioni di firma", perché Miriam Mafai, per la quale ho stima e rispetto, espone ragioni molto serie e opinioni diffuse sulla guerra e sulla pace. "Non mi convince il pacifismo assoluto, di tipo ideologico che lo ispira".

Non credo sia così, almeno per quanto riguarda Emergency: la scelta della non violenza e della pace deriva, al contrario, dall'aver avuto a che fare, negli otto anni di vita della associazione, con più di trecentomila vittime di guerra che abbiamo operato, curato, conosciuto. Non dall'ideologia, ma dal vedere sui tavoli operatori dei nostri ospedali migliaia di esseri umani straziati da bombe e mine il trenta per cento bambini - nasce il nostro rifiuto e disgusto per la guerra. Siamo convinti, perché lo vediamo ogni giorno, che le vittime siano la prima e forse l'unica verità della guerra, e che l'alternarsi di governi e dittatori ne siano soltanto, questi sì, effetti collaterali.

"La libertà di cui godiamo è nata dal bagno di sangue che si è consumato attorno a Stalingrado e sulle spiagge di Normandia", ha scritto Miriam Mafai. È vero, è andata così. Ma è indispensabile che quel bagno di sangue non si ripeta, perché ci lascia molto amaro in bocca, per usare un eufemismo, una libertà conquistata e goduta al prezzo di milioni di morti.

Il mondo non è più lo stesso dopo l'11 settembre, si sente ripetere da molte parti. Il mondo e la guerra sono cambiati ben prima. Il 6 agosto 1945, il fungo atomico su Hiroshima ha fatto svanire centomila esseri umani in un minuto e ne ha uccisi molti di più nei decenni successivi. E' stato allora, nello stesso periodo in cui in Europa le città venivano rase al suolo dai bombardamenti e si consumava l'Olocausto, che il mondo e la guerra sono cambiati per sempre.

Per quanto mi sforzi di trovare altre parole per definire quel momento, una sola mi ritorna in mente, mi pare adeguata: terrorismo. Da allora, tutte le guerre hanno assunto sempre più un carattere terrorista. Tremila esseri umani, tra le macerie del World Trade Center, hanno tragicamente sperimentato un atto di terrore. Prima di loro, altri milioni di esseri umani per il 90 per cento civili ne avevano sperimentati altri, ciascuno il suo.

Chi è stato bombardato, chi bruciato dal napalm o soffocato dai gas, chi è finito nei gulag o nei campi di sterminio, chi è stato fatto a pezzi da un'autobomba e chi è sparito senza lasciare traccia. Nella lista infinita delle vittime del terrorismo ci sono anche lo capiamo bene, se pensiamo a loro come se fossero figli nostri anche le centinaia di migliaia di bambini iracheni uccisi dall'embargo nell'ultimo decennio. Il negare loro la possibilità di essere curati non permettendo l'arrivo di medicinali è stato, ne siamo convinti, un atto di terrorismo.

"Non mi convince in primo luogo il discorso di che mette sullo stesso piano Bin Laden e Bush". Mi sembra una semplificazione ad effetto, e nulla ha a che vedere con il testo dell'appello di Emergency. Ma forse è il caso di fare una precisazione. Resto convinto che le vittime, cioè gli esseri umani morti e mutilati, non si possano dividere in cittadini di prima e di seconda categoria. Credo che un bambino che sparisce nelle Torri Gemelle valga quanto un bambino afgano che resta ucciso sotto le bombe. Non vale di meno, ma neanche di più. E siccome quei bambini mi interessano, entrambi, ho anche la stessa opinione su chi li ha fatti fuori, l'uno e l'altro.

"Un pacifismo assoluto (...) se può essere proposto come valore da uomini di Chiesa, può non reggere alla dura prova della politica". Questo, mi sembra, è un altro punto importante della discussione. Mi verrebbe da dire, da laico quale sono, che forse è proprio il fatto che i valori e l'etica siano andati da una parte e la politica da tutt'altra, la causa prima del mondo ingiusto e violento che è davanti ai nostri occhi, un mondo dove per molti è "11 settembre" tutto l'anno.

La tesi della "guerra necessaria" per porre fine a feroci dittature è anche la critica più comune al movimento per la pace. Anche di ciò si dovrebbe discutere a lungo. Può darsi che il movimento per la pace non sia in grado di far cadere un dittatore, ma una cosa è assolutamente certa, che il movimento per la pace non ne ha mai creati né aiutati ad imporsi con armi e fiumi di denaro. Mi piacerebbe, e non credo di essere il solo, che ci fosse un ampio dibattito su questi temi, ed è una della ragioni dell'appello di Emergency e delle iniziative che prenderemo nei prossimi mesi.

Senza dimenticare tuttavia, quando si scrive di "guerre necessarie" e si fanno paralleli storici, che ci troviamo una nuova guerra all'orizzonte, oggi, contro l'Iraq. E che la nuova guerra, più che di libertà, ha una maledetta puzza di petrolio.


Tratto da "La Repubblica" 26 settembre 2002

 

 

Il disarmante dossier di Scott Ritter

Tommaso Di Francesco

 

Scott Ritter è un ufficiale dei marines che, per sette anni, ha partecipato alla missione di disarmo in Iraq come ispettore Onu. Fervente repubblicano, ha votato per Bush ma oggi pubblica un libro-intervista in cui smonta la costruzione mitologica occidentale sulle armi di distruzione di massa in possesso di Baghdad.

Passo dopo passo, annuncio dopo annuncio, il mondo sta entrando nell'avventura della guerra all'Iraq che il presidente statunitense George W. Bush e l'alleato-maggiordomo Tony Blair vogliono ad ogni costo. Stavolta non ci sarà nemmeno la bugia della «guerra umanitaria», sarà una guerra-guerra, tout court, anzi sarà preventiva. Anche se non mancheranno le motivazioni che ci spiegheranno - già hanno cominciato a farlo - che l'azione armata alla fine è servita proprio per «prevenire» un disastro all'umanità di fronte ad armi di distruzione di massa. Diranno tante cose. Ma il punto è che ogni guerra per essere tale ha bisogno, da parte del potere, di trovare una sua giustificazione, per essere narrata e trovare la sua legittimazione. Insomma, stavolta quale sarà la «Rambouillet» irachena, il casus belli utile a scatenare l'inferno? Non l'hanno ancora trovata, ma in queste ore si sta delineando. Ci dice infatti il Dipartimento di Stato Usa che Stati uniti e Gran Bretagna hanno definito la risoluzione dell'Onu da imporre all'Iraq, tale che dovrebbe convincere i recalcitranti che non vogliono questa guerra - i più - e tale da zittire la disponibilità del regime di Saddam Hussein che ha risposto, di fronte ai tanti dossier e rivelazioni, che era disposta, senza condizioni, al ritorno degli ispettori dell'Onu su tutto il territorio del paese. In buona sostanza si prepara una Risoluzione «forte» al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite come voleva Bush, scritta da Blair, che impone a Baghdad la presenza degli ispettori non nei soli siti sospettati di ospitare armi di distruzione di massa, ma ovunque, soprattutto nelle sedi politiche del regime, il parlamento e i ministeri, il palazzo presidenziale compreso. Aggiungeranno magari che, stavolta, gli ispettori, dovranno essere «protetti» da una missione internazionale armata. Condizioni, come si vede, fatte apposta per portare al fallimento della mediazione del segretario dell'Onu, Kofi Annan, che ha accettato la disponibilità di Baghdad - che chiede la presa in considerazione del problema della fine delle devastanti sanzioni che durano da dieci anni - e che ha attivato da subito gli ispettori guidati dal capo missione Hans Blix che si dichiara pronto a partire. Questi i fatti, fin qui. Tenendo presente che l'intera costruzione si regge sulle dichiarazioni di Bush e Blair che chiedono l'autorizzazione a fare la guerra per «disarmare» l'Iraq che possiederebbe «armi bateriologiche e chimiche, armi di distruzione di massa pronte ad essere usate in 45 minuti contro Israele e Cipro» e «l'arma atomica tra pochi mesi». E si aggiunge in queste ore, richiamando la memoria ancora ferita dell'11 settembre, che «Saddam ha dato le armi chimiche ad Al Qaeda», smentendo le smentite su questo fatte solo poche ore prima. Baghdad corre a rispondere aprendo alla stampa internazionale i «siti» considerati letali e chiedendo l'arrivo degli ispettori al più presto, ma non basta e non servirà a nulla. Blair ha presentato un «dossier». Non convince nessuno, ma per la guerra può bastare, e per l'immaginario televisivo basta e avanza per dire che ci sono le prove.

Ci vorrebbe a questo punto qualcuno, davvero autorevole, capace di smontare la costruzione mitologica occidentale sulle «armi di distruzione di massa» in possesso di Baghdad. Questo qualcuno c'è. Si chiama Scott Ritter, ufficiale statunitense eroe dei marines, che ha partecipato per sette anni alla missione di disarmo in qualità di ispettore Onu e perdipiù è un fervente repubblicano che ha votato per Bush alle ultime presidenziali.. Scott Ritter ha pubblicato in questi giorni un libro-intervista Guerra all'Iraq straordinario quanto decisivo, uscito in contemporanea in Italia, dov'è stato pubblicato da Fazi Editore (10 Euro, pp. 115) e negli Stati uniti, curato dal noto commentatore e saggista americano William Rivers Pitt. Un libro che, da questo punto di vista, davvero è il «controdossier» che andrebbe letto nei parlamenti occidentali. Che cosa dice di talmente eccezionale l'ex funzionario-ispettore Onu dal 1991 al 1997 Semplicemente questo: «Se io dovessi quantificare la minaccia rappresentata dall'Iraq in termini di armi di distruzione di massa, essa equivale a zero». E la sostanza di questa affermazione non l'ha solo scritta nelle risposte di questo libro, o in decine di interviste e articoli che ha pubblicato in questo ultimo periodo. No, ha fatto di più. In aperto conflitto con il «suo» governo, è andato a Baghdad in queste settimane per accompagnare i giornalisti della stampa internazionale a visitare i presunti «siti di armi di distruzione di massa», che altro non sono che fabbriche civili o macerie, residuo del buon lavoro di controllo e distruzione fatto proprio dagli ispettori Onu. Una denuncia così fastidiosa da meritare la risposta stizzita perfino del segretario di stato Usa Colin Powell.

Un libro bomba, è il caso di dire. Fin dall'esergo iniziale che cita Karl Kraus: «Come si governa il mondo per condurlo alla guerra? I diplomatici dicono bugie ai giornalisti e poi, una volta che le vedono pubblicate, ci credono». E l'America, scrive nell'introduzione William Rivers Pitt, dopo l'11 settembre appare propensa a credere e ad apprezzare ogni contrapposizione tra bene e male, tuttaltro che tranquilla all'idea che qualcuno abbia armi di distruzione di massa e che queste possano arrivare ai terroristi di Al Qaeda di bin Laden. Inoltre Saddam Hussein è stato così demonizzato, ancora di più dopo la prima guerra del Golfo, con il paragone tra lui e Hitler, che si ritiene ci siano motivi più che sufficienti per una sua deposizione. Tuttavia ancora non è chiaro perché sia necessaria questa guerra. E non è chiaro chi sia Saddam Hussein, mentre tutti o quasi sanno ormai che Osama bin Laden era nel libro paga della Cia quando organizzava la resistenza islamica all'occupazione militare sovietica dell'Afghanistan e che i talebani erano alleati, anche d'affari, del Pakistan, dell'Arabia saudita e degli Stati uniti fino a un mese prima dell'11 settembre e con loro trattavano il nuovo oleodotto del consorzio angloamericano Unocal, ora realizzato a «fine» guerra da Hamid Karzai, neopresidente afghano, ex consulente dell'Unocal e assai probabilmente agente della Cia.

Il fatto è, spiega bene il libro, che anche Saddam Hussein è una creatura americana: «E' un mostro, sì, ma il `nostro' mostro, è una creazione americana come la Coca Cola e l'Oldsmobil». E' stato il governo americano del presidente Ronald Reagan ad appoggiare e ad armare il suo regime, ferocemente impegnato contro il fondamentalismo islamico interno e iraniano, fin dall'inizio degli anni Ottanta - nell'82 l'Iraq venne cancellato dalla lista dei paesi terroristi - per contrastare l'influenza sovietica nella regione, e ad armarlo ancora di più durante la guerra con l'Iran, guerra in cui ha usato sul campo di battaglia armi chimiche fornite proprio dallo stato maggiore americano, guerra sostenuta attivamente dall'intelligence Usa che pianificò battaglie, attacchi aerei e danni dei bombardamenti. Una guerra costata due milioni di morti. Come dettagliatamente resocontato nell'agosto del 2002 dal New York Times che ha pubblicato dettagliate e controfirmate dichiarazioni di alti ufficiali Usa coinvolti nella politica di aiuti militari all'Iraq durante l'Amministrazione Usa: l'America sapeva che Saddam Hussein usava armi chimiche contro l'Iran, ma continuava a fornirgli armi e assistenza. L'America chiudeva tutti e due gli occhi sugli effetti devastanti di quel riarmo, chimico, batteriologico, nucleare visto che l'avvio di nucleare iracheno era stato bombardato nel 1981 dall'altro «mostro» americano nell'area, vale a dire Israele con il suo potenziale bellico e atomico (200 testate, ma clandestine). Una conoscenza delle armi di Saddam Hussein che sarebbe tornata utile nei bombardamenti chirurgici della prima guerra del Golfo: uno scherzo per i bombardieri di precisione americani, visto che i siti erano nei cassetti dello stato maggiore Usa che li aveva costruiti. Non uno scherzo per i 100.000 militari occidentali contaminati dalla Sindrome del Golfo, quella che ora tutti dimenticano.

E inolte, vorremmo ricordare noi, quale America gridava allo sterminio quando, nel 1984, Saddam Hussein massacrava i comunisti iracheni? E poi «sempre gli Stati uniti non hanno deposto il regime di Baghdad durante la guerra del Golfo, e di fatto hanno ostacolato i tentativi di rovesciare Saddam Hussein compiuti dai ribelli iracheni sollecitati all'azione dalla nostra retorica» e, aggiungiamo, dalle promesse della Cia.

Il libro-intervista racconta decine e decine di ispezioni, di indagini campione di sarin, di scoperte poi dimostratesi di scarso rilievo, delle menzogne degli iracheni smascherate, del lavoro delle ispezioni a sorpresa della biologa Diane Seaman e l'affare del codice segreto che parlava di «Attività biologiche speciali», documento che poi si rivelò come il testo dei servizi segreti iracheni per la sicurezza personale del dittatore iracheno, e il mondo fu perfino sull'orlo di una nuova guerra che poi fu evitata e su cui, mentendo, soffiava - denuncia Scott Ritter - l'ex capo ispettore Richard Butler pur informato sulla realtà e inconsistenza dell'affare; e ancora di tensioni per le ispezioni nelle sedi istituzionali, di approfondimenti in laboratorio, dell'impianto di fermentazione chimica di Al Hakum fatto esplodere dagli ispettori, del monitoraggio capillare dal 1994 al 1998 della totalità degli impianti chimici iracheni. Ispezione dopo ispezione per arrivare alla conclusione che i bombardamenti e il lavoro di distruzione ha praticamente portato a zero il grado di pericolosità dell'Iraq quanto ad armi di distruzione di massa. «Ritengo a questo punto fondamentale un problema di cifre - risponde Scott Ritter nel libro -. L'Iraq ha distrutto il 90-95% delle sue armi di distruzione di massa. Dobbiamo ricordare che il restante 5-10% non costituisce necessariamente una minaccia né un programma di armamento, se non siamo in grado di dire quella percentuale minima che fine ha fatto, non significa che l'Iraq ne sia ancora in possesso», dopo il massiccio embargo e il passaggio degli ispettori.

E i legami con Al Qaeda? E la bomba atomica di Saddam pronta tra pochi mesi?

Scott Ritter non ha dubbi e definisce la «connessione» con Al Qaeda «una faccenda palesemente assurda». «Saddam Hussein - ricorda - è un dittatore laico, ha passato gli ultimi trenta anni a dichiarare guerra al fondamentalismo islamico, facendolo a pezzi. A parte la guerra all'Iran degli ayatollah, in Iraq sono in vigore leggi che sentenziano la pena di morte per il proselitismo in nome del wahabismo, la religione di Osama bin Laden. Osama odia in modo particolare Saddam, lo chiama l'apostata, un'accusa che implica la pena di morte». L'unica arma, se così si può dire, che lega Osama bin Laden e l'Iraq è il fatto che il leader di Al Qaeda così come reclama la libertà in Palestina condanna il mondo occidentale per le sanzioni all'Iraq. Perché? «Perché le sanzioni americane - risponde Scott Ritter - non colpiscono certo Saddam, colpiscono il popolo iracheno», al quale bin Laden si richiama profeticamente usando le sanzioni come grido di guerra. Quanto al nucleare, il libro-intervista rivela che il fondamento di questa accusa risiede in alcuni fuoriusciti e disertori, Khidre Hamza, funzionario di medio livello del programma nucleare iracheno, oggi immeritatamente protagonista di molti programmi-scoop della tv americana, e soprattutto aiutante di Hussein Kamal genero di Saddam e responsabile della commissione militare industriale irachena. E' stato Hamza a raccontare e a costruire con la Cia i dati sul presunto programma nucleare iracheno attuale, ma lo stesso genero di Saddam, Hussein Kamal, quando disertò nel 1995, si rifiutò di sottoscrivere e prendere per buoni quei dati definendoli «un falso grossolano».

Resta un solo interrogativo vero, che William Rivers Pitt prende alla fine di petto con questa domanda: «Lei è un veterano dei marine, un ufficiale e un funzionario di intelligence. Ha passato sette anni in Iraq a rintracciare queste armi per garantire la salvezza e la sicurezza non solo di questo paese, ma anche del Medio Oriente e del mondo. Eppure alcuni suoi concittadini la chiamano traditore perché parla così apertamente di tali argomenti. Come risponde?». «La gente può dire quello che vuole - risponde secco ma sereno Scott Ritter - ma chi parla in questo modo non fa che dimostrare la propria ignoranza. Esiste una cosuccia che si chiama Costituzione degli Stati uniti d'America. Quando ho indossato l'uniforme dei marines e mi fu affidato l'incarico di ufficiale ho giurato di essere fedele e di difendere la Costituzione contro tutti i nemici, esterni e interni. Questo significa che sono disposto a morire per quel pezzo di carta e per quello che rappresenta. Quel documento parla di noi come popolo, e di un governo del popolo, fatto dal popolo, per il popolo, Parla di libertà di parola e di libertà civili individuali....Il massimo servizio che posso rendere al mio paese - conclude Scott Ritter - è di facilitare la discussione e il dialogo sul comportamento da tenere verso l'Iraq...Se quelli che esercitano pressioni a favore della guerra non sono in grado di provare le proprie ragioni, l'opinione pubblica americana dovrà esserne consapevole». «Voglio che l'America non commetta l'errore di questa guerra», ha ripetuto sui giornali americani in questi giorni. Forse, alla maniera di Scott Ritter, vale la pena sentirsi un po' «tutti americani».

Tratto da "Il Manifesto" 28 settembre 2002

 

 

Tutte le ragioni per non seguire Bush

Al Gore

 

Come la maggior parte degli americani, mi ha tormentato a lungo l’interrogativo su quel che dobbiamo fare per difenderci da attentati devastanti e terribili come quello di un anno fa. E dobbiamo presumere che le forze responsabili di quell’attacco stiano anche in questo momento progettando un altro attentato contro di noi.
Credo tuttavia che il nostro Paese, debba seguire una linea di condotta migliore della politica perseguita attualmente dal presidente Bush. Per essere chiari, sono molto preoccupato che la linea che stiamo seguendo rispetto all’Iraq possa seriamente danneggiare la nostra capacità di vincere la guerra contro il terrorismo e indebolire la nostra capacità di guidare il mondo nel secolo che ha appena visto la luce.
Per prima cosa, credo che dobbiamo concentrare i nostri sforzi contro coloro che ci hanno attaccato l’11 settembre e che finora l’hanno fatta franca. La stragrande maggioranza di quanti hanno finanziato, progettato e realizzato l'assassinio a sangue freddo di oltre 3000 americani non sono stati né individuati né catturati e, quindi, tanto meno puniti e resi inermi. Non credo che dovremmo permetterci di distrarci da questo compito urgente solo perché si sta dimostrando più difficile e lungo del previsto. Le grandi nazioni perseverano e alla fine prevalgono. Non passano da un compito non portato a termine ad un altro. Dobbiamo rimanere concentrati sulla guerra al terrorismo. E sono convinto che siamo perfettamente capaci di mantenere ferma la barra del timone nella nostra guerra contro Osama Bin Laden e la sua rete terroristica prendendo, al contempo, le iniziative necessarie per costruire una coalizione internazionale che insieme a noi si occupi di Saddam Hussein al momento giusto. Non dobbiamo permettere che nulla ci allontani o ci distragga dal compito di vendicare i 3000 americani assassinati e di smantellare la rete di terroristi che hanno organizzato gli attentati. Il fatto che non sappiamo dove si trovano non deve far sì che spostiamo la nostra attenzione su un altro nemico di più facile localizzazione. Abbiamo altri nemici, ma la nostra priorità deve essere quella di vincere la guerra contro il terrorismo.
N on di meno il presidente Bush ci sta dicendo che al momento la cosa più urgente non consiste nel raddoppiare gli sforzi contro Al Qaeda, nello stabilizzare la situazione in Afghanistan dopo aver rovesciato il precedente regime. Ci dice invece che il compito più urgente consiste nel concentrarci sull’ipotesi di una nuova guerra contro Saddam Hussein. E il presidente sta proclamando un nuovo diritto, del tutto americano, all’attacco preventivo contro chiunque possa rappresentare una potenziale, futura minaccia. Inoltre il presidente sta chiedendo al Congresso di affermare in tutta fretta che dispone della necessaria autorità per procedere immediatamente contro l’Iraq e, stando a quanto detto nella sua risoluzione, contro qualunque altra nazione della regione senza tener conto dei successivi sviluppi o delle circostanze che potrebbero crearsi.
Vediamo di essere chiari: non esiste alcuna legge internazionale che possa impedire agli Stati Uniti di intervenire per proteggere i nostri interessi vitali quando è manifestamente chiaro che bisogna scegliere tra la legge e la nostra sopravvivenza. Infatti lo stesso diritto internazionale riconosce che tali scelte appartengono a tutte le nazioni. Ritengo tuttavia che tale scelta non riguardi il caso dell'Iraq. Se dovessimo decidere di procedere, il nostro intervento deve essere giustificato nel quadro del diritto internazionale e non deve porsi al di fuori di esso. Infatti sebbene una risoluzione delle Nazioni Unite possa contribuire a determinare il consenso internazionale, è chiarissimo che le attuali risoluzioni dell'Onu approvate 11 anni orsono, sono sufficienti da un punto di vista giuridico nel caso in cui Saddam Hussein violi gli accordi stipulati alla fine della Guerra del Golfo.
(...)
La guerra al terrorismo richiede un approccio multilaterale. È impossibile spuntarla contro il terrorismo senza la continua, convinta collaborazione di molte nazioni. E proprio questo è uno dei miei punti centrali: la nostra capacità di garantire quel genere di collaborazione multilaterale nella guerra contro il terrorismo può essere seriamente minacciata da una eventuale iniziativa unilaterale contro l'Iraq. Se l’amministrazione ha ragioni di credere che le cose non stiano così, deve comunicare queste ragioni al Congresso per ottenere l'appoggio ad una iniziativa che potrebbe danneggiare il più urgente compito di continuare a distruggere e mantellare la rete internazionale del terrore.
Nel 1991 fui tra i pochissimi Democratici in Senato a votare a favore di una risoluzione che approvava la guerra del Golfo e mi sentii tradito dal frettoloso abbandono del campo di battaglia da parte dell’amministrazione Bush nel momento in cui Saddam riprendeva le sue persecuzioni contro i Curdi nel nord e gli Sciiti nel sud, gruppi questi che, dopo tutto, avevamo incoraggiato a sollevarsi contro Saddam. Ma guardiamo le differenze tra la risoluzione votata nel 1991 e quella che nel 2002 questa amministrazione propone al Congresso. Le circostanze sono completamente diverse.
Nel 1991 l'Iraq aveva varcato un confine internazionale invadendo una nazione sovrana e annettendone il territorio. Nel 2002 non c'è stata una tale invasione. Siamo noi che proponiamo di varcare un confine internazionale. E per quanto giustificato possa essere, dobbiamo riconoscere che questa profonda differenza di circostanze rispetto al 1991 ha profonde implicazioni sul modo in cui il resto del mondo giudica il nostro operato e ciò, a sua volta, avrà implicazioni sulla nostra capacità di portare a termine con successo la guerra al terrorismo.
Saddam è pericoloso per i suoi sforzi tesi ad entrare in possesso di armi distruzione di massa. Ciò che rende i terroristi molto più pericolosi che mai è la prospettiva che possano entrare in possesso di armi di distruzione di massa. Non c'è solamente un paese che sta tentando di costruire armi di distruzione di massa e non c'è solamente un gruppo di terroristi. Dobbiamo riconoscere che ci troviamo in un'epoca completamente nuova e i progressi compiuti dalla tecnologia della distruzione ci debbono far ragionare in maniera nuova. Come ebbe a dire Abraham Lincoln: «in presenza di un caso nuovo, dobbiamo pensare in modo nuovo e in questo modo salveremo il nostro paese».
Un’altra differenza: nel 1991 c'era una risoluzione adottata dalle Nazioni Unite. Questa volta ci siamo rivolti alle Nazioni Uniti per ottenere una risoluzione e finora non siamo riusciti ad ottenerla. Inoltre nel 1991 l'allora presidente Bush con pazienza e abilità mise insieme una vasta coalizione internazionale. Il suo compito era più facile di quello che aspetta l'attuale presidente Bush, in parte perché Saddam aveva invaso un altro paese.
Comunque la si voglia mettere, allora tutte le nazioni arabe, con la sola eccezione della Giordania - ovviamente visto che la Giordania si trovava nel cono d'ombra dell'Iraq - appoggiarono il nostro sforzo militare e entrarono a far parte della coalizione internazionale, tanto che talune misero a disposizione anche dei soldati. I nostri alleati in Europa e Asia appoggiarono la coalizione senza eccezioni. Ora, al contrario, molti nostri alleati in Europa e Asia sono apertamente contrari a quanto Bush sta facendo. E i pochi che ci appoggiano hanno condizionato il loro appoggio per lo più all'approvazione di una risoluzione delle Nazioni Unite.
Quarto: la coalizione messa insieme nel 1991 si accollò tutti gli ingenti costi della guerra mentre questa volta il costo della guerra stimabile in centinaia di miliardi di dollari ricadrebbe esclusivamente sulla spalle dei contribuenti americani.
Quinto: nel 1991 il presidente George H.W. Bush attese di proposito che fossero passate le elezioni di medio termine del 1990 per ottenere un voto dal nuovo Congresso nel gennaio del 1991. Il presidente George W. Bush, al contrario, preme per avere un voto dal Congresso poco prima delle elezioni.
Non che questo sia in sè sbagliato, ma a mio giudizio fà sì che il presidente Bush debba chiarire i dubbi che molti hanno manifestato in ordine al ruolo che la politica dovrebbe svolgere secondo alcuni esponenti dell'amministrazione. Non sono stato io a sollevare questi dubbi, ma molti lo hanno fatto. E dal momento che tali dubbi sono stati sollevati, è diventato un problema per il nostro paese costruire una coalizione internazionale e ottenere il consenso nazionale. Solo per citare un esempio, le relazioni tedesco-americane hanno conosciuto una grave crisi a causa dei discutibili commenti di un ministro del governo tedesco sulle presunte motivazioni del presidente Bush.
Hanno chiesto scusa e probabilmente possiamo dimenticare l'incidente. Ma diamo uno sguardo a tutta la campagna elettorale tedesca. Ha rivelato un profondo e inquietante cambiamento di atteggiamento dell'elettorato tedesco nei confronti degli Stati Uniti. Vediamo che il nostro più fedele alleato, Tony Blair - un fantastico leader a mio parere - comincia a trovarsi in gravi difficoltà con l'elettorato britannico a causa di dubbi analoghi che sono stati sollevati.
(...)
L'amministrazione, inoltre, non ha detto nulla per chiarire quelle che sono le sue idee sul dopo-Saddam e sul grado di impegno che gli Stati Uniti sono pronti ad accettare in Iraq nei mesi e negli anni successivi ad un mutamento di regime nel paese. La considero una cosa estremamente negativa in quanto nel periodo immediatamente successivo all'11 settembre, oltre un anno fa, avevamo un enorme riserva di buona volontà e simpatia e di partecipazione in tutto il mondo. Questo patrimonio è stato dissipato nel giro di un anno e ora vedo una grande ansia in tutto il mondo non per quello che potrebbero fare le reti terroristiche, ma per quello che potremmo fare noi. Tutto questo ha per noi delle conseguenze. Dissipare tutta quella buona volontà e sostituirla con l'ansia in un solo anno non è dissimile dall'aver trasformato in un anno un avanzo di 100 miliardi di dollari in un disavanzo di 200 miliardi di dollari.
Abbiamo assistito all'emergere di una dottrina nuova di zecca chiamata guerra preventiva, basata sull'idea che nell'era della proliferazione delle armi di distruzione di massa e sullo sfondo di una sofisticata minaccia terroristica, gli Stati Uniti non possono aspettare le prove di una minaccia mortale, ma debbono agire in qualunque momento per tagliare la testa al toro. Il problema della guerra preventiva è che non serve a dotare gli Stati Uniti degli strumenti per difenderci dal terrorismo in generale o dall'Iraq in particolare. Ma questa è una questione relativamente poco importante rispetto alle conseguenze di piu' lungo periodo che possono essere determinate da questa dottrina.
Tanto per cominciare la dottrina viene presentata in termini aperti, la qual cosa vuol dire che l'Iraq può essere il primo caso di applicazione, ma non necessariamente l'ultimo. Infatti la logica stessa del concetto suggerisce una serie di impegni militari contro una serie di Stati sovrani - Siria, Libia, Corea del Nord, Iran - nessuno dei quali è molto popolare negli Stati Uniti. La conseguenza però è che la dottrina si applica in tutte quelle circostanze in cui ricorra un interesse per le armi di distruzione di massa e un ruolo di ospiti di terroristi o attivi partecipanti alle iniziative terroristiche. Vuol dire anche che nel caso in cui il Congresso dovesse approvare la risoluzione sull'Iraq proposta all'amministrazione, creerebbe simultaneamente un precedente per una guerra preventiva in qualunque parte del mondo e in qualunque momento in cui questo o qualsiasi altro futuro presidente decidesse che ne ricorrono le circostanze.
(...)
Ancora più dannoso è l'attacco dell'amministrazione ai fondamentali diritti costituzionali che come americani dobbiamo avere ed abbiamo. La stessa idea che un cittadino americano possa essere messo in prigione senza processo e che lo si possa fare semplicemente in base ad una asserzione del presidente degli Stati Uniti o di quanti agiscono a suo nome, è impensabile e non-americana. Ed è una cosa che va fermata.
Riguardo agli altri paesi, il disprezzo dell'amministrazione per le posizioni degli altri è ben documentato e va rivisto. È più importante prendere nota delle conseguenze di una strategia nazionale che va emergendo e che non si limita a celebrare la forza dell'America ma sembra glorificare il concetto di dominio. È proprio la parola che va usata sui consiglio dell'amministrazione.
Se ciò che l'America rappresenta nei confronti del mondo è una leadership in una comunità di uguali, i nostri amici allora sono legioni. Se ciò che rappresentiamo nei confronti del mondo è un impero, ad essere una legione sono i nostri nemici.
In questa svolta fatale della nostra storia è vitale vedere chiaramente chi sono i nostri nemici e capire cosa vogliamo fare con loro. Tuttavia è anche importante capire che così facendo preserviamo non solo noi stessi in quanto individui, ma la natura di un popolo devoto allo Stato di diritto.
Ecco uno degli altri punti che considero importanti: se riusciremo a vincere rapidamente una guerra contro l'apparato militare di serie D dell'Iraq e altrettanto rapidamente abbandoneremo quel paese così come il presidente Bush ha rapidamente abbandonato quasi tutto l'Afghanistan dopo aver sconfitto un apparato militare di serie E, il caos che farà seguito ad una vittoria militare in Iraq potrebbe rappresentare per gli Stati Uniti una minaccia maggiore di quanto non sia quella attuale di Saddam.
Sappiamo che Saddam ha accumulato scorte segrete di armi biologiche e chimiche in tutto il paese. Finora non abbiamo le prove che le abbia fornite a gruppi terroristici. Se l'amministrazione ha queste prove, faccia il piacere di farcele conoscere in quanto ciò cambierebbe completamente il nostro modo di valutare l'intera faccenda. Ma se l'Iraq finisse per assomigliare all'attuale, devastato Afghanistan, privo di qualsivoglia autorità centrale? Se dopo una guerra contro l'Iraq ci trovassimo in una situazione simile per essercene lavati le mani? Cosa ne sarebbe delle riserve di armi biologiche sparse in tutto il paese? Che succederebbe se membri di Al Qaeda oltrepassassero le frontiere dell'Irak così come hanno fatto in Afghanistan? L'interrogativo non sarebbe più: «Saddam Hussein fornirà queste armi ad un gruppo di terroristi». I gruppi terroristici potrebbero entrare in Iraq a impadronirsi da soli di queste armi.
Penso che comportandoci con l’Iraq così come abbiamo fatto in Afghanistan, finiremmo per trovarci in una situazione peggiore di quella di oggi.
Il testo è tratto da un discorso pronunciato dall’ex vicepresidente degli Stati Uniti durante una riunione del partito democratico a San Francisco
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

 

Tratto da "L'Unità" 26 settembre 2002

 

 

"E' possibile smantellare gli arsenali senza scatenare una guerra" - Parla l'ex capo degli ispettori ONU in Iraq

Nathan Gardels

 

L’Iraq ha accettato le ispezioni, anche - a certe condizioni - nei siti presidenziali. Secondo un accordo del 1998 queste ispezioni devono essere annunciate in anticipo e gli ispettori devono essere accompagnati da diplomatici. Scott Ritter, come ex capo degli ispettori Onu in Iraq ai tempi di Unscom (la commissione sciolta nel ’98, ndr), lei crede che a queste condizioni le ispezioni possono essere comunque utili? «Assolutamente sì. Se fossi io a condurre le nuove ispezioni per prima cosa costruirei una banca dati con risultati delle ispezioni in questi siti. Poi li farei sorvegliare dai satelliti 24 ore su 24. E se venisse rilevato qualche movimento sospetto nei siti già ispezionati, farei tornare gli ispettori a raccogliere nuovi dati e campioni. Per alcuni anni, quando il direttore di Unscom era Rolf Ekeus (1991-1997) i palazzi presidenziali non vennero ispezionati: ci sembrava che, senza una ragione ben precisa, le ispezioni sarebbero state viste come un attacco immotivato alla dignità e sovranità dell’Iraq. Nessun rapporto dell’ intelligence li segnalava come luoghi sospetti. L’accordo del ’98 permette anche oggi di portare a termine ispezioni efficaci».
Lei riuscì a ispezionare siti presidenziali grazie a quell’accordo?
«Annan negoziò un compromesso attraverso il quale, in otto siti designati da Bagdad, potevano avvenire ispezioni. Eravamo in grado di entrare, senza restrizioni, ovunque, scortati da diplomatici. Potevamo entrare nel bagno di Saddam. Ovunque, insomma. Potevamo prendere campioni da analizzare in seguito, cercare tracce di agenti chimici o biologici».
Se non è il disarmo della capacità belliche irachene, qual è il nocciolo della crisi tra Washington e Bagdad?
«Se qui si trattasse soltanto di eliminare quel che rimane degli arsenali delle armi di distruzioni di massa irachene, allora basterebbe mandare in Iraq centinaia di ispettori - Saddam è d’accordo - e chiudere la questione. Se l’Iraq rifiutasse di lasciar lavorare gli ispettori, allora sì che ci sarebbe motivo di agire militarmente. Ma la realtà è più preoccupante: la trasformazione degli Stati Uniti in una potenza imperiale, la realizzazione di una strategia dei neo-conservatori in preparazione da anni. Basta leggere la strategia per la sicurezza nazionale presentata da Bush al Congresso il mese scorso. E’ il frutto del lavoro di gente come Paul Wolfowitz, quelli che vogliono l’applicazione su scala globale del potere militare e economico degli Stati Uniti in modo unilaterale. L’Iraq sarà il laboratorio di questa nuova politica estera americana».
La guerra è inevitabile quindi? E quando comincerà secondo lei?
«Quest’anno, probabilmente in dicembre. I soldati americani in Iraq dovranno fare cose, in nome del loro Paese, che non credevo sarebbero stati costretti a fare: macellare civili innocenti».

 

Tratto da "Il Corriere della Sera" 7 ottobre 2002

 

 

"L'Iraq ha perso ogni mira espansionistica" - Parla un generale israeliano

Lorenzo Cremonesi

 

GERUSALEMME - «Per che cosa combattiamo? Occorre rispondere prima di iniziare una guerra. Il problema è che l'amministrazione Bush non ha davvero argomenti solidi per giustificare l'attacco contro Saddam Hussein» scrive Aharon Levran sul quotidiano israeliano Haaretz . Un giudizio pesante. Perché Levran è tutto tranne che un pacifista sceso in campo contro gli Stati Uniti. Brigadiere generale in pensione, è invece noto per essere un «falco» tra gli esperti israeliani di cose militari. Autore di un volume sulla strategia militare israeliana dopo la Guerra del Golfo nel 1991, Levran spiega al Corriere come mai a suo parere «gli argomenti per un Saddam super armato sono esagerati».
Gli arsenali iracheni sono davvero tanto pericolosi?
«Il mio punto di vista è che oggi l'Iraq è molto più debole rispetto agli anni precedenti la guerra del 1991. Il suo esercito non ha nulla a che vedere con le grida di allarme che arrivano da Washington e Londra. Saddam è un dittatore pericoloso, sanguinario, il mondo starebbe molto meglio senza di lui. Ma ha perso le ambizioni espansioniste. E mi chiedo: perché mai gli Stati Uniti perdono così tanto tempo per questo dittatore da quattro soldi, quando sulla terra esistono pericoli di gran lunga maggiori?».
Quali pericoli?
«L'Iran, dove il regime è coinvolto con diversi gruppi terroristici e i reattori nucleari forniti dalla Russia lo mettono in condizione di poter costruire armi atomiche entro i prossimi 5 anni».
Ma i missili di Saddam?
«Alla fine del 1998 si stimava avesse 2 o 3 missili Al-Hussein, il cui raggio è minore di 800 chilometri. Al massimo ora ne avrà una decina, ma con solo un paio di rampe di lancio. Nel 1991 stava costruendo il modello di missile Al-Abbas, con un raggio di 900 chilometri. Ma non ci sono prove che sia operativo. Non si costruiscono missili senza provarli e i satelliti Usa confermano che negli ultimi 11 anni dall'Iraq non ne è mai stato tirato neppure uno. Il suo programma nucleare è inoltre paralizzato dall’embargo».
I legami di Bagdad con Al Qaeda?
«In 18 anni di studio non ne ho trovato traccia».
E il dossier appena presentato da Tony Blair?
«Vi si parla di 20 missili Al-Hussein. Ma senza portare alcuna prova. Secondo gli accordi dell’estate 1991 Saddam può costruire missili tattici con una gittata di 150 chilometri».
Di recente Richard Butler, l'ex capo degli ispettori Onu che sino al 1998 operarono in Iraq, ha dichiarato di temere che Israele in caso di guerra possa usare l'atomica. E' un'opzione possibile?
«Non credo Butler vada preso troppo sul serio. Nel 1991 affermò che Saddam avrebbe sparato armi chimiche: fu smentito dai fatti. Ci sono due possibilità nel caso Saddam lanci uno o più missili su Israele. Se sono convenzionali, Israele risponde in modo convenzionale. Nel caso invece siano non convenzionali, ci sono forti possibilità che Israele risponda in modo non convenzionale. Ma siccome Saddam possiede solo armi chimiche, anche le armi israeliane saranno al massimo chimiche, escludo il ricorso all'atomica. Va aggiunto che Israele non potrà rischiare di colpire le truppe Usa operanti in Iraq».
Però nel 1991 Israele non rispose ai 39 missili sparati contro il suo territorio dall'Iraq.
«Oggi da noi c'è dibattito. Alcuni esperti affermano che la nostra risposta deve dipendere dal numero delle vittime, se sono poche (come nel 1991), alcuni affermano che non si deve rispondere. Io sono però tra coloro che per motivi di deterrenza e di onore nazionale ritengono che questa volta dovremo reagire».

Tratto da "Il Corriere della Sera"  29 settembre 2002


America, un nuovo inquietante volto  
di Jimmy Carter

(ex predisente USA e premio Nobel per la pace)


Cambiamenti fondamentali stanno avvenendo nelle politiche storiche degli Stati Uniti concernenti i diritti umani, il nostro ruolo nella comunità delle nazioni e il processo di pace in Medio Oriente - cambiamenti che avvengono per lo più senza dibattito (tranne, qualche volta, interno all´Amministrazione). Alcuni nuovi approcci si sono comprensibilmente evoluti dalle reazioni rapide e ben argomentate del presidente Bush alla tragedia dell´11 settembre 2001, ma altre sembrano nascere da un nocciolo duro di conservatori che tentano di realizzare, con la copertura della guerra al terrorismo, ambizioni a lungo represse. Un tempo ammirata quasi universalmente come campione indiscusso dei diritti umani, adesso l´America è diventata il principale bersaglio di rispettate organizzazioni internazionali, preoccupate per la violazione di alcuni principi basilari di vita democratica. Noi abbiamo ignorato o condonato abusi avvenuti in alcune nazioni che appoggiano i nostri sforzi anti-terrorismo, e intanto teniamo prigionieri cittadini americani come «nemici combattenti», li incarceriamo in grande segretezza e a tempo indeterminato, senza formulare accuse di alcun crimine e senza riconoscere il diritto all´assistenza legale. Questa politica è stata condannata dalle Corti federali, ma il Dipartimento di Giustizia sembra risoluto ad andare avanti per questa strada e la questione è ancora aperta. Parecchie centinaia di soldati taleban, catturati in Afghanistan, restano prigionieri nella Base di Guantanamo in quelle stesse condizioni, con il segretario alla Difesa che dichiara che non saranno rilasciati neppure se un giorno si scoprisse che sono innocenti. Queste azioni sono terribilmente simili a quelle di regimi oltraggiosi, che storicamente sono stati condannati dai presidenti americani. Mentre il presidente Bush si riserva di esprimere il suo giudizio, il popolo americano viene inondato quasi ogni giorno da dichiarazioni del vicepresidente e di altri esponenti della squadra presidenziale, secondo i quali ci troveremmo davanti a una minaccia devastante da parte delle armi di distruzione di massa irachene, per combattere la quale occorre rimuovere Saddam Hussein dal potere, con o senza l´appoggio degli alleati. Com´è stato vigorosamente sottolineato da alleati stranieri, da autorevoli leader di ex Amministrazioni e da funzionari in carica, sugli Stati Uniti non incombe nessuna minaccia da Baghdad. Di fronte al minuzioso controllo e alla schiacciante superiorità militare degli Stati Uniti, qualunque mossa belligerante di Hussein contro un vicino, o il più piccolo test nucleare (indispensabile prima della costruzione di un´arma atomica), o la minaccia tangibile di usare un´arma di distruzione di massa e condividerne la tecnologia con organizzazioni terroristiche, sarebbe una mossa suicida. E´ invece possibile che armi simili vengano usate, in risposta a un attacco americano, contro Israele o contro i nostri uomini. Noi non possiamo ignorare lo sviluppo di armi chimiche, biologiche o nucleari, ma una guerra unilaterale contro l´Iraq non è la risposta giusta. Occorre un´azione delle Nazioni Unite per imporre all´Iraq ispezioni senza restrizioni. Forse intenzionalmente, queste sono diventate sempre meno probabili a mano a mano che ci alieniamo i nostri alleati, che pure ci sono necessari. In apparente disaccordo con il presidente degli Stati Uniti e il suo segretario di Stato, di fatto il vicepresidente scarta ora questo obiettivo dalla lista delle opzioni possibili. Abbiamo lanciato un controproducente guanto di sfida al resto del mondo, sconfessando l´impegno degli Stati Uniti verso accordi internazionali laboriosamente negoziati. Il rifiuto perentorio di accordi sulle armi nucleari, sulla convenzione per le armi biologiche, sulla protezione ambientale, sulle proposte contro le torture e sulla punizione dei criminali di guerra, qualche volta si è combinato con le minacce economiche a chi avesse osato dissentire da noi. Queste azioni e queste asserzioni unilaterali isolano sempre più gli Stati Uniti proprio dai Paesi che ci servono nella lotta al terrorismo. Il nostro governo sta anche abbandonando - ed è una tragedia - ogni appoggio ai fondamentali negoziati tra palestinesi e israeliani. La nostra politica evidente è quella di appoggiare quasi tutte le azioni israeliane nei territori occupati e condannare e isolare i palestinesi come obiettivi generici della nostra guerra al terrorismo, mentre gli insediamenti ebraici si espandono e le enclaves palestinesi di restringono. Sembra ancora esserci battaglia all´interno dell´Amministrazione Bush sulla definizione di una politica chiara sul Medio Oriente. Antichi e chiari impegni del presidente per onorare le risoluzioni in merito delle Nazioni Unite e appoggiare la costituzione di uno Stato palestinese sono stati di fatto negati dalla dichiarazione del segretario alla Difesa, il quale ha detto che sì, nell´arco della sua vita «verrà stabilita una qualche entità palestinese» e si discuterà della «cosiddetta occupazione». Questo atteggiamento indica un cambiamento radicale rispetto alla linea politica scelta da tutte le Amministrazioni americane a partire dal 1967, che hanno sempre parlato di ritiro di Israele dai territori occupati e di una vera pace tra Israele e i suoi vicini. Voci belligeranti e divise sembrano adesso avere la meglio a Washington, ma non riflettono ancora la decisione finale del presidente, del congresso o delle Corti. E´ cruciale che prevalgano gli impegni americani storici e ben fondati: alla pace, alla giustizia, ai diritti umani, all´ambiente e alla cooperazione internazionale.

Tratto da "La Stampa" 12 ottobre 2002

 

 

Da solo Bush perde prestigio
di Michail Gorbaciov

E’ ormai prevalente l’idea che l’attacco statunitense contro l’Iraq sia già stato deciso e che l’interrogativo riguardi soltanto il quando e il come.

E’ possibile che sia effettivamente così. Eppure la stragrande maggioranza di osservatori, analisti e capi di Stato ritiene che l’Iraq non rappresenta una minaccia reale per gli Stati Uniti, e non è dal suo territorio che nasce il pericolo del terrorismo.

L’amministrazione Usa sostiene il contrario, ma non ha tuttora presentato le prove necessarie né al Consiglio di Sicurezza dell’Onu né al Congresso americano.

E il fatto che la leadership Usa non abbia alcuna considerazione della missione degli ispettori, esercitando una pressione senza precedenti sui membri del Consiglio di Sicurezza per ottenere da loro una risoluzione che lasci mano libera alla guerra, fa nascere in molti il sospetto che queste prove non esistano.

La Casa Bianca fa capire di essere disposta ad agire da sola. Ma in questo caso dovrà assumersi tutta la responsabilità, gravissima, per le conseguenze. Bush se ne rende conto e, per questo, cerca di ottenere una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza che funga da copertura politica ad una «guerra preventiva».

Quello che è necessario in questo momento è una posizione ferma per prevenire ogni atto contro l’Iraq senza il mandato del Consiglio di Sicurezza e per far ritornare in Iraq gli ispettori dell’Onu in modo da chiarire le accuse che vengono mosse contro Baghdad.

La posizione francese è chiara, quella russa anche: prima occorre esperire le soluzioni politico-diplomatiche e dare modo agli ispettori di verificare sul terreno le disponibilità espresse dal regime iracheno, cioè ispezioni senza pre-condizioni e limitazioni di alcun genere.

Simile è, di fatto, la posizione della Cina, altro membro permanente del Consiglio di Sicurezza. In queste circostanze il rifiuto di inviare gli ispettori è semplicemente infondato. Sembra invece che l’amministrazione Usa tema che il responso delle ispezioni internazionali sarà troppo diverso dalle accuse americane.

Un attacco in queste condizioni sarebbe totalmente inaccettabile. Washington cerca di ottenere una nuova risoluzione, tentando con ogni pressione di convincere i membri del Consiglio di Sicurezza.

Se questo portasse all’approvazione di una risoluzione che ciascuno sarebbe libero di interpretare a proprio piacimento - gli Usa per giustificare l’attacco, gli altri membri del Consiglio di Sicurezza per sottrarsi alle pressioni e ai ricatti di Washington - le conseguenze sarebbero pericolose.

Si andrà in guerra con un mondo diviso e in mezzo a polemiche feroci. Oltre ai morti, la prima vittima sarà l’Onu. Molti commentatori sostengono che ormai gli Stati Uniti non possono più tirarsi indietro, che sarebbe un colpo al loro prestigio. Io penso il contrario.

La superpotenza che porta sulle sue spalle l’enorme responsabilità per lo stato delle cose nel mondo, per la cooperazione negli interessi della stabilità e della sicurezza, può usare la propria posizione speciale e dar ascolto alle inquietudini degli altri, agire fino in fondo nella cornice del Consiglio di Sicurezza, sulla base del diritto internazionale. Altrimenti resterà sola.

E, che lo voglia o no, ne soffriranno il suo prestigio e l’influenza di cui gode nel mondo. Ma io, come molti analisti, mi chiedo sempre più spesso: e se questa idea di un attacco fulminante e decisivo contro l’Iraq non fosse legato a un pericolo che questo rappresenterebbe per gli Usa e il mondo (parole di Bush nella sua dichiarazione del 7 ottobre)?

Non si riesce a far a meno di considerare un’altra ipotesi: che uno dei motivi della guerra, e della fretta di Washington nell’imporla al proprio paese e a tutto il mondo, sia lo stato precario dell’economia americana.

E’ molto diffuso il sospetto che questa guerra la si voglia fare per prendere il controllo diretto dei 115 miliardi di barili di petrolio che stanno nel sottosuolo iracheno.

Oggi l’ostacolo a questo controllo è rappresentato dal regime di Saddam Hussein. E gli Usa non nascondono di volerlo rovesciare. Il regime che nascerà dopo la sconfitta dell’Iraq sarà più accomodante con gli Usa e permetterà loro di controllare uno dei maggiori giacimenti petroliferi e di influire, attraverso il prezzo del petrolio, sull’economia mondiale.

Se questa ipotesi fosse giusta, vorrei chiedere agli autori di questa strategia: non sarebbe più sensato affrontare la questione di un nuovo modello di sviluppo che aiuti a modificare l’anormale situazione, in cui gli Stati Uniti consumano il 40% dell’energia elettrica del pianeta?

Non sta forse qui la radice delle recenti dottrine militari americane, che hanno spaccato in due perfino gli alleati? Gli Usa sperano di trarre vantaggio dalla divisione dei loro alleati? Anche di fronte alla Russia si pongono questioni difficili.

La Russia ha scelto l’amicizia con l’Occidente e specialmente con gli Usa. Ma è evidente che questa guerra non può portare alcun risultato positivo per la Russia.

Al contrario essa colpirà profondamente interessi economici, politici, strategici della Russia. Non è un buon gioco quello di costringere gli alleati a subire perdite, rendendoli sospettosi e irrequieti.

La Russia e l’Europa oggi devono fare una scelta difficile: sono interessate a cooperare con gli Usa, ma non possono rinunciare nemmeno a difendere la pace e la legalità internazionale, che per altro coincidono con i loro interessi nazionali e gli interessi della comunità mondiale.

Mettere l’una e l’altra di fronte a questo dilemma è un errore che gli Stati Uniti non devono commettere.

Tratto da "La Stampa" 11 ottobre 2002

 

 



Domani di Pace - Parenti delle vittime dell'11 settembre 
contro la guerra in Iraq

di Ornella Sangiovanni


Hanno perso fratelli, sorelle, figli, mariti, generi negli attentati dell'11 settembre ma non per questo chiedono vendetta. Anzi, partecipano alle mobilitazioni pacifiste di questi giorni. Sono i familiari di alcune delle vittime degli attentati alle Torri Gemelle e al Pentagono. Sono l'altra America: quella che non si vede sulla Cnn o sulle altre reti tv. Quella che si rifiuta di considerare la guerra una risposta al terrorismo. Un'America minoritaria, ma decisa a far sentire la propria voce. I membri di Peaceful Tomorrows («Domani - al plurale - di pace»), associazione il cui nome si ispira alle parole di Martin Luther King Jr. - «Le guerre sono scalpelli scadenti per costruire domani di pace» - hanno deciso di reagire al dolore, alla tragedia che li ha colpiti riconoscendo che non ha carattere di unicità. Il dolore li unisce a tutti coloro che hanno perso delle persone care a causa del terrorismo e della guerra, in qualunque parte del mondo si trovino: famiglie delle vittime di Hiroshima e Nagasaki, Israele e i territori palestinesi occupati, Afghanistan, Iran, Colombia, Irlanda e tanti altri paesi.

«Siamo arrivati a riconoscere la nostra parentela con altre vittime innocenti del terrorismo e della guerra, una parentela che va oltre i confini» si legge nella dichiarazione che hanno diffuso in occasione del primo anniversario dell'11 settembre. La lezione che l'America deve imparare dall'11 settembre - scrivono - è che «non esistono barricate abbastanza alte, né bombe abbastanza grandi, né intelligence abbastanza sofisticata da poter prolungare l'illusione dell'invulnerabilità americana». «Da quel giorno - prosegue la dichiarazione - ci è diventato chiaro che l'America deve partecipare pienamente alla comunità globale». E' una consapevolezza che hanno posto al centro del loro agire: trovare nuovi modi di rapportarsi col resto del mondo, andare al di là della ricerca di vendetta e conquistare l'ingiustizia creando un mondo più giusto. E' così che alcuni di loro sono stati due volte in Afghanistan per incontrare i familiari delle vittime dei bombardamenti americani. Oggi insieme si stanno battendo perché il governo americano crei un fondo a favore delle famiglie delle vittime afghane.

Centrale nella loro attività è il rifiuto della guerra. Rita Lasar, 70 anni, ha perso il fratello in una delle due torri del World Trade Center. Abe Zelmanowitz si trovava al 27esimo piano, dove aveva deciso di rimanere per non abbandonare un amico quadriplegico che non poteva scendere le scale. Rita, che è stata con altri in Afghanistan e di recente è tornata da un viaggio a Hiroshima, ha raccontato in diretta tv sulla Msnbc cosa ha provato ascoltando le parole del presidente Bush, che pure aveva lodato l'eroismo di suo fratello. «Quando il presidente Bush ha citato mio fratello ed è diventato chiaro che il suo nome sarebbe stato usato per uccidere degli innocenti, migliaia di innocenti, in un paese lontano, mi sono sentita male quasi come quando mio fratello è morto».

Oggi si oppongono a una guerra contro l'Iraq. «La progettata invasione dell'Iraq - una nazione che non ha legami dimostrati con gli eventi dell'11 settembre - nel nome della guerra al terrorismo significa che più americani militari e civili moriranno, con effetti imprevisti sulla nostra sicurezza, economia, capacità di affrontare le cause alla radice del terrorismo, e sul nostro rapporto con altre nazioni».

Hanno scelto di ricordare il primo anniversario dell'11 settembre con delle iniziative che incarnano questo spirito, che parte dal riconoscimento dell'universalità del dolore, per affermare il rifiuto della guerra e della violenza come soluzione. E con il tour «Non più vittime», innanzitutto, organizzato assieme all'American Friends Service Committee, organizzazione di Quaccheri americani, e i familiari di persone uccise a causa delle guerra o del terrorismo in Afghanistan, Iraq, Israele e territori occupati, Filippine e Giappone.

Tratto da "Il Manifesto" 9 ottobre 2002

 

 



Perché dico no a Bush
di Robert Byrd
(senatore democratico)

 

Una improvvisa voglia di guerra all’Iraq sembra essersi impossessata dell’amministrazione Bush e del Congresso. Il dibattito è cominciato in Senato l’altra settimana e si concentra su questa monumentale questione: se e perché gli Usa dovrebbero far guerra all’Iraq.
Però non di questo si discute davvero, ma del marchingegno che dovrebbe dare mano libera al Presidente, affidandogli il potere senza controlli di portare una guerra non provocata a uno stato sovrano.
Come siamo arrivati a un punto così basso nella storia di questo Congresso? Siamo diventati troppo deboli per resistere alle pressioni di un Presidente che sta cambiando il senso della espressione «diritto alla difesa»? E come mai permettiamo che si discuta di guerra alla vigilia di un turno elettorale? Il Congresso non può e non deve cedere alle pretese dell’Esecutivo. Sarebbe come rinunciare ai nostri poteri costituzionali. Non possiamo imbrigliare il futuro Congresso (quello che uscirà dalle elezioni del 5 novembre, ndr) decidendo adesso, con un voto miope. Il Paese ha diritto alla nostra più attenta riflessione. Ho ascoltato il presidente. Ho interrogato uno a uno i suoi ministri. Ho esaminato ogni singolo materiale che costituisce evidenza e che dovrebbe convincermi a dare il mio assenso.
Gli argomenti presentati dal presidente mi appaiono, nel migliore dei casi, generici. Saddam Hussein è una minaccia, d’accordo. Ma non così grande da farci precipitare ad autorizzare una guerra proprio prima delle elezioni.
Perché siamo inseguiti da questa pressante richiesta di rinunciare ai poteri di cui ci ha investito la Costituzione per passarli al Presidente? Se noi dicessimo sì, il Presidente sarebbe autorizzato a usare la forza militare di questo Paese nel modo che crede e che gli sembrerà migliore e per tutto il tempo che crede. È un assegno in bianco. Tenete presente che il nostro voto diventa anche approvazione della dottrina di guerra preventiva, la dottrina di Bush nel documento chiamato «Strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti», dottrina che potrà essere usata contro qualunque Paese che il presidente deciderà di indicare come una minaccia.
Siamo giunti a un momento molto grave.
Noi siamo direttamente eletti dai cittadini. Il popolo americano si aspetta da noi che noi si risponda secondo il potere di cui siamo investiti. So benissimo che non è sempre possibile evitare la guerra. Ma proprio per questo non possiamo passare ad altri la nostra responsabilità che è quella di determinare se e quando una guerra è necessaria. Noi non possiamo permettere che il Presidente scateni a nome nostro la furia della guerra a sua discrezione e per un tempo indeterminato. Ma questo è proprio ciò che ci viene chiesto. La storia non sarà benevola con noi, se diciamo sì.
Io vi suggerisco di prendere tempo, di tornare nei nostri collegi elettorali, di ascoltare i nostri elettori. Siamo a 27 giorni dalle elezioni che riguardano tutta la Camera e un terzo del Senato. Questo è il momento di parlare con gli elettori e di ascoltarli. Suggerisco che li ascoltiamo bene i nostri elettori, perché quando noi daremo il nostro voto, è il popolo americano che ne pagherà le conseguenze, se avremo votato una guerra e avremo deciso il destino di tanti giovani figli e figlie di questo Paese.

 

Tratto da "L'Unità" 11 ottobre 2002

 



Sia respinta la guerra - Editoriale-appello ai membri del
Congresso americano pubblicato da The Nation

 

 

Presto vi sarà chiesto di votare su una risoluzione che autorizzerebbe gli Stati uniti a rovesciare il governo dell'Iraq con la forza militare. La sua approvazione, leggiamo dappertutto, è una conclusione scontata, come se ciò che il paese ha ora di fronte non fosse una decisione ma la rivelazione di un fato. Il paese marcia verso la guerra come se fosse in trance. Alla Camera, venti di voi, guidati da Dennis Kucinich, hanno annunciato la loro contrarietà alla guerra. Al Senato, Robert Byrd ha montato una campagna contro la versione della risoluzione già proposta dall'amministrazione Bush. Ha dichiarato che l'incostituzionalità della risoluzione gli impedirà di votarla. «Ma sto scoprendo» ha aggiunto, «che la Costituzione è irrilevante per le persone di questa amministrazione». Secondo il Washington Post, i capi di stato maggiore sono contrari alla guerra. Le telefonate e la posta che ricevete si esprimono in modo fortemente contrario. I sondaggi e gli articoli di giornale rivelano un pubblico diviso e incerto. Tuttavia il vostro dibattito è limitato a questioni periferiche, come i tempi del voto, o l'ambito preciso della risoluzione. Siete un corpo deliberante, ma non deliberate. Siete rappresentanti, ma non rappresentate. Il silenzio di quelli di voi che fanno parte del Partito Democratico è particolarmente preoccupante. Voi siete il partito di opposizione, ma non vi opponete. Sollevare la questione della guerra, vi dicono i vostri consiglieri politici, vi distoglierà dalle questioni interne che favoriscono le chance del partito nelle prossime elezioni per il Congresso. Messi davanti alla guerra preventiva dell'amministrazione, i vostri leader hanno scelto la resa preventiva. Pur di restare al potere, vi viene detto, non dovete esercitare il potere in materia di guerra di cui disponete. Qual è, allora, lo scopo della vostra rielezione? Se ci riuscirete, avrete già gettato via il potere che teoricamente avreste ottenuto. Sarete membri del Congresso, ma il Congresso non sarà il Congresso. Anche le fortune delle cause interne che promuovete dipenderanno molto di più dalla decisione della guerra che dall'esito elettorale.

Il 4 aprile 1967, mentre infuriava la guerra in Vietnam, Martin Luther King jr. disse: «Arriva un momento in cui il silenzio è un tradimento». Ed egli disse anche: «Alcuni di noi, che hanno già cominciato a rompere il silenzio della notte, hanno scoperto che essere chiamati a parlare è spesso una vocazione all'agonia, ma dobbiamo parlare. Dobbiamo parlare con tutta l'umiltà che si addice alla limitatezza della nostra visione, ma dobbiamo parlare».Ora il momento di parlare è arrivato di nuovo. Noi vi chiediamo di parlare - e, quando verrà il momento, di votare - contro la guerra in Iraq.

Il motivo per essere contrari alla guerra è semplice, chiaro e forte. L'amministrazione la chiama un capitolo della guerra al terrorismo, ma l'Iraq non ha legami dimostrati né con gli attacchi dell'11 settembre contro gli Stati uniti, né con la rete di Al Qaeda che li ha lanciati. L'obiettivo della guerra è privare il presidente Saddam Hussein di armi di distruzioni di massa, ma la portata del suo programma per costruire queste armi, se ancora esiste, è oscura. Ancor meno chiara è qualunque intenzione da parte sua di usare tali armi. Farlo sarebbe un suicidio, come lui ben sa. La deputata democratica californiana Anna Eshoo ha riferito che in una sessione a porte chiuse è stato chiesto più volte ai rappresentanti dell'amministrazione se abbiano le prove di una imminente minaccia da parte di Saddam Hussein agli Stati uniti, e loro hanno risposto no. Ha specificato «Non "no, ma" o "forse", ma "no"». D'altra parte, se lui le ha veramente, e rischia la deposizione e forse la morte per mano delle forze Usa, lui potrebbe di usarle - o, più probabilmente, darle a gruppi terroristici da usare dopo la sua caduta. Potrebbe farlo anche adesso.

Alcuni osservatori hanno paragonato la risoluzione in discussione a quella del Golfo del Tonchino del 1964, che autorizzava il presidente Johnson a usare la forza in Vietnam. Ma quella fu approvata solo dopo che arrivò la notizia di due attacchi alle forze navali Usa (oggi sappiamo che il primo attacco fu provocato da un precedente attacco americano segreto e il secondo era inesistente). La nuova risoluzione, che non fa riferimento ad alcun attacco, neanche a uno fittizio, va più in là. È una risoluzione del Golfo del Tonchino senza un incidente da Golfo del Tonchino.

Anche se Saddam possiede le armi di distruzione di massa e intende usarle, una politica di deterrenza apparirebbe perfettamente adeguata a fermarlo, proprio come fu adeguata, mezzo secolo fa, a fermare un dittatore molto più temibile, Joseph Stalin. Non è vero che la forza militare è il solo mezzo per impedire la proliferazione di queste armi, sia all'Iraq che ad altri paesi. Una via alternativa è chiaramente percorribile. Nel breve periodo questa passa attraverso le Nazioni unite e il suo sistema di ispezioni, ora più promettente di prima perché l'Iraq, rispondendo alle pressioni Usa, ha aperto agli ispettori in modo incondizionato. Quantomeno, questa via dovrebbe essere esplorata appieno prima che l'azione militare - tradizionalmente l'ultima risorsa - venga anche solo presa in considerazione. Una tale scelta a favore del multilateralismo, della diplomazia e degli trattati dovrebbe essere parte di una politica molto più vasta di non-proliferazione e di disarmo del tipo che ha già avuto grande successo negli scorsi decenni. In base al trattato di non-proliferazione delle armi nucleari, per esempio, 182 nazioni hanno accettato di fare a meno di armi nucleari.

La questione più ampia è se la proliferazione - non solo nei confronti dell'Iraq, ma anche di molti altri paesi - sia affrontata meglio con mezzi militari o politici.

Ma la decisione di andare alla guerra ha un significato che va oltre la guerra. La guerra è il prodotto di una più vasta politica, che l'amministrazione Bush ha espresso nel modo più chiaro possibile. Due altri paesi con programmi nucleari - l'Iran e la Corea del nord - sono già stati identificati dal Presidente come potenziali target per un attacco militare. Il documento recentemente pubblicato dall'amministrazione, «National Security Strategy of the United States» esprime ambizioni anche maggiori. Esso proclama una politica di supremazia militare su tutta la terra - un obiettivo mai perseguito prima da nessuna potenza. Nel frattempo i programmi militari sono vietati agli altri paesi. A tutti questi deve essere impedito di «sorpassare o eguagliare» gli Stati uniti. Alla Cina viene riservato l'avvertimento che «perseguendo capacità militari avanzate», essa sta seguendo «un percorso sorpassato» che «minaccia i suoi vicini». La nuova politica rovescia una lunga tradizione americana di disprezzo per gli attacchi non provocati. Essa dà agli Stati uniti il diritto illimitato di attaccare altri paesi anche se non sono stati attaccati da essi, e non stanno per esserlo. Rinuncia alla deterrenza in cambio della prevenzione - in parole semplici, aggressione. Conferisce agli Stati uniti il diritto di rovesciare qualunque regime - come quello in Iraq - qualora lo decida (il Presidente vorrebbe il sostegno internazionale e quello del Congresso, ma afferma il suo diritto di muovere guerra senza nessuno dei due). Dichiara che la difesa degli Stati uniti e del mondo contro la proliferazione nucleare è la forza militare. È una politica imperiale - più ambiziosa di quello dell'antica Roma che, dopo tutto, si estendeva solo fino al Mediterraneo e all'Europa. Nelson Mandela ha detto recentemente dell'amministrazione: «Loro pensano di essere la sola potenza al mondo... un paese vuole intimidire il mondo».

Un voto a favore della guerra in Iraq è un voto a favore di questa politica. La più importante delle questioni sollevate dalla guerra, comunque, è ancora più ampia. È che tipo di paese gli Stati uniti vogliono essere nel ventunesimo secolo. L'essenza della forma di governo dell'America è stata la creazione di un sistema di istituzioni per controllare e bilanciare il potere governativo e fare così in modo che esso risponda dei suoi atti alla gente. Oggi questo sistema è minacciato da un mostro - un potere privo di contrappesi e che non risponde dei suoi atti - un nuovo Leviatano che sta prendendo forma tra noi nel ramo esecutivo del governo. Mentre minaccia una guerra infinita e non provocata, questo Leviatano - nascosto in una segretezza che si è creato da solo e che diventa sempre più profonda, e nutrito dai fiumi di soldi delle corporations che, come ha dimostrato il susseguirsi degli scandali, hanno smesso esse stesse di rispondere dei propri atti - minaccia anche i diritti civili. Tanto irrispettosa della Costituzione quanto lo è della Carta dell'Onu, l'amministrazione per raggiungere i suoi obbiettivi si è allontanata dalla legge in tutte le sue espressioni e ha riposto invece la sua fiducia su una forza enorme.Andando alla ricerca di un impero all'estero, mette in pericolo la Repubblica in casa sua. L'intimidazione del mondo minaccia di diventare anche l'intimidazione degli americani. Già ora, il dipartimento della Giustizia afferma il proprio diritto di imprigionare dei cittadini americani indefinitamente per il solo motivo che al Pentagono un burocrate li ha etichettati «combattenti nemici», come vengono chiamati.

Anche il sistema elettorale interno è stato compromesso dalla débacle in Florida. Né le ombre gettate sulla democrazia da quelle elezioni sono ancora state cancellate. La riforma elettorale non c'è stata. Una modesta riforma della campagna elettorale finalizzata a rallentare il flusso di denaro che dalle corporations inonda la politica, anche dopo essere stata approvata al Congresso, è sotto approfondita valutazione delle decisioni presidenziali. Cosa ancora più importante, la campagna del Congresso di quest'anno, evitando il dibattito sulla questione fondamentale della guerra e della pace, ha segnalato al pubblico che persino nelle questioni più importanti per il paese, né questo né i suoi rappresentanti assumono decisioni; solo il potere esecutivo lo fa.

Membri del Congresso! Siate fedeli ai vostri giuramenti e alle tradizioni del vostro ramo del governo. Pensate al paese, non alla vostra rielezione. Affermate il vostro potere. Difendete le prerogative del Congresso. Difendete la Costituzione. Rifiutate l'arroganza - e l'ignoranza - del potere. Dimostrate rispetto per i vostri costituenti - essi richiedono il vostro onesto giudizio, non la capitolazione davanti al potere esecutivo. Dite no all'impero. Affermate la Repubblica. Preservate la pace. Votate contro la guerra in Iraq.

Tratto da "Il Manifesto"  9 ottobre 2002


Non voto la guerra - documento di 131 parlamentari 
dell'opposizione italiana 

 

Noi, deputati e senatori contrari ad un attacco armato all'Iraq, rivolgiamo un appello a tutti i rappresentanti del popolo che siedono in parlamento: fermiamo la macchina di questa guerra. Noi non vediamo il collegamento con la indispensabile lotta al terrorismo internazionale, che costituisce una minaccia per l'umanità. Noi temiamo piuttosto il piano inclinato di uno scontro tra civiltà, destinato ad alimentare il fondamentalismo islamico e a rendere sempre più ingovernabile il mondo. Noi avvertiamo i rischi immanenti per la sicurezza del nostro e di ogni altro paese, in particolare quelli dell'area del Mediterraneo.

Ora molte contrarietà e dubbi, tra gli stati membri delle Nazioni unite e dello stesso consiglio di sicurezza, sembrano contrastare le certezze di un conflitto inevitabile. Siamo convinti che le Nazioni unite debbano agire in piena autonomia e non subire l'imposizione di una risoluzione che accolga il principio della «guerra preventiva», contrastante con la loro Carta fondativa.

- perché un tale deliberato di autorizzazione alla guerra non potrebbe trasformare una scelta sbagliata in una scelta giusta;

- perché, lungi dal rafforzare il ruolo delle Nazioni unite potrebbe essere causa della loro delegittimazione agli occhi della gran maggioranza dell'opinione pubblica mondiale.

Per questo i nostri sforzi vogliono essere orientati:

- ad esigere dall'Iraq di accettare le ispezioni sugli armamenti e in tutti i siti;

- ad evitare la guerra, rappresentando in questo modo gli orientamenti maggioritari dell'opinione pubblica europea e di una parte importante di quella degli Stati uniti;

- a proporre che l'Onu avvii un processo negoziale sul disarmo, relativo agli armamenti nucleari e chimico-batteriologici, in tutta l'area medio orientale, anche nel quadro della soluzione del conflitto israeliano-palestinese.

Sono queste le posizioni che sosterremo nel parlamento e nel paese, riaffermando il valore e l'efficacia, nell'era della globalizzazione, dell'articolo 11 della costituzione italiana. Noi non voteremo per la guerra all'Iraq.



C. Acciarini, M. Agostini, E. Baio Dossi, F. Bandoli, F. Baratella, G. Battaglia, T. Bedin, K. Bellillo, G. Bellini, F. Bertinotti, G. Bianchi, V. Bielli, F. Bimbi, R. Bindi, S. Boco, M. Bonavita, D. Bonfietti, P. Brutti, G. Buffo, M. Bulgarelli, G. Burtone, V. Calzolaio, F. Carboni, F. Carella, P. Castellani, M. Cavallaro, A. Cennamo, P. Cento, M. Cialente, L. Cima, F. Cortiana, A. Cossutta, M. Cossutta, F. Crucianelli, G. D'Andrea, N. Dalla Chiesa, S. Dameri, S. De Franciscis, E. Deiana, F. De Martino, L. De Petris, T. De Simone, T. De Zulueta, O. Diliberto, O. Di Serio D'Antona, P. Di Siena, A. Donati, E. Duca, L. Duilio, A. Falomi, E. Fassone, G. Fioroni, A. Flammia, A. Fluvi, P. Folena, G. Frigato, M. Fumagalli, A. Gaglione, P. Gasperoni, L. Giacco, A. Gianni, P. Giaretta, F. Giordano, G. Giulietti, A. Grandi, G. Grignaffini, F. Grillini, R. Innocenti, A. Iovene, G. Kessler, C. Leoni, M. Lion, G. Lolli, A. Longhi, M. Magistrelli, L. Malabarba, G. Malentacchi, R. Mantovani, L. Marcora, L. Marino, F. Martone, G. Mascia, G. Melandri, L. Meduri, A. Monticone, G. Morgando, D. Mosella, F. Mussi, A. Muzio, N. Nesi, A. Occhetto, G. Pagliarulo, G. Panattoni, A. Pecoraro Scanio, L. Pennacchi, G. Petrella, R. Pinotti, S. Pisa, G. Pisapia, G. Pistone, A. Pizzinato, E. Realacci, G. Reduzzi, N. Ripamonti, M. Rizzo, A. Rotondo, R. Ruggeri, A. Rusconi, G. Russo Spena, S. Sabattini, C. Salvi, G. Santagata, R. Sciacca, C. Sgobio, A. Soda, T. Sodano, A. Soliani, A. Sasso, P. Toia, L. Trupia, S. Turroni, T. Valpiana, S. Vertone, N. Vendola, F. Vigni, M. Villone, W. Vitali, D. Volpini, G. Zancan, L. Zanella, K. Zanotti

Tratto da "Il Manifesto" 18 ottobre 2002

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