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PRESIDENTE, MA CHI GLIEL'HA FATTO FARE?



Marco Tarquinio



Tre nomi: Biagi, Luttazzi e Santoro. Benché impegnato in una delicata missione all'estero, ieri Silvio Berlusconi non ha resistito alla tentazione di snocciolarli nell'ennesimo atto d'accusa contro l'«occupazione militare della Rai da parte della sinistra». Solo che stavolta, nel rinfacciare ai due noti giornalisti e al sulfureo comico un «uso criminoso» della tv pubblica nella passata campagna elettorale, il capo del governo non ci ha pensato due volte - anzi, nemmeno una - prima di dire chiaro e tondo che quei tre in Rai hanno un passato e nessun futuro.
Insomma, sono fuori. Depennati, archiviati, licenziati. Senza specificare se si trattasse da parte sua di un'abusiva comunicazione di servizio o di un'impudica pressione sulla dirigenza aziendale appena nominata. Nella sostanza poco cambia: si tratta di una mossa sbagliata, incomprensibile, controproducente.
È vero, la sensazione che le cose stessero più o meno così aleggiava nell'aria da tempo. E i più diretti interessati - Biagi dalle sue ampie finestre televisive e giornalistiche, Luttazzi nei suoi spettacoli itineranti, Santoro grazie alle porzioni di palinsesto messe a sua piena disposizione - non facevano mistero di sentire i tuoni e di aspettarsi i fulmini. Quasi per esorcizzarli in una sottile prova di forza mass-mediatica.
Noi, invece, ci attendevamo qualcosa di diverso. E non per inguaribile ingenuità, ma, da una parte, perché immaginavamo superata la brama di un'azzardata resa dei conti post-elettorale e, dall'altra, perché credevamo che dopo le storture informative e il campionario di faziosità che hanno condito specialmente l'ultima fase della Rai zaccariana si dovesse arrivare a una svolta di garanzia per tutti. Senza, però, mozzare teste e senza approntare emblematiche pire per ancora più emblematici capri espiatori. Perché ritenevamo - e non abbiamo smesso di ritenere, grazie anche all'asciutta rivendicazione di «indipendenza» di Antonio Baldassarre - che nel nuovo Consiglio di amministrazione di Viale Mazzini facciano parte persone in grado di agire con lucidità e misura per assicurare la qualità e l'equilibrio del servizio pubblico radiotelevisivo. E perché volevamo sperare che il presidente del Consiglio, per quanto impulsivo, fosse sincero quando dichiarava di non volersi impicciare nelle vicende televisive nazionali. Un atteggiamento che - nel nome di una sacrosanta distinzione di compiti, qualunque sia l'ospite di Palazzo Chigi - dovrebbe valere a prescindere dall'approvazione di una legge (ben più seria di quella che risulterebbe dal testo approvato alla Camera nelle scorse settimane) che finalmente regoli la questione del conflitto d'interessi.
Il ciclone di reazioni che si è immediatamente scatenato non fa che confermarci in questa opinione. È del tutto ovvio chiedersi chi glielo faccia fare al premier in carica di riproporre al cospetto dell'opinione pubblica la propria immagine come quella di un ircocervo, leader politico e dominus televisivo, che coltiva quasi con ostentazione il mito di se stesso. E non si può fare a meno di notare che, con questi chiari di luna, a un uomo di governo dovrebbe persino mancare il tempo per incursioni in campi altrui.
Fa perciò capolino il sospetto che Berlusconi prima di lanciarsi nella sua esternazione possa aver calcolato le conseguenze di questa mossa, compreso l'inevitabile, ustionante, ritorno di fiamma polemico. Ma le dietrologie non ci appassionano. Ci appassionano piuttosto le questioni di sostanza e di stile. E non ci piace affatto, perché ci preoccupa grandemente, vedere un capo del governo (e questo varrebbe, lo ripetiamo, anche se il capo del governo non fosse un imprenditore televisivo) che parla della radiotelevisione pubblica e di coloro che ci lavorano come se potesse disporne a piacimento.
E benché sul piano estetico e istituzionale non bilanci un bel nulla, vogliamo aggiungere, con lealtà, che chi lavora nella radiotelevisione pubblica non può usarla, come ha finito per fare ieri sera Enzo Biagi, per elevare i propri successi professionali (enfatizzati) e gli inevitabili errori (sottaciuti) a una sorta di esclusiva icona della libertà di stampa. Se anche ieri sera, dopo la sfuriata belusconiana, avesse fatto solo il suo mestiere di cronista e commentatore - cosa che sa fare da maestro - il grande Enzo avrebbe reso un gigantesco servizio alla causa di tutti.
Una causa che è ovviamente anche quella di Michele Santoro, giornalista abile e tagliente. Tagliente fino al punto di dare del «vigliacco» al presidente del Consiglio di oggi e suo editore di ieri. Qualcuno potrebbe concludere che se neanche i miliardi pagatigli in anni ancora recentissimi da Berlusconi sono riusciti comprare Santoro, la libertà di stampa non corre alcun rischio. Eppure, chissà perché, proprio a causa di certi spettacoli noi ci allarmiamo ancor di più...

  Tratto da "Avvenire" 19 aprile 2002


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