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 Dibattito sul crocifisso nelle aule (II parte)

 


Crocifissi pubblici  di Giancarlo Zizola

Crocifisso in aula, pluralismo in croce  di Riccardo Di Segni

Il crocifisso e i crocifissi della storia  di Bartolo Ciccardini

A proposito di crocefissi padani  di Diego Gabutti

Crocifissi in classe, un calvario di inciviltà politica  di Roberto Moro

Il crocifisso tra Coca Cola e Microsoft  di Riccardo Bonacina

Il crocifisso sta bene nelle chiese, tutto il resto lasciamolo a Cesare  
di Giorgio Montefoschi

 

Crocifissi pubblici

Giancarlo Zizola

 

Tornano in circolazione per decreto ministeriale i crocifissi di Stato, di nuovo il simbolo della Nonviolenza e' impugnato come corpo contundente per affermare un diritto politico di Dio, o rilanciare una religione dell'utile, all'insegna del vecchio motto della borghesia volterriana: "Ciascuno per se' e Dio  per tutti".

Era spaventosa l'immagine del Crocifisso brandito sui carri della morte dei Franchisti durante la guerra civile spagnola. E' ripugnante l'uso politico del Crocifisso per verniciare di una ipocrita patina di cristianesimo culturale l'ateismo pratico di una politica basata sul culto dell'Oro, sull'individualismo esasperato, sulla caccia feroce agli immigrati in cerca di pane alle mense dei nostri Epuloni. Il crocifisso viene di nuovo crocifisso da quegli stessi che lo vogliono appeso sui muri pubblici: una mistificazione. Ci sono stati vari progetti nella storia di abrogazione del cristianesimo. Oggi il progetto diventa piu' che mai astuto: si tenta di abrogare il cristianesimo usando il Crocifisso di Stato. Faust e' passato un'altra volta a Villa Casati ad Arcore. Ed ha imparato qualcosa.

In questa discussione, si e' ricordato che non serve essere liberalcattolici, basta essere semplicemente liberali per decidere come schierarsi nella polemica sul crocifisso nelle scuole:perche' il crocifisso e' si' il simbolo di una fede, ma anche della civilta' giudaicocristiana che ha improntato di se' l'Occidente. Qualche esponente del centro destra ne ha fatto una questione di identita'.

Ormai siamo alla paranoia delle impronte: il crocifisso sarebbe l'impronta dell'Occidente, anzi "il simbolo della  nazione", come il chador  - dice  Ferdinando Adornato - e' un diritto delle donne afghane. Non si scopre ora l'ignoranza in cultura religiosa di certa "intellighentzia" laica: trascura che il crocifisso e' per i cristiani l'immagine del corpo di Dio, comprensibile solo nell'ordine della fede, non in quello dell'abbigliamento, e neanche in quello di una cultura particolare. Ignora che per i musulmani Dio non puo' essere rappresentato,in alcun modo. E che anche per gli Ebrei vige l'interdetto mosaico: "Non nominare il nome di Dio invano". I cristiani hanno sempre qualcosa da imparare dagli Altri: meglio un crocifisso praticato che giocato ai dadi tra partiti politici e messo al muro. La sua croce doveva essere scandalo e follia, diceva san Paolo, noi lo abbiamo ridotto a un tranquillante "culturale" e a un portafortuna per i calciatori che entrano in campo.Doveva essere un segno di salvezza per tutti, ora qualcuno tenta di renderlo segno di salvezza per alcuni, e di perdizione per gli altri.

Nasce tardi il crocifisso nell'iconografia cristiana. I primi crocifissi sono del VI secolo. Per sei secoli le comunita' cristiane ne hanno fatto a meno. In ogni caso, li dipingevano con gli occhi aperti, come ancora viventi, e vicino alla tomba vuota, tanto era prevalente nella cultura il paradigma della resurrezione. La quale non a caso e' tornata in forze ad emergere nella riflessione teologica con la riscoperta "moderna" dell'escatologia.

In qualunque tempo il crocifisso significa questo: la potenza divina si e' fatta inerme, rifiuta la spada non solo per la conquista ma anche per l'autodifesa e sceglie di morire su un patibolo infame. Un simbolo per la nonviolenza come fonte di storia. Come dunque si puo' pretendere che sia il simbolo dell'Occidente? Anche il nazismo ornava le sue armate messianiche con la croce, per quanto uncinata. La Chiesa firmava concordati con Hitler, con Mussolini e con Franco, ma la croce era al suo posto nell'immoralismo politico delle dittature e sulle stragi del fascismo in Etiopia?

Padre Turoldo mi raccontava di quando vide un crocifisso sulla scrivania d'un banchiere a Ginevra. Era un pezzo d'antiquariato .Si tirava l'asta verticale e dal crocifisso si estraeva un pugnale. Era usato dai crociati per offrirlo al bacio dei prigionieri musulmani.Se non lo baciavano venivano infilzati. E commentava che l'offesa piu' grave che si possa fare al Nonviolento Crocifisso e' proprio di brandirlo come un emblema di parte, di usarlo come collante dell'etnocentrismo, di mistificarlo e bestemmiarlo come ingrediente dello "scontro di civilta'" per giustificare la guerra.

Non sono iconoclasta ma mi oppongo a questa spericolata, simoniaca e oltraggiosa offensiva anticristiana che usa il crocifisso per liquidare le ultime, fragili resistenze della religione della carita' in questo paese. Vorrei solo che il crocifisso esistesse nei cuori prima che sui muri pubblici, nelle coscienze prima che negli apparati statali. Sono convinto che non sono i crocifissi esibiti a fare cristiana una societa', ma i cristiani, se sono capaci di pace e di giustizia, di adorazione e di rivolta di fronte all'oppressione e al massacro dei piu' deboli. Di questo anzitutto i dirigenti ecclesiastici dovrebbero preoccuparsi: di rifare i cristiani,di rifarli dall'interno, in modo che non pieghino la loro coscienza di fronte ai tiranni.

Confesso di non comprendere le ansie per la segnaletica esterna, se non come sintomo della vetusta' intellettuale dei nostri integralisti cattolici, pallida eco di Maurras, ma come lui indaffarati "a togliere dal Vangelo il suo veleno rivoluzionario". A loro non gli par vero che il segno della croce sia divenuto, almeno nei media, il ghiribizzo scaramantico dei calciatori all'ingresso in campo. Un amuleto calma l'ansia. E intanto mettono tutto l'impegno possibile nell'accelerare il processo di secolarizzazione in chiave neoliberista, facendo strame della verita' e della giustizia, e segando il ramo dei valori cristiani sui quali si regge l'ordine democratico.

Chiedono ai vescovi di allargare la cruna dell'ago, ma offendono pubblicamente quelli che non accettano di farci passare i loro cammelli da nababbi. Pretendono il crocifisso nelle scuole, ma diseducano con mezzi potenti e su tutte le reti le nuove generazioni. Vorrebbero una Chiesa ridotta al foro interno e al culto, privarla della carita' e dei poveri, cioe' dei "segni dei chiodi" per i quali puo' fluire ad essa la luce del Cristo.

Questa vecchia Chiesa madre, grazie all'armatura che ci irrita talora e che consideriamo vetusta, ha preservato grazie alla carita' il mistero della vita divina. Essa ha mantenuto contro tutte le eresie, e continua a mantenerla anche contro la gnosi anticristiana di oggi, la parola del Cristo che ha cambiato il destino dell'umanita': "Questo e' il mio corpo, offerto per tutti voi".  E' il corpo vivente di Colui che ha dato il proprio sangue perche' il sangue dell'uomo non sia piu' versato.

Il cristianesimo ha imparato a proprie spese cosa ha significato per 1500 anni preferire i crocifissi "di stato" a questo altro tipo di icona. La societa' si e' fatta profana e multireligiosa, nemmeno il Cardinale Ratzinger accetta che il cristianesimo torni ad essere una "religione della societa'", nella quale i crocifissi siano esibiti come emblemi di una nuova alleanza tra trono e altare, messi sui muri e abrogati dalla vita.

E' soltanto allontanandosi da quei muri pubblici e dalla loro ambiguita' che il crocifisso potrebbe tornare ad essere significativo per mobilitare le forze spirituali, nell'ora in cui il mondo agonizza,e ri-spiritualizzare l'uomo. Questa rimozione puo' apparire traumatica e "laicistica",ma forse e' necessaria per purificare il senso del Dio crocifisso dalle immagini ereditate della religione utilitaria. Molto a ragione Jurgen Moltmann ha affermato che "cogliere Dio nel Crocifisso abbandonato esige una rivoluzione dell'idea di Dio". Cio' che era scandalo e follia per i contemporanei di Paolo resta tale anche per molti nostri contemporanei. E' difficile abituarsi a questa figura di Dio inutile e impotente. Essa non funziona come utensile del dominio. E' questo cui richiamava François Verillon quando avvertiva: "Noi cerchiamo Dio nella luna mentre lui sta lavandoci i piedi".

Per quanti riconoscono nel crocifisso il Cristo di Dio e continuano a credere in lui quella croce significa  che colui che ha subito la piu' profonda umiliazione da parte del potere politico diventa portatore della massima dignita' e che la  gloria di Dio non illumina piu' le corone dei potenti. Come notava Hegel, se colui che e' morto impotente, esautorato e inutile sulla croce diventa per i credenti la massima e unica fonte di autorita', allora svanisce per essi la base religiosa del vincolo con il potere politico, che postula in ogni caso un rapporto di scambio delle utilita', un do ut des.

Da queste poche osservazioni diventa chiaro che una teologia politica della croce e' qualcosa che non ha nulla da spartire con la teologia politica delle religioni di stato. Essa si presenta anzi come l'avversaria irriducibile delle religioni politiche, e contesta a partire da un punto cardinale la possibile omologazione della fede cristiana a funzioni utilitarie nell'ambito degli interessi del sistema dominante. Al contrario, essa si traduce in una forza critica di liberazione dell'uomo dal giogo delle religioni politiche e dell'alienazione.

Di qui il significato anti-idolatrico della teologia della Croce nel senso in cui essa si costituisce in fattore critico delle pretese dell'assolutismo. Non sarebbe impropria, da questo punto di vista, una lettura teologica delle Beatitudini nelle quali il rovesciamento introdotto dal Cristo manifesta il divino nelle figure dei poveri, dei semplici, degli umili, dei deboli e dei sofferenti, dei pacifici e dei diseredati. Il divino si costituisce nel mondo come scarto e non piu' nelle tradizionali categorie della potenza trionfale. In un mondo senza compassione, la mitezza di Gesu' di Nazareth non puo' essere presentata in modi schiaccianti e trionfanti: Gesu' non schiaccia nessuno, anzi "e' il Dio che si e' fatto schiacciare per l'amore verso l'uomo" ci ha insegnato il Cardinale Carlo Maria Martini.

Il Dio crocifisso e' dunque un Dio dello scarto. Il Totalmente Altro e' per eccellenza il Non Potente. Egli non si arruola nelle file dell'idolatria politica e non puo' funzionare come utensile del potere, ne' ordinare a Pietro di impugnare la spada del potere per difendere lui e una civilta', come ancora tentano di fare i nostri mammalucchi  cristiani che aspirano a conquistare il mondo all'arma bianca. Perfino il papa polacco preferi' consigliare le carmelitane del convento di Auschwitz a togliere la grande croce che avevano installato nel lager e trasferirle altrove. Ed e' proprio ripensando alla Shoah che Emmanuel Levinas ha scritto una pagina su cui giova soffermarsi nella triste ora presente: "L'idea di una verita' che si manifesta nell'umilta', l'idea di una verita' perseguitata, e' l'unica modalita' possibile della trascendenza. Manifestarsi come umile, come alleato del vinto, del povero, del perseguitato significa proprio non rientrare nell'ordine. L'umilta' disturba totalmente. La persecuzione  e l'umiliazione a cui essa espone sono modalita' del vero".

  Tratto da “La nonviolenza è in cammino” n. 364

 

Crocifisso in aula, pluralismo in croce

Riccardo Di Segni
Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma

 

GLI antichi testi rabbinici raccontano una storia su Rabban Gamliel (Gamaliele), l’autorevole rabbino che difese nel Sinedrio i primi fedeli di Gesù e di cui l’apostolo Paolo si vantava di essere stato discepolo.

Gamliel frequentava le terme di Afrodite di Acco, un luogo pieno di statue dedicate agli dei; ed era molto strano che lo facesse il rappresentante tanto importante di una religione che rifiutava l’idolatria. Gamliel si giustificava in questo modo: «Non sono stato io ad andare nel territorio di Afrodite, ma è stata Afrodite a venire nel mio territorio».

In altri termini, bisogna distinguere tra il territorio di Afrodite, cioè il tempio che le è dedicato e nel quale chi rifiuta l’idolatria non deve entrare, e la casa di tutti, come le terme pubbliche, dove qualcuno può anche averci introdotto immagini proibite, ma non per questo diventa proibita ai frequentatori.

La posizione di Gamliel era quella del rappresentante di una religione allora senza potere politico, che non poteva permettersi, anche se l’avesse voluto, l’abolizione forzata delle immagini idolatriche. Cominciarono a farlo e ci riuscirono, tre secoli dopo questa storia, i rappresentanti del cristianesimo trionfante sugli «dei falsi e bugiardi».

Da allora fu il cristianesimo a riempire gli spazi pubblici dei segni della sua fede. Non fu un processo senza ostacoli, perché anche nel cristianesimo l’uso delle immagini nella pratica religiosa fu sempre causa di discussioni e divisioni; non tanto per il cattolicesimo: e noi in Italia, dove la realtà cristiana è in gran parte cattolica, dobbiamo confrontarci con le scelte di questa parte del mondo cristiano così fedele alle sue immagini di culto.

Per Gamliel, che era lo spettatore passivo dell’irruzione nel luogo pubblico di immagini che lo disturbavano, ma contro le quali non poteva fare nulla, si trattava di decidere se era lecito frequentare il luogo pubblico.

Per la società moderna, nella quale ogni cittadino partecipa democraticamente alla decisione collettiva, il problema va oltre: si tratta di decidere se sia lecita l’introduzione di un segno privato in un luogo pubblico.

La questione che oggi si pone del crocifisso nelle scuole, forse con un’enfasi esagerata, è quella dei limiti da porre al desiderio di una fondamentale componente della società a porre e imporre il segno della sua fede nella casa di tutti, nella quale coabitano tutte le altre parti della società.

Non bisogna dimenticare che ogni stato moderno, per quanto laico possa dichiararsi, ha stabilito dei patti con le religioni, maggioritarie e minoritarie, derogando più o meno dal principio dell’assoluta separazione tra stato e religioni.

Ciò che è avvenuto in Italia è il prodotto di una storia lunga e travagliata, e ciò che non è stato ancora definito con precisione, e che sta ai limiti delle decisioni consolidate, come il caso del crocifisso, solleva di tanto in tanto delle polemiche, banco di prova e di scontro tra almeno due concezioni diverse.

In questo dibattito può avere qualche importanza conoscere gli stati d’animo e le domande di molti ebrei italiani. Si dice che il crocifisso sia un segno culturale, e che non bisogna rinunciare alla propria cultura e alle proprie tradizioni per un malinteso senso di rispetto delle minoranze.

E’ vero che il crocifisso è anche un segno culturale, ma non è per questo che lo si vuole nelle scuole; lo si vuole perché è prima di tutto un segno religioso, e il problema è essenzialmente religioso.

I cattolici rivendicano con giusto orgoglio che questo è per loro un segno di amore e di speranza, e non si capisce allora perché non debba essere presente ovunque. Ma visto da altre parti, come quella ebraica, il senso di quel segno è differente.

Per noi è prima di tutto l’immagine di un figlio del nostro popolo che viene messo a morte atrocemente; ma è anche il terribile ricordo di una religione che in nome di quel simbolo, brandito come un’arma, ha perseguitato, emarginato, umiliato il nostro ed altri popoli, cercando di imporgli quel simbolo come l’unica fede possibile e legittima. La storia passata della Chiesa ha trasformato quel simbolo, che dovrebbe essere di amore, in un segno di oppressione e intolleranza.

L’ultimo Concilio ha cambiato nettamente la direzione, ma la richiesta ripetuta di occupare il luogo pubblico con quel segno ripropone alla nostra memoria il tema dell’intolleranza.

La domanda che allora si pone a quella parte del mondo cattolico che si batte tanto per il crocefisso è se siano tornati, o non siano mai finiti, i tempi in cui la religione cattolica ha pensato di imporsi e diffondersi non con la testimonianza e la pratica esemplare delle sue virtù, ma con l’invasione, la forza, l’occupazione.

Il problema che ci preoccupa è quale modello di religione sia dietro alle richieste dei difensori del crocifisso.

Come membri minoritari di una società pluralistica continuiamo a ragionare con Gamliel, e a non rinunciare agli spazi pubblici, subendone, se inevitabile, l’occupazione con segni privati; come cittadini partecipiamo al dibattito civile per definire i limiti e i diritti di ogni religione nella società laica; come fratelli, rivolgiamo ai fratelli cattolici una domanda preoccupata sulla loro identità, sul loro modo di vivere e proporre la loro fede al mondo circostante.

Tratto da "La Stampa"  28 settembre 2002

 

Il crocifisso e i crocifissi della storia

Bartolo Ciccardini

 

Si discute se l'immagine del Crocifisso sia simbolo universalmente accettato o invece sia un'ostentazione illiberale che ricorda solo una parte della formazione della coscienza europea. Così posta, la questione è destinata solo a radicalizzarsi, suscitando inopportuni patriottismi laici o cattolici, e curiosi interventi di minoranze religiose.
All'inizio del cristianesimo il crocifisso non era tra i simboli cristiani. Come patibolo degli schiavi, crudelissimo per terrorizzare ogni tentativo di rivolta, appariva infame e vergognoso. La prima raffigurazione del crocifisso è insultante: deride un cristiano che adora il suo Dio sulla croce, con una testa d'asino. C'era solo disprezzo per i crocefissi ed è significativo che nessuna raffigurazione di questo atroce e frequente supplizio ci sia pervenuta dall'antichità.
I cristiani avevano come simboli il pesce ed il buon pastore. Anche nei labari di Costantino la croce era criptata ed attenuata nell a X (chi greco) e nella P (rota, cioè erre greco), le iniziali di Christos.
Quando il Mediterraneo romano e cristiano si sbriciola per l'assalto dei germanici a nord e degli arabi a sud, ridotto ad un piccolo isolotto, sempre in pericolo di essere sommerso dai flutti, negli eremi degli anacoreti, nei rifugi dei monaci, nelle penitenze dei mistici, ma soprattutto nelle sofferenze delle popolazioni civili deportate, sacrificate, martirizzate si fissa la meditazione sul supplizio di Cristo. Nasce una parola che prima non esisteva: compassione.
Cum Passione, dove Passio, parola liturgica significa in maniera diretta ed esclusiva la passione di Cristo. Entra nella lingua parlata un termine nuovo che indica la partecipazione al dolore del supplizio, la comprensione del dolore della Madre, la cui raffigurazione verrà chiamata Pietà. Compassione sarà il lievito dei secoli bui, la fratellanza degli oppressi, l'eguaglianza nel dolore, la libertà di chi non ha più nulla da perdere.
Il Crocifisso che insegna la pazienza (anche questa "parola venuta tardi per via ecclesiastica", dice il Prati) non è più un segno di infamia e di scandalo. Diventa invece simbolo del comune destino, della misericordia finale, dell'estrema consolazione, della pacificazione e del reciproco perdono.
La compassione è stato il cilicio dell'Europa violenta e combattiva, l'impulso che ha costruito le sue chiese e le sue opere di carità, il gene della sua cultura, il riscatto delle sue ingiustizie, il dubbio della sua coscienza, l'impeto delle sue ribellioni e delle sue riforme, il motore della sua, e soltanto sua, idea di progresso. Non c'è progresso senza compassione. Questo significa il crocefisso nella nostra civiltà.
Appartiene solo ai cristiani? Se lo dicessero i cristiani sarebbe una bestemmia: essi sanno per fede che il Crocifiss o è morto per tutti gli uomini. Anche la compassione appartiene a tutti i giusti compassionevoli. Noi europei, d'oriente e d'occidente, possiamo - se vogliamo - rallegrarci, ricordarci e gloriarci soltanto di averla custodita e nascosta quando era debole e cagione di vergogna, di averla idealizzata nelle nostre città e nei nostri monumenti, di averla conservata per l'eredità per tutti. E questo non é poco.
Se non diamo al crocifisso significati arroganti e strumentali che non ha, allora conserva quello che è, l'immagine di un Innocente sacrificato dal potere, la fonte, la causa ed il simbolo della nostra compassione, antica, contemporanea e futura. Guardare poi al Crocifisso non sarà - non potrà mai essere - un atto ideologico, soggetto a interpretazioni o strattoni di parte. Non ha senso appellarsi al Crocifisso e ignorare o disprezzare le persone crocifisse nella storia di ieri e di oggi, dimenticare le vittime dei campi di sterminio come dei gulag siberiani, scalciare sui disperati che arrivano ai nostri lidi. Così induce a sospetto dichiararsi con gli ultimi e nel contempo rimuovere l'Ultimo.
Discutiamo pure se proprio lo vogliamo, ma non immiseriamo la faccenda per civetteria culturale o forzoso pretesto politico. Il Crocifisso non lo merita. La nostra dignità civile non ce lo consente.

Tratto da "Avvenire"  22 settembre 2002

 

 

A proposito di crocefissi padani

Diego Gabutti

 

Si pensava che la classe dirigente padana, al posto del crocifisso, avrebbe preferito appendere sopra le cattedre, nelle scuole del suo regno immaginario, un'ampolla d'acqua del Po, che come la sgnappa e il minestrone è un elisir dalle risapute virtù nazionaltaumaturgiche. Ma è sul crocifisso, lodando la proposta del ministro della pubblica istruzione, Letizia Moratti, che invece puntano a sorpresa i leghisti. E non per effetto d'una ritrovata devozione, che non potrebbe impicciarli di meno, ma per segnare la differenza tra noi e loro, tra gli extracomunitari devoti ad Allah e la cristianità minacciata di perdere i suoi benefici, tra loro ospiti sgomitanti e noi padroni in casa nostra.

Bossi, che del resto non ha più l'età, non intende certo iscriversi, con questo colpo di teatro, al Club di Topolino dei Papa's Boy, di cui non si è mai professato tifoso. Col loro Dio Po e le loro cazzabubbole celticopadane in odore di zolfo, i leghisti non sono Buttiglioni o ex dc dell'Ulivo e di Forza Italia, quindi del crocifisso non potrebbe importargliene di meno. Quel che vorrebbero è mettere un cappello da alpino sulla sedia della repubblica perché nessuno ci rubi il posto.

Sembrerebbe, a prima vista, una buona idea, o almeno un'idea non del tutto stravagante: l'Italia è cosa nostra, l'Occidente c'est moi . Quel che Bossi rivendica, attraverso la trovata del crocifisso, non è una particolare identità religiosa ma è il logo, è la griffe d'una condizione etnica: il coccodrillo sulla maglietta della "razza", l'altra faccia (la faccia nobile) delle impronte da prendere agl'immigrati (e magari, solidarizzando, anche a tutti gli altri cittadini, compresi voi e me, in questo modo già un po' meno padroni in casa nostra).

Ma allora ogni griffe (purché ispirata al nostro folklore nazionale e alle nostre tradizioni, italiane o "padane" non cambia, anzi cambia no) avrebbe in buona sostanza lo stesso valore del crocefisso reintrodotto per legge nelle scuole e negli uffici pubblici: anche l'imposizione d'un tortellino d'oro o d'una luganega d'argento da mettere all'occhiello della giacca, per dire, o l'obbligo di portare un mandolino a tracolla.

A una seconda occhiata, insomma, la rivendicazione del crocifisso segnaposti da parte dei leghisti non sembra più tanto una buona idea. Sembra un ulteriore passo, piuttosto, verso l'impagliacciamento del paese, che già non brilla per particolare serietà o compostezza. A meno che qualcuno, per esempio il ministro Moratti oppure Don Gianni Baget-Bozzo, non pensino che, insieme alla nostra identità nazionale già abbastanza multipla e sconnessa, gl'immigrati islamici minaccino anche la nostra identità religiosa e che il crocefisso, oltre che un cappello per segnare il posto, sia anche una bandiera per chiamare la nazione a raccolta contro gl'infedeli.

Ma con "allarme Islam" non s'intendeva un'emergenza di tipo laico? Anche Oriana Fallaci, quando ci metteva clamorosamente in guardia contro il grande complotto islamista per sfilarci l'Occidente di sotto il sedere, lo faceva per difendere prima di tutto la laicità dell'Occidente, non il nostro retaggio religioso, che non è minacciato da nessuno. Nessun operaio islamico malpagato e peggio alloggiato minaccia di stuprare la Madonnina del Duomo di Milano o di profanare l'ostia divina. E nessun venditore d'accendini e fazzoletti di carta minaccia neppure la santità della polenta taragna, come forse temono i leghisti, che per laicismo intendono, sembra di capire, più o meno quel che intendono con identità religiosa: cazzabubbole, come quando giurano a Pontida alzando le ampolle al cielo.

Finchè gl'immigrati islamici restano fedeli al Corano, se così gli piace, e i cattolici italiani continuano a giurare sui quattro Vangeli, se gli piace così, tutto va come deve andare, secondo costituzione e coscienza. Basta che gli uni e gli altri non decidano d'affrontarsi in torneo agitando nell'aria crocifissi e spade a mezzaluna come Orlandi e Saladini nell'opera dei pupi. E non pare che la situazione sia questa.

Ci sono problemi d'ordine pubblico, questo è vero, e la criminalità extracomunitaria è una faccenda seria, ma le ghenghe extracomunitarie non sono congreghe di vampiri, quindi non si combattono col crocefisso, con le trecce d'aglio e con le pallottole d'argento, come nei film dell'orrore, ma con le operazioni di polizia e il codice penale.

C'è magari da temere, scivolando un po' nel metafisico, anche l'idea teocratica (nessuna distinzione, anzi pappa e ciccia, tra superstizioni religiose e istituzioni politiche) che l'Islam alimenta, così come a lungo l'ha alimentata anche il cattolicesimo. Come c'è da temere tutto ciò che cospira contro le regole di convivenza civile che ci siamo liberamente (e faticosamente) dati. Ma qui francamente non si vede come c'entrino gl'immigrati islamici.

A parte le inevitabili eccezioni di scarso conto e peso, ci vuole una bella fantasia per pensare che questi poveracci, scampati ai barbudos maomettani che dettavano leggi insensate nei loro paesi, vogliano seriamente introdurle anche da noi, tanto per farsi morettianamente del male. Così come il crocefisso è una cosa e l'Occidente un'altra, affine ma non identica, allo stesso modo l'Islam è una cosa e gl'immigrati islamici un'altra, non meno distinta e separata.

Non si capisce bene da quale pericolo la reintroduzione del crocifisso nelle scuole e nei pubblici uffici intenda precisamente proteggerci. Si capisce benissimo, al contrario, quale pericolo ci faccia correre: un altro passo in direzione della ripapizzazione del paese.

Una scuola pubblica laica e senza devozioni, per non parlare d'istituzioni un filino più liberali e di qualche sana legge garantista, di quelle infallibilmente invise ai nostri magistrati, sarebbero amuleti contro le furie islamiste (e non solo) molto più efficaci di qualsiasi crocifisso o medaglietta di Padre Pio. Se poi è soltanto per segnare il posto, e perché gli altri (gl'immigrati, i muslim) tengano giù le rapaci mani non si sa bene da che cosa, ancor meno ci serve un crocifisso ridotto a griffe e sveglia da collo. No logo, per favore. Ma opere di bene.

Tratto da "Il Nuovo" 23 settembre 2002

 

 


Crocifissi in classe, un calvario di inciviltà politica

Roberto Moro

 

In questo ottobre rosso del sangue che ci si appresta a versare in Iraq, di quello che accompagna i massacri in Medio oriente, rosso nei conti di Wall Street come in quelli privati e pubblici del nostro Paese, rosso anche per quel vento di solidarietà che annuncia lo sciopero generale, il dibattito sul ripristino del crocefisso nelle scuole della Repubblica e nei pubblici uffici sembra una litania residuale, un deja ecuté sul grammofono gracchiante della storia patria. Si tratta, nei fatti, di un dibattito privo di autentica vis polemica, di sincere passioni, dunque stantio, che nulla aggiunge, e in nulla modifica, le tradizionali posizioni “ideologiche” di cattolici e laici, un ritornello ben radicato nella faticosa storia del nostro Paese e nel suo tortuoso cammino verso l’accettazione della modernità. Ben altri sono i problemi che affliggono la scuola (e più in generale le istituzioni dello Stato) in via di progressiva decomposizione, messa a ferro e fuoco da confusi processi di riforma e falcidiata da tagli di bilancio e occupazionali senza precedenti; ben altri i temi posti all’ordine del giorno della congiuntura politica di questo ottobre rosso del 2002, rosso anche per la vergogna che il governo-spettacolo della Repubblica suscita nei comuni cittadini. Anzi, proprio a fronte del quotidiano spettacolo (uno spettacolo ormai forse più tragico che comico) di questo governo mediatico, il tema del “crocifisso sì, crocifisso no” appare un trompe l’oeil, una sorta di depistaggio morale e culturale, suona una nota falsa che rischia di farne una menzogna tra le tante menzogne e addirittura la menzogna delle menzogne.

   L’evento, sotto il profilo mediatico, non ha gambe e in poche battute si è già detto tutto, va alla deriva; null’altro vi sarebbe dunque da dire se non andando un poco più in profondità a rischio di apparire fuori tema. Per spezzarne la crosta tutta provinciale e tutta italiana che anche qui ci mette fuori campo rispetto all’Europa, ci si può chiedere innanzi tutto: che bisogno vi è di fare appello, a cominciare dal Consiglio di Stato, a concetti così pesanti come “civiltà”, “occidente”, “identità europea”, “radici storiche”, su un problema ormai tanto residuale e provinciale dell’italietta di sempre? Perché mai il ministro della Pubbilca Istruzione di un governo avventurosamente bellicista e del tutto sordo agli appelli pacifisti della Santa Sede deve utilizzare croci e calvario come sassi da lanciare nell’avanspettacolo del nostro teatrino politico scomodando i santi in paradiso? E infine: che titolo morale ha questa classe dirigente e di governo che sta perdendo il senso dei confini tra legalità e illegalità, tra democrazia e populismo mediatico, di dibattere su temi etici, culturali e storici che la travalicano? Perché insomma, in un momento così carico di tensioni e gravido di conflitti, si tenta di confondere le idee,  di mettere a disagio laici e cattolici, di intorbidare emozioni e depistare giudizi?

E’ il segno dei tempi, si dirà. E questi tempi sono quelli dell’improvvisazione, della menzogna, della manipolazione della comunicazione e delle istituzioni, della sistematica confusione tra interessi privati e funzioni pubbliche che degradano la vita politica e fanno emergere una cultura fragile, provvisoria, fuorviante a cominciare dall’uso del tutto aprossimativo delle parole e dei concetti che vi soggiaciono.

Occidente, civiltà, identità storica, radici culturali sono concetti che oggi vanno maneggiati con estrema cautela e che forse potrebbero anche essere archiviati senza tragedie. Che nel XXI secolo l’idea di Occidente (rimanipolata dalle correnti decliniste del XX secolo) possa coincidere con il credo crisitiano in netta contrapposizione con altre dimensioni religiose e spirituali è per lo meno azzardato: quel che valeva per i tempi di “Maometto e Carlomagno” oggi non vale più. Per Occidente si intende oggi comunemente l’area (in via di progressiva mutazione) dei paesi Nato la cui coesione non è il credo religioso ma la tutela di una assetto politico-militare alternativo al campo socialista che non esiste più: questo concetto simbolo può del resto essere archiviato.

Quanto all’idea di civiltà (civilisation), esso prende forma nel corso del XVIII secolo nell’Europa dei Lumi ed è il risultato di un riblatamento del dibattito tra antichi e moderni che accompagna il coroso della modernità (secoli XIV-XIX). Civilisation/civiltà sta ad indicare quell’innalzamento della storia universale ( una storia progressiva e tutta eurocentrica) che coincide proprio con il processo del disincanto, con il cammino di laicizzazione e di emancipazione dell’uomo dal condizionamento delle credenze religiose e dall’uso politico della religione e dedi suoi simboli. In questo paradigma storiografico (ma anche mitografico) la “civiltà cristiana” da Machiavelli a Vico a Voltaire a Troeltsch a Sombart e Weber altro non è che il ciclo storico premoderno. Da tempo ormai l’uso del termine di “civiltà” si intreccia con quello assai più problematico e denso di “cultura/culture”.

Quanto poi ai problemi suscitati nel dibattito di un uso pubblico (quindi politico nel senso ampio e alto del termine) del crocifisso come simbolo di “identità culturale”, non è chi non veda che esso è mal posto perché confonde l’idea di comunità spirituale (maggioritaria o minoritaria poco conta) con quello di società civile e cioè di coesistenza pacifica e democraticamente contrattualizzata della totalità dei cittadini.

Hanno fatto infine capolino, in questo sgangherato lessico politico-ideologico del nostro ottobre rosso, le espressioni di “identità nazionle” e di “radici storiche” quale causa e motore di una obbligazione all’esposizione del “povero” Cristo (è il caso di dirlo). Più che una forzatura è uno straflacione. L’identità nazionale (se davvero ancora di nazione si può correttamente parlare nel XXI secolo) i suoi simboli già li ha e anzi li deve rinnovare: al tricolore ci corre l’obbligo di sostituire, e alla svelta, la bandiera stellata dell’Unione. E quanto alle “radici storiche” di simboli e valori, gli storici (chiamati direttamente in causa) sanno bene ormai che la storia non è “maestra di vita” (semmai e la vita che illumina il passato), sanno che le vere radici sono nel presente e nel faticoso, quotidiano impegno di manutenzione e testimoninaza di quei valori profondi che non hanno radici storiche perché vanno ben oltre la “storia” proprio perché sono i valori trascendenti che appartengono all’uomo e all’humanitas. 

Che una settantina di parlamentari, tutti a libro paga dei contribuenti, magari capitanati dalla Lega così fiera della sue radici celtico-druidiche, trovino modo coi tempi che corrono di attivarsi su questo tema rinfocolando antiche e residuali polemiche lo trovo vergognoso.

Lo trovo vergognoso perché non solo mette a nudo un così basso livello di cultura politica, ma perché alimenta una menzogna o quantomento un nascondimento. Il nascondimento, frutto delle manipolazioni mediatiche di concetti e simboli, di spettacolare improvvisazione e di provocazioni non certo etiche, sta nel fatto che tutto questo rumore sui fondamenti etici della nostra “civiltà”, “cultura”, “nazione” avviene in presenza di una classe dirigente e di governo che si fa un vanto di aver archiviato la “questione morale” in omaggio ai principi di un pragmatismo efficientista che non tollera nessun ostacolo sulla sua strada. Soprattuto tace e cela il vero nocciolo del problema: la radicale dissimmetria (ed è una novità “storica”) della politica estera del Governo della Repubblica rispetto a quella della Città del Vaticano. Come è conciliabile la goffa e pertinace posizione bellicista del Premier e del governo sul problema dell’Iraq con e della crociata secolare a tutela degli interessi americani nel mondo con il messaggio nobile e sofferto del Pontefice rappresentante di Cristo in terra? Mai una contapposizione così netta tra pace e guerra (non importa se preventiva) è stata ed è sotto gli occhi dei cittadini laici e cattolici del nostro Paese e al vaglio delle loro coscienze. In questo clima di violenze annunciate, di sopraffazioni e di rapido imbarbarimento delle regole della convivenza internazionale,  di cattivo uso delle isituzioni e della comunicazione mediatica, l’uso politico del simbolo del crocifisso pare più un sasso lanciato contro il calvario delle nostre coscienze che un richiamo ai valori profondi che vi si agitano. Penso dunque che all’insegna del comune buon senso e all’antico adagio “scherza coi fanti, ma lascia stare i santi”, questo dibattito possa e debba essere sollecitamente archiviato.

Tratto da "Il Nuovo" 25 settembre 2002

 

 

Il crocifisso tra Coca Cola e Microsoft

Riccardo Bonacina

 

Non siamo un giornale cattolico, non c'interessa il dibattito infra-ecclesiale, eppure le polemiche suscitate dalla proposta di legge che vorrebbe il crocefisso per decreto e come simbolo di civiltà, e le reazioni che l'idea ha suscitato sono interessanti.

Come raccontatori delle vicende sociali di questo Paese non possiamo non notare e sottolineare importanti novità nell'associazionismo e nei movimenti cattolici italiani. Una presenza sociale, quella dei cattolici che per la prima volta sembra emanciparsi con decisione dalla scomparsa del “partito cattolico” e dal carisma, anche mediatico, del Pontefice. Siamo di fronte ad un mondo cattolico che ridà segni di presenza e di vitalità unitaria nella vita sociale e politica del Paese, rivendicando come nessun altra aggregazione e cultura, l'autonomia del sociale, delle aggregazioni sociali, e la loro libertà, la loro indipendenza dai recinti della politica e della bipolarizzazione partitica. Si pensi, solo per registrare i più recenti avvenimenti, all'aggregazione di Retinopera, luogo di riflessione politico-culturale, alle Sentinelle del mattino, cartello sui temi della pace e della globalizzazione, all'unità con cui si sta sostenendo il percorso della Cisl. Episodi e percorsi che hanno aggregato una sessantina di movimenti e associazioni, da Pax Christi alla Compagnia delle Opere, dall'Azione Cattolica alle Acli, dai Focolarini al movimento sindacale.

Nella ritrovata vitalità ed unitarietà di questo mondo cattolico si legge un attaccamento inusuale alla realtà delle cose al di là delle gabbie interpretative ideologiche, un'indubbia capacità di chinarsi sui bisogni, una rinnovata capacità di leggerli e di rispondervi. La vicenda immigrazione è davvero molto istruttiva: la marea di iniziative, di sportelli, traduzioni, uffici, patronati, famiglie, imprenditori, politici cattolici che si sono rimboccati le maniche di fronte a un bisogno e a una legge odiosa e inefficace.
Un mondo cattolico e plurale, per storia e per accenti, che anche sulla vicenda crocefissi ha saputo dire qualcosa di interessante. Nelle sue espressioni più presenti e vere ha fatto spallucce, quando non protestato, di fronte a un “crocefisso obbligatorio”, a un “crocefisso per decreto”. Perché? Perché il loro è un cristianesimo minimalista? Perché la loro è una fede annacquata? Perché la loro è un'esperienza di chiesa confusa? Perché il loro è un ecumenismo panteista o gnostico?

No. E' significativa la reazione dei missionari saveriani, che hanno detto: “Il recente dibattito attorno alla proposta di legge che intende rendere obbligatoria l'esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche e in tutti gli uffici pubblici ci interpella direttamente come missionari. Non possiamo oggi esimerci dal manifestare la nostra contrarietà ad una proposta che intende ridurre Gesù sulla Croce ad un mero “simbolo della civiltà e della cultura” dell'Italia e dell'Europa” Altro che simbolo, i missionari ci dicono che proporre la croce nei termini di “simbolo culturale del continente europeo” è una pazzesca riduzione che dovrebbe fare orrore per primo proprio ai cattolici. Insomma i cattolici che continuano ad essere presenti nella società e curvi sulla (secondo gli insegnamenti di Madre Teresa) realtà (dove la croce è esperienza viva incontrata ogni giorno, a New York come a Bagdad) avvertono bene il tranello culturale, che vorrebbe costringere il cristianesimo a un logo culturale tra gli altri. Un logo che insieme alla Coca Cola, a Microsoft, al denaro, come avverte René Girard, sono oggi alla radice del " risentimento" di gran parte del mondo. Il Crocefisso come mito tra i miti dell'occidente, Il cristianesimo come vessillo in una battaglia di civiltà utile solo ai petrolieri texani.

Hans Von Balthasar, grande teologo, osò un parallelo tra il primo cristianesimo e quello contemporaneo che oggi risuona come invito. Scriveva: “quella dei primi cristiani era una civitas ancora libera dall'immagine clericale di fortezza assediata, logorata dal conflitto con il potere, era un cristianesimo che ancora pensa rivolto agli spazi illimitati delle genti e che ha ancora la speranza della salvezza del mondo, di tutto il mondo”. Insomma un cristianesimo che non si lascia ridurre a un simbolo e che oltre alla croce sappia testimoniare a tutti l'esperienza della resurrezione, l'esperienza di una vita che vince la morte.

Tratto da "Vita" 26 settembre 2002


 

Il crocifisso sta bene nelle chiese, tutto il resto lasciamolo a Cesare

Giorgio Montefoschi

 

Come cristiano, o aspirante tale, anche con il conforto dei «Sermoni» di Meister Eckhart (Ed. Paoline), guardo con perplessità alla disputa sul crocifisso a scuola, che secondo il mio parere non dovrebbe esistere. I credenti formano una comunità: la Chiesa. La Croce, il segno fondamentale della religione cristiana nella differenza con le altre religioni monoteiste, perché ricorda il sacrifico di Dio fatto uomo e prospetta la sconfitta della morte, viene meditata e onorata nei luoghi di culto: le chiese. Lo stato italiano è uno stato laico: una comunità che si fonda su valori laici. Anche se alcuni partiti politici si richiamano a valori cristiani, questo non vuol dire nulla. Sono solo «alcuni» partiti; e il complesso della società civile vive e, di tanto in tanto, si confronta, si modifica e si giudica, rinnovandosi, sulla base di principi laici. I fondamenti della fede cristiana sono invece immutabili. Per evitare confusioni indebite, più degli altri i cristiani dovrebbero difendere la laicità dello Stato.
In un Sermone bellissimo, Meister Eckhart, commenta il passo evangelico in cui Gesù entrò nel tempio e scacciò i mercanti. Cosa dice il grande teologo domenicano? Dice che il Tempio è un simbolo dell’anima. Gesù, quando entra nell’anima dell’uomo, la vuole vuota, tutta per sé. I mercanti, rappresentano le cure umane, i pensieri, non necessariamente condannabili, che ci legano alla terra. Per rivelarsi come «Verbo del Padre», «Sapienza infinita», «Dolcezza e Pienezza infinite», Gesù chiede di essere solo. In un’aula scolastica, con le molte idee che dovrebbero circolarvi, non lo sarebbe. Né è pensabile ridurre un incontro così vitale e profondo a un oggetto attaccato al muro.

Tratto da "Il Corriere della Sera" 24 settembre 2002

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