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IL COMMENTO

Il dovere di dimettersi

di CURZIO MALTESE    

(la repubblica 21-03-2002)

 
SE la vita di un uomo vale più delle polemiche e dei giochi politici, allora
la prima domanda da porsi intorno al cadavere di Marco Biagi non è "a chi
serve?" ma "si poteva salvare?". La risposta è: sì, si poteva, si doveva. Se
avesse avuto una scorta, oggi sarebbe vivo. E' una verità semplice, forse
troppo per una nazione di dietrologi.

Una verità concreta, fra i tanti deliri di una campagna elettorale
permanente. Nessuno in Italia aveva più bisogno e diritto a una scorta
dell'uomo ucciso l'altra sera a Bologna. Nessun assassinio è stato
altrettanto annunciato. Marco Biagi era il nome e il cognome mancanti al
perfetto identikit del "prossimo obiettivo del terrorismo", disegnato dai
servizi segreti e pubblicato pochi giorni fa da Panorama.

"Personalità impegnate nelle riforme economico-sociali e del mercato del
lavoro e, segnatamente, quelle con ruoli chiave in veste di tecnici e
consulenti". Le conclusioni, rilette, suonano agghiaccianti: "In cima alla
lista dei potenziali obiettivi delle Br ci sono il ministro Maroni e i suoi
collaboratori più stretti che lavorano nell'ombra".

Marco Biagi aveva letto quell'articolo con la notizia della propria morte.
Si era riconosciuto, aveva confessato le sue paure alla famiglia, agli
amici. Al ministro Maroni, due giorni prima di essere ucciso, aveva detto:
"Non vorrei che foste costretti a intitolarmi una sala, come a Massimo
D'Antona...[bb]. Ma la scorta non era arrivata. I suoi assassini,
indisturbati dallo Stato, avevano ripreso a braccarlo. E' una storia che
parte da lontano, dall'omicidio D'Antona, e prosegue nel 2000.

Dopo la firma del patto del lavoro di Milano. Marco Biagi figura come
obiettivo in un volantino delle Br. Gli danno una scorta che gli viene tolta
lo scorso novembre. I killer, bene informati, tornano all'attacco: "Adesso
che ti hanno tolto gli angeli...". gli dicono al telefono. Lui ne parla con
l'ex ministro Treu, suo amico, chiede aiuto al ministro Maroni, il quale
gira la richiesta al collega Scajola. Ma la lettera, dicono al ministero
degli Interni, non arriva.

Strano, Maroni dovrebbe conoscere bene l'indirizzo. Di colpo, lo Stato e il
governo spariscono intorno a quest'uomo, "leale servitore delle
istituzioni", come dicono oggi le autorità. Come, tanto tempo fa, intorno
all"eroe borghese Ambrosoli. All"appuntamento con un omicidio annunciato
Marco Biagi arriva da solo, in bicicletta, con due borse.

In un paese normale a questo punto il ministro degli Interni si dimette a
furor di popolo. Ma il ministro Scajola non ha alcuna intenzione di
dimettersi. Anzi, si lancia fra i primi nel gioco delle speculazioni, nella
caccia alle streghe, nelle dietrologie sui presunti mandanti morali e
responsabili politici. Quanto alle sue concrete responsabilità di ministro,
Scajola se la cava con una frase di un cinismo nuovo perfino per la politica
italiana: "Non è con le scorte che si combatte il terrorismo". Certo, si
sarebbe la vita di un uomo, di quell'uomo ucciso sulla strada di casa.

Ma che può contare una vittima nei grandi orizzonti della strategia
politica? Provi però il ministro a spiegarlo alla vedova. Non bastasse, il
ministro inaugura il solito scaricabarile sui sottoposti, nella circostanza
prefetti e questori. Colpevoli di che cosa, signor ministro? Di aver
obbedito alle sue circolari sul taglio delle scorte. In cambio, fra l'altro,
di "incentivi economici". Nella perfetta logica dello Stato azienda: più
tagli, più ti premio.

E' lo spettacolo più indecente di queste ore, fra i tanti offerti da una
classe politica che ci fa rimpiangere la fermezza, la civiltà e l'alto senso
dello Stato con cui i partiti usciti dalla Resistenza seppero affrontare e
vincere il tremendo assalto degli anni Settanta, portato da migliaia di
brigatisti e non dalla piccola banda di disperati (e impuniti) di oggi. Ed è
tanto indecente da scandalizzare perfino questa maggioranza. La partita è
stata aperta nel consiglio dei ministri, con la richiesta di dimissioni di
Scajola e dei vertici dei servizi, il cui compito è proteggere la vita dei
cittadini e non fornire lugubri "scoop" ai giornali. Che si risolva o meno
in un regolamento di conti interno al governo, non importa.

Importa che la vita di un uomo minacciato da tempo si poteva salvare e chi
sapeva e poteva non si è mosso. Altre vite di servitori dello Stato,
tecnici, consulenti e magistrati, come il caso clamoroso di Ilda Boccassini,
sono in pericolo, qui e oggi, e non vorremmo che domani venissero intitolate
altre sale. Si deve provvedere subito, per oggi e per domani: e per ieri chi
ha responsabilità, se la assuma.
Anche in questo caso, se vogliamo uscire dai deliri e tornare alla realtà,
non sono state le parole ad armare gli assassini. Sono stati gli atti,
compiuti o mancati.

(21 marzo 2002)

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