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Bologna 10 luglio 2001

Alcuni giorni fa l’amico Robert Hochgruber ha diffuso un comunicato stampa in cui riassume la conferenza che Alex Langer tenne, in lingua tedesca, nel 1969 (sì, 32 anni fa!, nel 1969) sul concetto di “democratizzazione” della chiesa. Il testo in tedesco lo si può trovare nel sito Internet: www.we-are-church.org/suedtirol.

Un grazie agli amici Franco Borghi (franco.borghi@fbitc.it) e allo stesso Robert Hochgruber (InitiativGruppe-KVB@dnet.it) che mi hanno inviato l’originale n.119 del Novembre 1969 della rivista “TESTIMONIANZE” (la rivista dell’indimenticabile padre Ernesto Balducci) che alle pagine 795-814 riporta la traduzione in italiano della succitata conferenza, traduzione che fu fornita alla rivista TESTIMONINZE dallo stesso Langer.

Trascrivo con lo scanner queste pagine e le invio a tutti come motivo di riflessione. Si può essere o non essere in accordo con l’analisi di Langer: è comunque innegabile che nel suo complesso questo argomento è tuttora di grandissima attualità.

Sarebbe bello se ogni persona che costituisce il “popolo di Dio” – avendone pieno diritto essendo in effetti un “pezzetto di Chiesa” - potesse esprimere e far valere ciò che ne pensa.

Shalom a tutti, ma proprio a tutti, anche a chi ha dimenticato il Concilio Vaticano II!

                                                       Domenico Manaresi

N.B. Le sottolineature in grassetto sono del sottoscritto.

Mitt. Domenico Manaresi - via Gubellini, 6 - 40141 Bologna - tel&fax 051-6233923 – e-mail: bon4084@iperbole.bologna.it

 

Contro la falsa “democratizzazione” della chiesa

L'amico Alexander Langer, che ha già offerto buoni contributi alla nostra rivista, ha partecipato nel maggio scorso al congresso della Paulus‑Gesellschaft (l'associazione cattolico‑marxista che promuove confronti culturali ad alto livello) tenutosi a Tubinga, sul tema “Strutture autoritarie nella chiesa e nella società ‑ Strategia per la loro modificazione”. Il Langer con la relazione che qui pubblichiamo si è collocato in quel gruppo di interlocutori (tra di essi il noto e contestatissimo teologo tedesco Hubertus Halbfas) che ritengono ormai fuori stagione un certo tipo di congressi che mirano al 'confronto' tra il cristianesimo e le varie ideologie.

La riflessione del Langer ci trova concordi nelle istanze da cui muove e nelle conclusioni a cui giunge. Per conto nostro preferiamo scoprire l'arretratezza e la contraddittorietà  delle istituzioni ecclesiastiche con un metodo più direttamente teologico che le ponga in confronto critico con lo statuto scritturistico della chiesa e in secondo luogo con le linee di fondo della dottrina conciliare. La nostra preferenza si basa sulla convinzione che le categorie sociologiche non sono adeguate ad una verifica sicura della conformità della chiesa storica con il suo intimo essere, né ad un progetto di riforma capace di restituirle per intero la sua 'originalità'. E tuttavia l'approccio sociologico è indispensabile per fornire la comprensione dei modi e della misura con cui la chiesa è rimasta imprigionata nel sistema delle forze storiche strutturalmente ostili alla piena libertà dell'uomo. Le risultanze di questo tipo di analisi rimandano necessariamente alla Scrittura e alla dottrina conciliare obbligando però all'uso di una ermeneutica nuova da cui nemmeno la teologia potrò ormai prescindere.

La traduzione della conferenza — presentata al congresso in lingua tedesca—ci è stata fornita dallo stesso Langer, il quale è, come molti nostri lettori sanno, un esponente del movimento altoatesino che propugna, su basi sociali e culturali avanzate, il superamento del dualismo dei due gruppi linguistici, reso rigido anche da una passiva subordinazione della chiesa alle passioni etniche. La conferenza, in alcuni momenti, risente con evidenza del particolare clima in cui il nostro amico conduce avanti la sua lotta.

Da “TESTIMONIANZE” N. 119

Novembre 1969

 



Lasciare ogni speranza?

 

Certamente si può essere dubbiosi se oggi abbia ancora un senso occuparsi di rinnovamento, “ democratizzazione ”, riforma, ecc. della chiesa (o delle chiese; qui mi limiterò a considerare la situazione di quella cattolica, pur ritenendo in linea generale applicabile il discorso anche alle altre chiese, magari in misura minore). Si potrebbe obiettare p. es. che l'atteggiamento obiettivamente conservatore e spesso reazionario della chiesa storicamente risulta così evidente da condannare “ a priori ” ogni speranza di rinnovamento ed ogni tentativo in quella direzione. Tale sfiducia potrebbe essere condivisa anche da cristiani che di per se non vorrebbero rinunciare alla chiesa tout court o magari a questa chiesa addirittura e che non se la sentono di buttarla a mare. Una seconda obiezione, questa forse maggiormente di provenienza “extra‑ecclesiale” (ma non esclusivamente, e posto che la distinzione possa farsi), potrebbe voler mettere in guardia contro l’autoillusione o contro l'eccessivo narcisismo di quell’istituzione “ chiesa ” che in fondo per i processi storici di ampio respiro nel nostro tempo riveste scarsa rilevanza; si potrebbe cioè sostenere che la trasformazione del mondo avverrà anche senza e al di là delle chiese, e volersi allora occupare ancora di un loro rinnovamento potrebbe rivelarsi preoccupazione ridicola e provinciale.

A queste due serie obiezioni, e ad altre pensabili, vorrei provvisoriamente contrapporre due argomenti.

In primo luogo il rinnovamento di questa chiesa e l'avvicinarla alla sua missione di testimonianza e profezia per dei cristiani credenti che in essa nonostante tutto vedono considerevoli vestigia della comunità di Cristo è una esigenza autentica. Questi cristiani credenti almeno vogliono esperire tutti i possibili tentativi prima di rassegnarsi a constatare che ogni sforzo e vano. Personalmente condivido attualmente questa posizione.

In secondo luogo però vi è anche un altro argomento da prendere in seria considerazione, e questa volta per niente fideistico: visto che la chiesa esiste e visto che non c'è da sperare in una sua rapida scomparsa (senza organizzazioni succedanee), si può almeno tentare di modificarne l'attuale presenza in modo da superare la sua opera obiettivamente frenante e repressiva nella società e mettere il suo potenziale umano ed “ideologico” a servizio di obiettivi diversi da quelli sinora serviti.

Personalmente mi rendo conto dei limiti che questa seconda posizione - eminentemente tattica - comporta; credo però che anche la scelta tattica possa essere condivisa, quando le nuove posizioni cui si vuole arrivare siano più vicine all'Evangelo di quelle vecchie, che chiaramente non lo sono.

Con tutta provvisorietà, dunque, ritengo di dover dare risposta affermativa al quesito se abbia ancora senso occuparsi di rinnovamento della chiesa, e che non sia quindi da lasciarsi ogni speranza.

 

Una chiesa anacronistica

 

In una società che nel complesso (parlo prevalentemente della società sviluppata in cui ci troviamo inseriti) tende a muovere sempre ulteriori passi verso la sua emancipazione, e nella quale gli elementi della democrazia, della partecipazione, dell'autonomia responsabile, del dialogo, della partnership ecc. assumono un valore spesso indifferenziato, ma comunque inconsapevolmente notevole, è chiaro che le chiese (e specie quella cattolica, essendo la più antica e la meglio organizzata) diano in qualche maniera l'impressione di trovarsi “ fuori del tempo ”. È questa, una critica frequente e superficiale che molti rivolgono alla chiesa; ma è chiaro che il rimprovero che si basa sull'“anacronismo ” di per sé non è molto profondo, né porta a sviluppi del discorso. Tuttavia la crisi diffusa che coinvolge tutte le strutture consolidate nel nostro tempo e che spesso parte da constatazioni cosi banali come quella dell'anacronismo, nella chiesa trova un focolaio di immediata e facilmente verificabile evidenza. Se nella “ società profana ” (specie nei paesi più progrediti), studenti rivoluzionari, sociologi, insegnanti, giornalisti, sindacalisti e politici fanno fatica a smascherare la mistificazione spesso assai abile sotto la quale si celano strutture autoritarie ormai razionalizzate ed apparentemente indolori, e se spesso la base popolare ben addormentata e sapientemente ingannata non riesce a intravedere i reali rapporti di potere e di subordinazione, nella chiesa le strutture autoritarie e di potere, ormai cristallizzate in secolari incrostazioni, sono di una tale allarmante evidenza che facilmente possono essere percepite anche senza grandi sforzi di analisi. Certo, i sintomi che colpiscono talvolta di più l’opinione pubblica o gli stessi fedeli, non sono nemmeno sempre i più gravi; tuttavia ormai si può dire che nella chiesa l'insofferenza verso situazioni insostenibili si generalizza sempre più, ed il conflitto con una struttura autoritaria e rigida è sotto gli occhi di tutti; basti pensare a recenti fatti di cronaca che sembrano avvenuti apposta per confermare una critica insofferente — ma spesso generica—verso la chiesa “ anacronistica ”: che si tratti della Hamanae vitae o del dibattito sul celibato, del cardinale Siri o Florit, dell'“Osservatore Romano ” o della crociata contro il divorzio, del governo della chiesa o della regolamentazione della liturgia, ecc.

In verità sono però ben più profonde, ovviamente, le ragioni dell'inquietudine nella chiesa, ed anche di quell'inquietudine che non sgorga dalle forze vive della chiesa stessa, ma da ragioni per cosi dire, esterne ed obiettive. Non è qui il luogo per analizzarle, ma basti richiamarsi in mente la profonda insicurezza che pervade tante strutture (esterne ed interne) della chiesa in seguito al crollo della fondazione aristotelico‑tomistica di un sistema dottrinale e di potere, alla coincidenza mancata della chiesa cattolica (da circa quattrocento anni) con la storia culturale contemporanea nelle varie epoche, alla tecnicizzazione e alle dimensioni di massa del mondo d'oggi, alla incipiente liberazione di molti uomini e gruppi da secolari tutele, per comprendere questi ed altri fattori non possono più essere scongiurati con alcun esorcismo né con alcuna scomunica, e tantomeno possono essere ignorati con abili manovre diversive. È altrettanto noto che la chiesa nelle sue strutture “ sociali ” (organizzazione della collettività ecclesiastica) si trova con circa due secoli di ritardo rispetto allo sviluppo della “ società profana ” in Europa, e che solo in questo secolo essa inizia a far proprie le esigenze delle prime monarchie costituzionali.

Il disagio provocato da tutti questi ritardi ed “ anacronismi ” doveva per forza ripercuotersi prima o dopo anche sul processo di presa di coscienza all'interno della gerarchia ecclesiastica; tale presa di coscienza ha avuto—a livello di gerarchia— sinora il suo momento culminante nel Concilio, dove una certa presa d'atto della situazione reale è avvenuta e dove la gerarchia ha risposto con una riflessione che—vista a distanza di qualche anno—pare addirittura più avanzata rispetto al reale livello di consapevolezza che era ed è presente in chi materialmente ha presa le deliberazioni conciliari, pur in sì non proprio strabilianti per audacia o novità.

Conosciamo comunque la risposta che il Concilio (specie nella Lumen gentium) ha dato in teoria: spunti per una nuova “autocoscienza ” della chiesa sono stati elaborati, ed anche ufficialmente si cominciò a parlare di “ popolo di Dio ”. Da qui prenderanno le mosse le seguenti riflessioni sulla “ democratizzazione ” della chiesa.

 

Complessi d'inferiorità

 

Nei primi passi verso la realizzazione—assai parziale, sempre ostacolata e vista dall'alto con molta diffidenza—di quest'idea del “popolo di Dio ”, si sono manifestati, a mio avviso, con rinnovata evidenza alcuni complessi d'inferiorità ecclesiastici. I tre più importanti di questi complessi mi sembrano essere i seguenti:

la chiesa risultava essere un'istituzione dominata dalla casta del clero, facendo distinguere dunque con cristallina chiarezza il ceto dominante da quello dominato (le stratificazioni all'interno della clerocrazia qui non hanno rilevanza), come nel resto della società difficilmente avveniva ancora. La distinzione castale dei duo genera christianorum era di una cosi evidente unilateralità che essa non poteva non provocare disagio e reazioni;

—la discrepanza fra la politica intra‑ecclesiastica, in cui si perpetuavano più o meno le pratiche di governo delle monarchie di un tempo, di stile assolutistico e di polizia, e la liberaldemocrazia nel frattempo creata dalla borghesia occidentale, doveva pure ripercuotersi, se non si voleva rinunciare anche alla borghesia nella chiesa per ritirarsi sui residui bastioni della società feudal‑agraria;

—la concorrenza di un mondo tecnocratico e razionalizzato, volto verso l'efficientismo (particolarmente nel mondo economico, nei mass-media, ma anche nel sistema d'istruzione), denunciava in un modo per molti insospettato l'obsolescenza del millenario ed in fondo sempre funzionante apparato ecclesiastico.

Di fronte a questi complessi di inferiorità, cui altri potrebbero facilmente essere aggiunti, molti hanno creduto di dover reagire “democratizzando ” la chiesa. Anzi, una buona parte di “ progressisti ”—ai vari livelli, ma specie tra il clero più giovane e tra i “ laici impegnati ”—con molta convinzione porta avanti il discorso sulla “ democratizzazione ” della chiesa (nei paesi dell'area culturale germanica—Germania, Austria, Svizzera, Olanda: da, talvolta anche nel mondo anglosassone, ecc.—questa tendenza è molto diffusa; in Italia in parte non è ancora venuta alla superficie per il maggiore disinteresse verso la chiesa e la maggiore capacità di resistenza delle vecchie strutture). In pratica la cosiddetta “democratizzazione ” che spesso si rivendica o si attua, si manifesta cosi:

a) lo strato esclusivamente clericale di funzionari ecclesiastici viene arricchito di alcuni o molti “laici ”, ai quali il clero (tra l'altro in fase di diminuzione quantitativa) cede una parte del suo potere, ottenendo in cambio l'adeguamento di questi “ laici ” ai propri modelli di pensiero e comportamento. Nascono quindi i numerosi “laici impegnati a full-time ” o “ funzionari‑laici ”, la cui presenza ed il cui numero da taluno mene valutato come indizio di una chiesa più “democratica ”. Pare che non ci si voglia accorgere come in questi casi il principio della distribuzione e dell'esercizio del potere ecclesiastico ed il conseguente “ clericalismo ” non si modifichino affatto; e riflessioni più profonde, magari teologiche, non si vogliono arrischiare.

b) Si vuole colmare la discrepanza verso le strutture politico-istituzionali mondane introducendo anche nella chiesa (come al solito in ritardo, naturalmente) cosiddetti elementi “ democratici ” o rappresentativi, che nei casi più audaci si possono intendere quale ricupero dell'esperienza liberaldemocratica e parlamentare borghese (“ consigli di laici ”, consulte e consigli vari, liberalizzazione della stampa ecclesiastica, aggiornamento esteriore e timidi approcci verso principi di rappresentatività...) o quale codificazione di un nuovo e forse anche più liberale—o almeno più razionale—formalismo canonico con l'ausilio del quale la nuova “borghesia” (=terzo stato) ecclesiastica intende garantirsi il mantenimento delle sue conquiste. Tale “ terzo stato ” nella chiesa oggi potrebbe essere visto nei “ laici impegnati ”, nei teologi e sacerdoti scontenti o desiderosi di contare di più, ecc., e le loro tipiche rivendicazioni in una certa fascia di riformismo vanno infatti in tale direzione: si vogliono sistemi elettorali più rappresentativi (il miraggio della proporzionale, che obiettivamente costituisce un progresso rispetto al principio monarchico-corporativo attualmente dominante), un sistema di garanzie processuali e ricorsi contro abusi curiali, ecc. — tutto sommato un garantismo ancora formalistico e qualitativamente non più vicino all'Evangelo del precedente assolutismo o paternalismo.

c) Il ritardo infine delle istituzioni ecclesiastiche sotto il profilo dell'efficienza razionalizzata e forse tecnologica viene ricuperato attraverso la conquista della “ modernità ” che comporta indubbiamente delle strutture e degli strumenti esteriormente nuovi e più razionali. L'uso dei metodi tipici dell'economia e delle grandi aziende (ricerche di mercato, indagini sociologiche, parziale uso della psicologia...), la ricerca di managers ecclesiastici, il servirsi di televisione, radio, stampa più “ moderna ” (cfr. le vicende di “Famiglia cristiana ”, p. es.), le tecniche di public‑relations, l'aggiornamento in senso efficientistico delle istituzioni culturali e caritative, ecc., testimoniano della preoccupazione della chiesa di recuperare terreno laddove prima un certo tipo di ascetismo oppure il sempre latente oscurantismo avevano precluso certe strade.

Il conglomerato di un simile “ attivismo laicale ”, giuoco parlamentaristico e razionalizzazione aziendale (che non possono in questa sede essere ulteriormente analizzate), agli occhi di molti passa per “ aggiornamento ” o “ democratizzazione ” della chiesa, ed infatti molti cosiddetti “ cristiani adulti ” oggi si muovono anche con entusiasmo verso questo tipo di conquiste. Tale riformismo è, a mio giudizio, forse ancora più pericoloso dell'atteggiamento reazionario ottuso tipico della curia romana e degli esemplari più retrivi della gerarchia ecclesiastica, poiché rischia di deviare uno slancio ed una tensione seria verso obiettivi trascurabili e comunque non qualificanti. L'esperienza attuale del cattolicesimo italiano ufficiale più avanzato (certi settori dell'azione cattolica, p. es.) va proprio in questa direzione, ed anche numerosi vescovi e preti tendenzialmente “ aperti ” camminano, in fondo, su questa via.

 

Democratizzazione perché?

 

In effetti le manovre di adeguamento o integrazione sopra accennate non toccano né la sostanza delle strutture autoritarie di potere nella chiesa, né—e ciò è più grave—la funzione della chiesa nel mondo, e rappresentano quindi un riformismo altamente mistificante.

Ma chiediamoci cosa si vuole quando si parla di “democratizzazione ” della chiesa, o cosa intenzionalmente si potrebbe volere.

Secondo me una possibile “ democratizzazione ” della chiesa può volere solo una globale trasformazione delle strutture e dei comportamenti intra‑ecclesiali, con l'obiettivo e la prospettiva di rendere la chiesa veramente capace di adempiere alla sua funzione di servizio all'umanità. Solo in questa prospettiva “funzionale” la modificazione della situazione intra‑ecclesiale ha qualche senso, poiché al di fuori di essa cristiani e non‑cristiani potrebbero in fondo rinunciare a voler ancora emendare una chiesa che tutto sommato potrebbe sembrare irrecuperabile. Se invece si crede in una funzione della chiesa verso l'umanità, allora mi sembra di rilevantissima importanza che la chiesa sia una comunità in fraternità nella quale Dio possa essere conosciuto come l’Incarnato; che i “ segni ” attraverso i quali una simile comunità si esprime e si ordina rendano il più trasparente possibile il significato da essi inteso e che le concrete strutture si misurino via via sulla coscienza ecclesiale teologicamente fondata e che col cambiare e progredire di essa anche le strutture storicamente si modifichino e progrediscano. La comunità cristiana ha una missione di annuncio, che oggi spesso può essere sentito o compreso unicamente attraverso il modo della sua presenza e della sua realtà esperibile e verificabile da tutti. Non si può dire che “ in fondo ” le strutture della chiesa o il dato fenomenico poco importano, e che “ in sostanza ” è la natura della chiesa che conta: è veramente un chiedere troppo alla capacità di immaginazione degli uomini se si pretende che essi credano al messaggio nonostante e contro l'evidenza di quella comunità che nel messaggio evangelico si dichiara amministratrice!

Se quindi si chiede trasformazione o, per restare allo slogan, “democratizzazione ” della chiesa, ciò avviene non certo per imitare goffamente certe strutture statuali (come sembrano invece pensare quei monsignori che ci ammoniscono che la chiesa non si può democratizzare come la società civile...), né per liberarsi finalmente da un secolare ritardo storico e per poter magari presentare al mondo come nuovo alibi un aggiornato tipo di societas perfetta. Nemmeno, in fondo, per estendere finalmente anche alla chiesa quella tendenza verso la democrazia che il nostro tempo—grazie a Dio—contiene, e che certamente nella chiesa è ancora di là da venire. No, dalla chiesa e dalla sua “democratizzazione” è chiesto molto di più, e le ragioni sono ben più profonde. Vedremo che lo sviluppo delle implicazioni potrebbe diventare molto pericoloso per l'attuale istituzione ecclesiastica

 

a) De‑istituzionalizzazione

 

Per rendere più chiaro il discorso concentrerei l'esigenza che comunemente si cela dietro allo slogan della “ democratizzazione ”della chiesa su tre linee fondamentali: de-istituzionalizzazione della chiesa; ricerca di una sua nuova collocazione pastorale e sociologica; realizzazione della sua funzione verso il mondo.

Esaminiamo in primo luogo l'aspetto della de-istituzionalizzazione. Contemporaneamente al crollo della metafisica, del pensare in termini di assoluto delle certezze fondate sull'autorità, anche tutta una serie di categorie collaterali devono lasciare libero il campo; per esempio la trasferibilità delle pretese assolute dalla dottrina alle strutture ecclesiastiche, la distinzione ben fissata e la tradizionale complementarità fra sfera spirituale e profana, fra preti e laici, fra chiesa e mondo, fra il privato e il pubblico, fra ' dentro ' e ' fuori ' della chiesa...: tutto ciò aveva la sua collocazione predeterminata e precisa e la competenza ad esprimere “ la dottrina della chiesa ” oppure “ la opinione cattolica ” con validità generale verso tutti, aveva precisi titolari. Si sapeva chi apparteneva alla chiesa e chi non, e quando “ la chiesa ” aveva parlato. Una mentalità legalistica fondata sulle categorie del diritto romano pretendeva di imprigionare l'inafferrabilità della comunità che attende e testimonia il Signore entro criteri controllabili e verificabili (sempre salva la valvola di sicurezza del “ foro interno ”).

Anche un certo tipo di insistenza sulla continuità e specialmente sull'unità della chiesa, pur apparentemente così soprannaturale e spirituale, in fondo non faceva riferimento ad altro che all'istituzione.

È difficile esprimere cosa qui si voglia intendere per istituzione: essa è una realtà organizzativa, ben costituta ed ordinata nella quale ogni attività propulsiva si ritiene automaticamente delegata al funzionariato e nella quale gli elementi necessarì sembrano essere soprattutto la gerarchia della burocrazia dispensando la comunità di base da un proprio apporto essenziale (ove venisse ugualmente sarebbe certamente accidentale, se non addirittura indesiderato ed ostacolato).

Finché la chiesa‑istituzione non sarà morta, ogni “democratizzazione ” secondo me resterà priva di senso e porterà a delle inestricabili contraddizioni. Finché il concetto di “ chiesa ” come astrazione (la cui concreta rappresentanza competeva secondo precise regole giuridiche all'apparato burocratico ecclesiastico) non sarà scomparso e finché al posto dell'istituzione chiesa con tutto il suo fasto e la sua obbligatorietà non subentrerà la comunità cristiana (che non si definisce per la sua adesione all'istituzione), una chiesa pur “democraticamente ” costituita ed ordinata resterà sempre ancora menzogna e presunzione. Essa infatti pretenderebbe ancora di cogliere delle situazioni fondamentalmente non verificabili con delle categorie inadeguate e di rappresentarle sotto la maschera di una “ autenticità ” che invece l'istituzione non può garantire.

Basti pensare ad alcuni interrogativi molto comuni. Chi è che parla “ a nome ” della chiesa? Chi è la chiesa intesa in questo senso? La chiesa‑gerarchia? Il clero ed i laici‑funzionari? La maggioranza di questi ultimi? O chi altro?

Solo quando ogni cristiano potrà diffusamente e senza riferimento ad un'istituzione astratta parlare parimenti “ per la chiesa ”—e quando di conseguenza una simile usurpazione di “autorevolezza ” diventerebbe superflua o comunque cadrebbe da sé—si potrà constatare la scomparsa della istituzione astratta. Allora scomparirebbe finalmente anche quella schizofrenia che attualmente tanto spesso si nota nel clero, e fra i vescovi in particolar modo, per cui professano opinioni diverse quando parlano “ in quanto ” uomo, cittadino, prete, vescovo, cristiano, e così via, o per cui almeno dicono le loro opinioni solo in certe circostanze e qualità.

La chiesa come istituzione astratta, priva di ogni comunità effettivamente partecipante e ricca solo di un apparato opprimente di fasto, potenza e dominazione, con i suoi funzionari giuridicamente legittimati, non può e non deve essere democratizzata, ma solo abolita.

Non ha senso quindi, ritengo, perfezionare e magari “liberalizzare ” o circondare di precise garanzie—come era stato chiesto da illustri teologi—le strutture e procedure dell'“ ex ” S. Uffizio: significherebbe ancora una volta voler avallare l'idea di strutture giuridicamente organizzate che pretendono di rendere verificabile e controllabile ciò che invece non può essere verificato e controllato—se non forse in maniera “ radicaldemocratica ” e, nella chiesa, carismatica.

Non credo che la chiesa, intesa una volta come comunità fraterna, possa rinunciare ad ogni elemento ordinatore; senz'altro sarà ancora in qualche modo “ costituita ”, ma anche qui la via ha da passare dal basso all'alto, e non può esservi ordinamento costituito prima che vi sia la comunità. Ed i ministri non dovranno mai perdere il loro riferimento alla comunità, e tutti insieme all'Evangelo.

In pratica evidentemente un simile cammino condannerebbe a scomparire ogni “opinione della chiesa”, finché essa non si sia “rifondata ”; e mi sembra chiaro che solo la comunità concreta, oppure una pluralità di comunità concrete (p. es. locali) potranno validamente esprimere posizioni, agire come chiesa, ecc. —mai l'istituzione in astratto o al vertice.

Mi sembra evidente che in una tale prospettiva ogni “democratizzazione ” dell'istituzione—che non superi l'elemento dell'apparato istituzionale—va rifiutata, anche se l'istituzione tenderà sempre più a “ concedere ” simili riforme pur di sopravvivere: si pensi alla “ riforma ” del diritto canonico, alla modernizzazione di certe istituzioni (i vari nuovi segretariati vaticani, p. es.), ecc. Solo ove l'identità della comunità cristiana ha effettivamente (e non solo in senso formaldemocratico o addirittura giuridico) raggiunto un grado che consenta l'astrazione (il parlare a nome di essa, p. es.), e dove non si pongono limiti burocratico‑giuridici insormontabili all'azione dello Spirito, una “costituzione” e quindi anche un “ ordinamento ” della chiesa ha senso e può essere accettato. Ma ciò al momento attuale si verifica in genere solo per piccole comunità di base.

La chiesa attuale invece è altamente istituzionalizzata, poiché la realtà della comunità dei fedeli ha solo una minima (spesso nessuna) identità col ministero ed ordinamento costituito, ed è al contrario fortemente sviluppato il tradizionale apparato che vive un suo automatismo di vita propria. I tentativi di ricupero che la struttura—ormai comunque in ritardo—compie, si rivolgono nella generalità dei casi solo all'obiettivo di suscitare un processo di interiorizzazione coatta, fondata sull'obbedienza alla struttura, con l'apparato sacralizzato vigente (il papa in testa): per colmare il visibile abisso fra struttura “ legale ” e “ reale ” si vuole (analogamente al riformismo civile) reintegrare il moto reale nell'apparato, magari qua e là modificato!

Si può fondatamente supporre che una chiesa non istituzionale nel senso qui accennato sia più vicina all'Evangelo di quella attuale: “uno solo è il vostro maestro, voi tutti però siete fratelli... ”. Basti pensare al modello delle chiese apostoliche.

 

b) Chiesa dei poveri e di base

 

Un secondo momento da considerare è il progressivo distacco tra la chiesa (attuale sedicente comunità dei credenti) e quei popoli o classi sociali cui la buona novella è dovuta principalmente i poveri cioè, nel linguaggio biblico, e coloro che soffrono lo sfruttamento, l'alienazione di ogni genere in linguaggio moderno. Già l'incomprensibilità del linguaggio ecclesiastico, i riferimenti socioculturali nel messaggio della chiesa, la sua collocazione storica fra i popoli ricchi della terra e spesso fra le classi agiate nelle singole nazioni, i suoi costanti e continui compromessi col potere politico, economico, militare, ecc. ne fanno una chiesa certamente né povera, né ordinata ai “ poveri ”. Anzi, i poveri nella nostra società si possono trovare nella servitú di molteplici alienazioni ed oppressioni, ma finora la chiesa è stata più che altro un efficacissimo fattore di integrazione, un comune punto di riferimento ad effetto interclassista, per consolare ed appianare contrasti— l'oppio dei popoli davvero—ed operava nel migliore dei casi piuttosto la “ carità ”attraverso le sue istituzioni, ma non dava con l'annuncio della lieta novella ai “poveri” una forza liberante e capace di portarli alla auto‑liberazione.

Ma qui entriamo già nel terzo punto da considerare, inerente alla funzione della chiesa verso il mondo, la società. È ora infatti di abbandonare quel narcisismo ecclesiale che porta a considerare i problemi della chiesa riferiti solo ad essa stessa, quasi fosse entità a sé, e pensare invece ad eventuali servizi da rendere agli uomini—se la chiesa deve avere ancora una funzione. In ogni caso quindi i discorsi sulle strutture ed il rinnovamento della chiesa sono puramente propedeutici, ed al limite inutili: anche una chiesa rinnovata serve solo nella misura in cui sappia promuovere il regno di Dio, servire l'uomo. In questo vedrei il suo ufficio profetico.

 

c) Ufficio profetico

 

Ci siamo abituati ad una chiesa che operava soprattutto come istituzione di una salvazione localizzabile, con un vasto apparato di riti, norme morali, strutture, dogmi che pretendeva di amministrare “ oggettivamente ” la salvezza del mondo. Anche le strutture organizzative e sacramentali della chiesa si intendevano oggettivamente operanti (ex opere operato), e quindi l'appartenenza alla chiesa veniva vista come via normale e principale alla salvezza. Obiettivo pastorale e ragione di presenzi nel mondo di una simile chiesa era, naturalmente, la propria propagazione missionaria, l'acquisizione di nuovi fedeli, o — in tempi più recenti—almeno la conservazione di quelli esistenti.

Certamente oggi la comprensione teologica rinnovata ha largamente superato il ritualismo ed automatismo della realtà di salvezza, e quindi assai relativizzato la necessità di appartenere alla chiesa istituzionale. Invece acquista nuovo rilievo l'ufficio profetico della comunità cristiana.

Parlando qui di strutture della chiesa, vorrei tentare di vedere l'ufficio profetico della chiesa sotto un angolo visuale particolare, cioè quello delle strutture stesse. Sinora le strutture ecclesiastiche sono state intese prevalentemente ad intra, per l'amministrazione cioè dei fedeli e dello stesso apparato. Verso la società la chiesa operava attraverso una molteplicità di strutture non propriamente “essenziali”, prevalentemente per assumersi compiti di supplenza che una società più avanzata può senza dubbio (e deve!) assumere in proprio.

Allora oggi la comunità cristiana, la chiesa, può rendere un servizio più urgente al mondo: può tentare di vivere in modo esemplare una comunità che realizzi nella sua vita e nelle sue strutture — testimoniandoli così efficacemente — quei valori nei quali dice di credere e che annuncia: la libertà, la fraternità, la dignità dell'uomo, la solidarietà, ecc. In questo caso ovviamente deve essere radicalmente ridotto all'interno della comunità cristiana l'abisso fra segno e realtà significata—anche se non potrà essere mai del tutto eliminato sinché il regno di Dio non si compia. Tendenzialmente comunque la coincidenza fra segno e valore, struttura e realtà deve essere il più possibile approssimata per rendere intellegibile la loro relazione anche per dei non‑iniziati. Solo allora l'annuncio sarà efficace e credibile.

Ma anche questa concezione nasconde un pericolo che qua e la tra i “ progressisti ” pare farsi strada (Olanda?): il pericolo di realizzare la “ società ideale ” nella comunità cristiana e di farne una specie di oasi evasiva, contenta di aver risolto in modo magari esemplare i problemi dell'uomo entro i suoi confini. L'uscio profetico della chiesa esige invece chiaramente che la comunità cristiana provochi con la sua testimonianza il confronto e la messa in crisi del “ mondo ”, creando inquietudine e tensione. “ Il fuoco ” può essere portato solo quando la comunità cristiana contribuisca ad evidenziare le contraddizioni e le ingiustizie della società, mediando impulsi per la lotta contro di esse.

È chiaro, ma va sottolineato, che questo modo di intendere l'ufficio profetico è strettamente collegato con quanto si è detto a proposito della deistituzionalizzazione e della chiesa “ dei poveri ”; una chiesa istituzionale e lontana dai poveri e dalla povertà non può essere profetica, e comunque sarebbe da combattere la tentazione di continuare l'annuncio nel consueto modo proprio all'istituzione, ma questa volta magari a “sinistra” invece che a “destra”.

 

In concreto

 

Vediamo di immaginare alcune conseguenze operative e concrete da quanto è stato sin qui proposto. Va tenuto presente che la chiesa (nuova) di cui ora si parla è la comunità cristiana la cui autocoscienza non risulta da un'istituzione pre‑esistente ed indipendente da chi la vive, ma che si inventa, si realizza e si comprende—aperta allo Spirito—continuamente. La “continuità” storica non dovrà impedire di porsi con atteggiamento aperto ed “inventivo ” di fronte alle strutture, alla fede, alla missione, ecc., della chiesa.

Chiaramente si constata che il passo da una chiesa burocratico‑gerarchica, istituzione autoritaria esistente, alla chiesa in cui crediamo, non sarà facile né automatico. Si pone qui il dilemma di ogni tentazione riformista: la politica dei piccoli passi? La lunga marcia attraverso le istituzioni? Rischiare compromessi o preferire comportamenti chiari ed univoci?

Non credo che si possano dare direttive generali e aprioristiche. La tattica in fondo rimane sempre funzionale, senza rivendicare mai un valore autonomo o assoluto. Tuttavia mi sembra che in una serie di ipotesi il riformismo sia da escludersi categoricamente, cioè quando`avrebbe effetto procrastinante o mistificante. Come un moralista che condanna la poligamia non può ammettere un graduale passaggio da dieci a nove, otto, sette... mogli (mi si perdoni l'esempio), così mi sembra inaccettabile la pseudo‑riforma della chiesa a piccole gocce che il papa e la curia attualmente paiono voler perseguire, ritoccando qua e là il fasto aristocratico del cerimoniale vaticano, semplificando qualche congregazione o commissione, modificando qua e là qualcosa nella liturgia, ecc. Simili mistificazioni bugiarde non possono essere accettate, ed ogni collaborazione a riforme di questo genere va—secondo me—rifiutata.

In generale sarà la concreta esperienza delle comunità a decidere sulla tattica. E sarà ancora l'esperienza a dimostrare se il rinnovamento sia esigenza solo di una piccola “ élite ” o invece capace di coinvolgere strati più larghi. Personalmente ritengo decisamente preferibile la “ popolarizzazione ” (si pensi all'esperienza della chiesa dell'Isolotto).

Per promuovere e sollecitare la deistituzionalizzazione della chiesa l'unico metodo in molti casi sarà quello del rifiuto, paragonabile all'obiezione di coscienza nei confronti del servizio militare nella società militarista. Per amore alla chiesa fraterna dovremo respingere ogni pronunciamento o manifestazione della chiesa istituzionale, disconoscendone la legittimità ecclesiale. Dovremo contribuire alla distruzione della chiesa quale apparato amministrativo, delle sue associazioni e dei suoi enti, della sua stampa ufficiale e degli edifici ecclesiastici, delle sue norme canoniche vecchie e nuove, ecc. Dovremo inventare nuovi modelli di comportamento fra membri della comunità (ed in particolare fra ministri e fratelli “ comuni ”) e smascherare e combattere nello stesso tempo criticamente gli elementi e le strutture autoritarie attuali, che ideologicamente vengono fondate già nella catechesi corrente, nel modo di praticare la liturgia, di presentare “ il sacro ”, ecc. Si tratterà di suscitare continuamente in tutti i membri della chiesa la coscienza, e la prassi conseguente, che siamo noi la chiesa, distruggendo nel contempo la legittimazione (esterna ed interna) che ancora oggi l'istituzione rivendica. Non si dica più “ la chiesa cattolica pensa, dice, ... ”: o simili attribuzioni si riferiscono alla istituzione attuale—ed allora è contestabile che Si tratti realmente di chiesa—oppure non hanno senso, poiché la chiesa ancora non esiste, non è in grado di esprimere prese di posizioni collettive. Certo, dovremo resistere alla tentazione di contrapporre all'usurpazione istituzionale di certuni la contro‑usurpazione (sempre ancora istituzionale) nostra: non vale opporre a chi sostiene in base alla Rerum novarum la proprietà privata dei mezzi di produzione l'opinione contraria basata magari sulla Populorum progressio, cercando di dimostrare che “ la dottrina sociale della chiesa ” è con noi; come può la chiesa avere una sua opinione o dottrina, quando non esiste come comunità? Sarà da vedere se una chiesa reale, non più gestita per conto proprio da una minoranza burocratica, vorrà ancora prendere posizione su simili problemi— in ogni caso c'è da supporre che le eventuali pronunce di una chiesa reale, di base non pretenderanno più impegnatività istituzionale e quasi dogmatica.

Distrutta la chiesa‑istituzione, scomparirà anche la crux et delitiae di tutti i formalisti ecclesiastici e civili, la separazione degli ambiti cioè, l'accurata distinzione dei campi in cui “ la chiesa ” è competente ed in quali invece no. La responsabilità assunta in proprio dalla fraterna comunità dei cristiani saprà —orientandosi alla sua storica comprensione dell'Evangelo— vivere ed operare anche senza ambiti formali, una volta che non si tratterà più di impegnare un'istituzione con le sue mosse.

Per non citare troppi altri esempi basti accennare ancora al lavoro ecumenico, che solo a causa dei molti riguardi verso le varie istituzioni coinvolte procede così lentamente ed ha bisogno di segretariati, commissioni, ecc., ed è, in compenso, completamente avulso dalla realtà di base. Anche qui la de‑istituzionalizzazione della chiesa imprimerebbe un moto ben diverso.

È chiaro però che questo processo di deistituzionalizzazione può partire solo dal basso ed esige anzitutto un'adeguata coscienza. Appare quindi decisamente mistificante il giuoco democraticistico che certe associazioni ora cominciano ad introdurre, rivendicando magari procedure elettive al posto di nomine dall'alto, maggiore presenza di laici, ecc., ma non rendendosi conto della necessità di un cambiamento qualitativo. Non è rilevante in primo luogo quale tipo di forme e strutture le comunità vogliano darsi (e non debbono essere sempre e necessariamente forme e strutture nuove), marche esse stesse le decidano e possano all'occorrenza cambiarle.

Non riesco a prevedere se i nuclei di una chiesa de‑istituzionalizzata saranno soprattutto di carattere locale (come p. es. le attuali parrocchie) o se i criteri saranno di altra natura. Non so rendermi conto se la testimonianza biblica—di una chiesa locale —abbia valore solo storico o anche attuale.

Per fare della chiesa una realtà veramente di base, ovviamente dovranno essere combattuti decisamente tutti i segni di fasto, potere e ricchezza, ed a questo proposito riterrei ammissibili e necessarie anche forme particolarmente massicce e decise di contestazione (p. es. astensione collettiva dalla liturgia e dall'eucaristia, dimostrazioni pubbliche, confisca ed alienazione di oggetti “ sacri ” da parte della comunità, ecc.,, per liquidare al più presto simili fenomeni di degenerazione ed infedeltà. Non si tratta, credo, di altro che di presupposti elementari.

Lo stesso si può dire riguardo a quelle strutture della chiesa (e sono la maggioranza) che sono copiate dalla società profana, in genere di qualche secolo passato, e che rinnegano apertamente l'Evangelo. Nella Scrittura certe forme di esercizio del potere vengono rinfacciate ai re dei pagani, “ voi invece... ” è detto ai discepoli. Oggi, al contrario, sarà difficile trovare dei re pagani che difendano con altrettanta oltranza il loro potere, prestigio, autorità, status sociale, ruoli sociali cristallizzati, ecc., quanto i “ principi della chiesa ”, come giustamente vengono chiamati. Qui la chiesa deve dimostrarsi una comunità capace di realizzare il magnificat deponendo realmente dai loro troni i potenti. Solo il servizio effettivamente richiesto e riconosciuto dalla comunità —e non la sua finzione in base ad investiture incontrollabili— può legittimare coloro che nella chiesa esercitano funzioni “ pubbliche ”. Anche a questo riguardo riterrei sbagliato un riformismo graduale—a meno che non si voglia acutizzare ed accelerare il decadimento della chiesa attuale per poterla quanto prima ricostruire dopo il crollo definitivo delle strutture attuali

Per vincere le strutture autoritarie nella chiesa è di importanza primaria porre su basi completamente nuove i processi di informazione, comunicazione e decisione: la soppressione di informazioni, la loro concentrazione in poche mani “ fidate ”, la loro mistificazione o palese falsificazione (vedi spesso l'“ Osservatore Romano ”) serve ad accrescere il potere di alcuni pochi e di conservare in uno stato di dipendenza i molti. Quindi dovremo batterci per la massima veracità e pubblicità nella chiesa, intendendo per esse la reale accessibilità e diffusione dell'informazione.

Anche il giuoco intorno ai processi decisionali nella chiesa attuale, gli spunti di una timida parlamentarizzazione, sono naturalmente privi di senso e di prospettiva, e sarà da chiedersi se in certi casi non sia preferibile boicottare i vari consigli pastorali, piuttosto che tentare di immettervi—quasi di contrabbando—qualche persona in gamba.

Fondamentale in questo contesto è ovviamente la lotta contro la separazione classista tra preti e laici: attualmente quasi tutte le informazioni, decisioni, elezioni, nomine, ecc., passano per una canalizzazione dicotomica, “per curie ” o “ stati ”. Continuare così è intollerabile .

Come sottogruppo del clero ormai, come si sa, cominciano a farsi strada sempre più dei laici privilegiati che tendono a formare una nuova burocrazia intermedia nei quadri ecclesiastici.

Alcuni passi verso una partecipazione più reale di tutti alla vita della comunità ecclesiale potrebbero essere forse i seguenti: libertà di parola nella chiesa, una volta che vi siano i presupposti—quando cioè nella chiesa non si parli più di astrattismi più o meno “ pseudo ”—teologici, ma dei problemi reali delle persone, e quando le necessarie informazioni non vengano più tenute nascoste. La conquista della libertà di parola nella chiesa contribuirebbe comunque a mettere in chiaro quanto sia lontana la chiesa attuale dalle esigenze della gente, in particolare dei principali destinatari dell'annuncio.

Fra i problemi maggiori da discutere a questo proposito vi saranno fra l'altro quello relativo al ministero nella chiesa (ove certamente la questione celibataria ha una sua importanza paradigmatica per un certo modo di oppressione nella chiesa attuale, ma per nulla fondamentale).

Più importante ancora della modifica delle strutture comunitarie della chiesa è la prassi della sua povertà ed il suo radicamento fra i “poveri ”. Qui sorge il problema della chiesa nel suo rapporto con il potere “ temporale ” (politico, economico, militare, culturale ecc.). Basti ricordare brevemente quanti e quali servigi la chiesa ufficiale ha reso sempre al potere politico, e quanto essa abbia contribuito alla conservazione delle strutture sociali dominanti nel mondo cristiano‑occidentale. L'esercizio costante dell'obbedienza all'autorità, la legittimazione ideologica del potere esistente attraverso l'investitura anche sacrale dei suoi detentori o la sua sacralizzazione comunque, una particolare “ apoliticità ” che in realtà non è altro che una politica ben precisa, cioè quella dell'adattamento acritico ai sistemi al potere, la fuga asceticamente motivata da responsabilità “ mondane ” e la loro conseguente delega a chi magari aveva meno scrupoli; questi e tanti altri servizi sono stati resi dalla chiesa, istituzione di potere fra altre consimili istituzioni di potere, spartendosi con esse il mondo. Abbiamo già parlato della chiesa quale fattore di integrazione in una società apolitica, autoritaria, capitalistica, non‑libera, acritica, militarista ecc.

Ora si nota come oggi finalmente si muove qualcosa in questa istituzione sinora tanto utile alla conservazione dell'ordine, e già si muove il sistema sociale da essa precendetemente garantito per ricordarle questa volta con decisione i limiti della sua azione e “competenza ”.

Non pretendo di inventare nulla di nuovo, quando ricordo a questo proposito due importanti esigenze: prima quella di rompere e smascherare ogni tipo di accordo o compromesso con il potere dei dominanti, si tratti di concordati, cappellani militari, insegnamento religioso, matrimonio concordatario, ecc., a livello statuale o delle rispettive appendici a livello diocesano e parrocchiale. Anche qui la lotta dovrebbe essere decisa e radicale.

In secondo luogo è da riflettere come si possa realizzare anche nel rapporto col mondo politico e del potere la de‑istituzionalizzazione della chiesa. Già è stato detto della legittimità o meno di prese di posizioni “ ufficiali ”, “ della chiesa ”, ecc. Più difficile è il problema di un periodo transitorio: alcuni pensano che una chiesa sinora istituzionale e conservatrice debba ora impegnarsi in senso progressista per rimediare a peccati antichi, ed effettivamente è forte la tentazione di strumentalizzare il prestigio istituzionale della chiesa per le legittime istanze di trasformazione rivoluzionaria della società. Ciò nonostante riterrei più corretto finirla con le usurpazioni istituzionali. Finché dunque un vescovo intende la chiesa come “ istituzione ”, egli mi darà fastidio anche quando proclamerà “ la dottrina della chiesa ”, questa volta a sinistra invece che a destra, per dirla in poche parole. La costruzione di una chiesa diffusa ed effettivamente deistituzionalizzata sopporta difficilmente in questo momento nuove ipoteche istituzionali.

Teologia politica potrà dunque essere una funzione della comunità cristiana di base, non più istituzionale. Altrimenti si può essere sicuri che i potenti troveranno un'altra volta la strada per tappare la bocca con concordati e privilegi (la triste esperienza degli attuali concordati nei paesi socialisti insegni!) — mentre solo una chiesa diffusa e di base potrà essere il luogo di una critica e profezia liberatorie.

 

Conclusione

 

Non posso dire quale volto avrà in concreto una chiesa deistituzionalizzata, quale me la auguro. Credo che questo volto sarà comunque più vicino all'Evangelo di quello attuale. Per raggiungerlo si dovranno superare numerose resistenze, e non solo quelle dei conservatori ecclesiastici manifesti. C'è anche tutta la resistenza che viene proprio da quelle strutture mondane che hanno interesse a conservare una chiesa come quella attuale.

E vi è infine l'ostacolo più pericoloso: quello del riformismo, quello degli uomini “ aperti ” che occupano posizioni di per se insostenibili o contraddittorie, ma le rendono sopportabili grazie alle loro doti personali. Forse è il riformismo oggi a presentare i maggiori pericoli per una radicale riforma della chiesa.

Alexander Langer


 

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