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Contro la guerra cambia la vita

Alexander Langer

 

Riproduciamo questo articolo di Alexander Langer del gennaio 1991 apparso
su "Terra nuova forum"; ringraziamo Mao Valpiana per avercelo inviato.

 

Quanti oggi si disperano per non essere riusciti a prevenire prima ed a
fermare poi la guerra nel Golfo, si trovano in buona ed illustre compagnia:
il papa ed il segretario delle Nazioni Unite aprono il lungo corteo di
coloro che non si rassegnano facilmente al fatto che la parola sia passata
alle armi, che la guerra, "avventura senza ritorno", sia poi effettivamente
scoppiata.
E piu' si sperimenta l'impotenza di milioni di persone comuni e di migliaia
di esponenti rappresentativi delle piu' diverse istituzioni, chiese,
associazioni, sindacati, partiti e persino parlamenti che invocano la fine
della guerra, ma non riescono a farsi ascoltare, piu' ci si domanda cosa di
efficace oggi si possa fare di fronte a gravi ingiustizie internazionali,
senza affidarsi alla prova di forza militare.
E se l'Occidente sviluppato e progredito non riesce a trovare risposte a
questa domanda, come si puo' sperare che altri nel mondo, di fronte ad
occupazioni ingiuste, gravi violazioni del diritto internazionale e dei
diritti umani, minacce, atti di forza, soprusi, ecc. non cerchino in tutti i
modi di ristabilire anche loro con piccole o grandi guerre (e col
terrorismo, per chi  non dispone del timbro di alcuno stato per legittimare
la propria violenza armata) i loro diritti violati? Come pretendere dai
palestinesi, dai kurdi, dagli abitanti del Kashmir, dai ciprioti, dagli
armeni, dai tibetani, dai popoli baltici e da tanti altri di respingere la
tentazione della violenza come mezzo per affermare i loro diritti violati?
Tanti pesi, tante misure, ed alla fine ogni volta, quando parlano le armi,
finisce per affermarsi semplicemente la legge del piu' forte, che sia nel
giusto o nel torto.
*
Il "pacifismo gridato" (cosi' lo ha chiamato il cardinal Martini di Milano)
esprime la rabbia e la frustrazione di chi sente questa impotenza, ma
davvero non sfugge facilmente all'accusa di usare anch'esso pesi e misure
diverse, a seconda di chi si tratta di condannare o approvare.
Chi pero' non rinuncia a considerare la guerra comunque, ed oggi ancor piu'
di ieri e dell'altro ieri, una sconfitta dell'umanita' che finisce per
provocare mali maggiori di quelli che pretende di curare, non puo'
rassegnarsi ad accettare che ci siano situazioni che solo con la forza
bellica si possono risolvere.
Sono due le linee di azioni che a questo punto sembrano degne di
esplorazione approfondita. La prima aiuta a superare il "pacifismo (solo)
gridato" e potrebbe essere sintetizzata con un motto formulato dalla
"Campagna nord-sud": contro la guerra, cambia la vita. La seconda riguarda
il ricorso alla "forza", senza che cio' debba essere sinonimo di guerra, un
problema che i nonviolenti da sempre pongono e che non puo' ridursi
all'alternativa tra subire o fare la guerra.
*
Contro la guerra, cambia la vita: le guerre scoppiano "a valle", quando
tutta una infausta concatenazione di soprusi, violenze e fallimenti si e'
gia' prodotta e sembra diventata irrimediabile; i popoli, la gente comune,
sono poi chiamati a pagare il conto finale senza aver potuto intervenire
sulle singole voci che lo hanno via via allungato. Ma dinnanzi al fallimento
della politica e della negoziazione, che sfocia nella guerra, bisognera' pur
rafforzare gli "anticorpi" a disposizione di ogni singola persona per
prevenire le guerre e per non lasciarsene, comunque, catturare, una volta
che sono scoppiate.
Se tutto uno stile di vita (consumi, produzioni, trasporti, energia,
banche...) nel quale siamo largamente coinvolti, per potersi perpetuare ha
bisogno di condizioni assai ingiuste che regolano le relazioni tra i popoli
e con la natura, bisognera' dunque intervenire "a monte" e mettere in
questione la nostra partecipazione (anche individuale) ad un "ordine"
economico, politico, sociale, ecologico e culturale che rende necessarie le
guerre che lo sostengono.
Se il consenso alla guerra (sotto forma di nazionalismi, razzismi,
pregiudizi, stereotipi, ecc.) puo' con tanta facilita' diventare
maggioritario - non certo soltanto tra "fondamentalisti islamici"... - si
dovra' intervenire anche qui "a monte" ed allargare una solida base ideale e
culturale di disposizione alla pace ed alla convivenza, disintossicando
cuori e cervelli.
Se e' considerato scontato che, una volta scoppiata la guerra, non resta che
allinearsi ed arruolarsi (materialmente e culturalmente), bisognera' pure
che qualcuno lavori per suscitare e consolidare scelte di "obiezione alla
guerra".
Sono dunque tante le forme di azione che si possono scegliere per "cambiare
la vita di fronte alla guerra", nel senso di negarle ogni consenso e
sostegno e nel senso di farle mancare - ognuno - almeno un pezzettino di
apparente giustificazione.
*
Piu' difficile appare oggi la seconda delle linee proposte: sviluppare
strumenti "di forza", ma il meno possibile violenti e comunque non bellici.
Di fronte all'occupazione violenta del Kuwait da parte dell'Irak, ed alla
sistematica azione degli Usa e di alcuni fra i loro alleati per arrivare
comunque alla guerra con l'Irak e realizzare una globale "resa dei conti"
per impedirgli di nuocere in futuro, la scelta nonviolenta a molti sembra
andata improvvisamente in  crisi. La "guerra giusta" e' riapparsa
solennemente all'orizzonte - questa volta con tanto di voto a schiacciante
maggioranza nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu e quindi con la legalita'
internazionale assicurata. Non poteva mancare qualche vescovo, qualche
moralista e qualche elzevirista a benedire il tutto. "Pacifista" e' tornato
ad essere un sinonimo di fifone, piagnone o alto traditore e cospiratore col
nemico, "nonviolento" un aggettivo buono per i sognatori. Lo stesso papa
viene indicato come capofila del "disfattismo", visto che non cessa di
denunciare e chiamare a fermare questa guerra.
L'argomento piu' forte dei sostenitori della "guerra giusta" (magari
ribattezzata "azione di polizia internazionale") e' di ordine
storico-morale: "se Hitler fosse stato fermato gia' nel 1934, al momento
dell'occupazione della Renania, si poteva forse risparmiare al mondo intero
la tragedia del nazismo e della seconda guerra mondiale". Dove per "fermare
Hitler" si da' per scontato che si debba leggere "fare la guerra a Hitler".
E dove si dimentica che la coalizione anti-Hitler avra', si', battuto
l'incubo del totalitarismo nazifascista, ma rifondato anche - su 40 milioni
di morti - un ordine internazionale che ha tranquillamente consegnato mezza
Europa ad un altro totalitarismo e l'intero sud del pianeta allo
sfruttamento e, in molti casi, a vecchi o nuovi colonialismi e
totalitarismi.
Se quindi e' giusto fare tutto il possibile per fermare aggressioni,
ingiustizie e soprusi, a partire dal chiamarli per il loro nome ed
identificarli come tali, non mi sembra invece ne' giusta, ne' risolutiva
l'idea di farne derivare con una sorta di funesto automatismo la sanzione
bellica.
*
Piuttosto la guerra nel Golfo (che fin d'ora appare - a dispetto di tutte le
censure nell'informazione - ben piu' "sporca" di quanto non sia stata
presentata, camuffata in geometrica potenza dell'azione chirurgica
elettronica) dimostra che si devono inventare nuovi strumenti alternativi e
nonviolenti, persuasivi ed efficaci, per ridurre il tasso di violenza nel
mondo e per risparmiare bagni di sangue (che si chiamino guerra o
repressione, che siano internazionali o interni).
Ne provo ad indicare quattro, di cui mi sembra ci sia bisogno (potendoli qui
appena accennare, naturalmente):
1) sviluppare l'arma dell'informazione e della disarticolazione della
compattezza derivante da repressione, disinformazione, censura; perche' non
"bombardare" con trasmissioni radio e tv, con volantini, con documentazione,
piuttosto che con armi? ("Radio Free Europe" o "Radio Vaticana" hanno fatto
probabilmente di piu' per la destabilizzazione dei regimi dell'est che non
le divisioni della Nato) Perche' non fornire supporti ed aiuti ai gruppi
impegnati nei diversi regimi totalitari per i diritti umani, piuttosto che
fornire armi agli Stati che un giorno si spera facciano loro la guerra?
2) costituire e moltiplicare gruppi/alleanze/patti/tavoli interetnici,
interculturali, interreligiosi di dialogo e di azione comune, piuttosto che
dialogare solo da campo a campo o da blocco a blocco; e' l'abbattimento dei
muri, o perlomeno lo sforzo di renderli penetrabili (vedi l'esperienza
interetnica dell'"altro Sudtirolo") Oggi uno dei "buchi neri" in questa
crisi e' l'assenza di forti legami interculturali ed interetnici tra arabi
ed israeliani, tra Europa e mondo arabo, tra Cristianesimo ed Islam; non
sono quindi da disprezzare anche modesti strumenti quali i "gemellaggi" tra
Comuni, Regioni, associazioni, ecc., che avvicinano concretamente i popoli e
rendono piu' difficile il consenso a "bombardare l'altro" (che si accetta di
bombardare tanto piu' quanto meno lo si conosce);
3) lavorare seriamente per un nuovo diritto internazionale e per un nuovo
assetto dell'Onu, basato oggi non solo sugli esiti della seconda guerra
mondiale (con le sue "Grandi Potenze", i loro diritti di veto, ecc.), ma
anche su un concetto ed una pratica di "sovranita' degli Stati" poco consono
al destino comune dell'umanita'. La tradizionale distinzione tra "affari
interni" che esigono la non-ingerenza degli altri (per cui torture e
massacri non riguardano la comunita' internazionale, finche' non scoppia un
contenzioso tra almeno due Stati) ed "internazionali" non regge alla prova
delle emergenze ecologiche, ne' dei diritti umani;
4) chiedere all'Onu di promuovere una sorta di "Fondazione S. Elena" (nome
dell'isola in cui alla fine fu esiliato Napoleone, tra gli agi e gli onori,
ma reso innocuo), per facilitare ai dittatori ed alle loro sanguinarie corti
la possibilita' di servirsi di un'uscita di sicurezza prima che ricorrano al
bagno di sangue pur di tentare di salvarsi la pelle (Siad Barre, Ceausescu,
Marcos, Fidel Castro, il re del Marocco, Saddam Hussein... potrebbero o
potevano utilmente beneficiarne piuttosto che giocare il tutto per il
tutto); la questione di amnistie e indulti per chi e' abbastanza lontano ed
abbastanza vigilato da non poter piu' fare danni, non dovrebbe essere
insolubile.
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Ho scelto appena alcuni esempi, tra i molti che si potrebbero fare (pensiamo
solo alle diverse possibili articolazioni dell'embargo commerciale,
sportivo, scientifico, ecc.), perche' sono convinto che oggi il "settore
R&S" (ricerca e sviluppo) della nonviolenza debba fare grandi passi avanti e
non fermarsi solo alle ormai tradizionali risorse della disobbedienza
civile. E la spaventosa guerra in corso non deve farci fare tutti quanti un
salto indietro, riammettendo la guerra tra i protagonisti della storia e tra
gli strumenti - seppur estremi - della convivenza tra i popoli. Con il
livello odierno di armamenti, di affollamento demografico del mondo e di
precarieta' ecologica del pianeta comunque non ci puo' essere piu' "guerra
giusta", se mai ne poteva esistere in passato.