<<<-salva o stampa il file, leggerai con più comodo

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

QUANTI MISFATTI IN NOME DI UN'OBIETTIVITÀ IMPOSSIBILE


di Renato Parascandolo



Piero Ottone, un maestro del giornalismo italiano, prendendo spunto dalle
recenti nomine del Cda della Rai, ha avuto l'ardire di contravvenire ad uno
dei pregiudizi più radicati nel sentire comune secondo cui "l'obiettività
non esiste". Quest'asserzione è, per molti giornalisti, vera e ovvia come i
precetti di Galeno per i medici del medioevo. E come l'obbedienza ai
postulati galenici frenò lo sviluppo della medicina per più di mille anni e
costò alla civiltà occidentale decine di milioni di decessi, altrettanto
nefasto appare, per la crescita della coscienza civile, il dogma del
relativismo assoluto applicato all'informazione.
Questo modo diffuso di pensare è alquanto bizzarro e autocontraddittorio.
Potrebbero, infatti, esistere professori di matematica se la matematica
fosse un'opinione? Certamente no. Per analogia, potrebbero esistere
giornalisti se tutti gli accadimenti fossero opinabili e privi di una loro
consistente, intrinseca verità? Certamente no.
Inoltre, poiché la completezza è il valore fondamentale su cui poggia la
deontologia del giornalista, tutto farebbe pensare che la ricerca della
verità (intesa come corrispondenza con la realtà), sia la prima delle sue
preoccupazioni. Infatti, come può considerarsi completa una notizia senza la
verità? E invece no: un articolo di giornale o un servizio televisivo è
considerato completo solo se riporta le opinioni di tutti i protagonisti di
un evento. Insomma, secondo un diffuso pregiudizio, la completezza
dell'informazione consisterebbe nella somma delle singole faziosità.
Conseguentemente, il cittadino informato non sarebbe colui che ha conosciuto
la realtà di un certo evento, ma quello che ha avuto la pazienza di farsi un
quadro completo delle opinioni riportate in tutti i quotidiani e
telegiornali, sommando le diverse partigianerie. Come se non esistesse la
realtà oggettiva, ma ci fossero tante verità quanti sono gli interessi delle
parti in gioco. Tuttavia l'opinione, la doxa, è, per definizione,
soggettiva, di parte, opinabile per l'appunto. Essa è il contrario della
verità oggettiva (l'episteme).
La negazione dell'oggettività comporta, nell'informazione e nella vita
politica, conseguenze più gravi di quanto non sembri a prima vista. Lo
scontro per giungere a svelare la verità si trasforma, infatti, nello
scontro intorno alla verità: chi ha più potere detiene la verità, poiché la
impone come tale e riduce al silenzio la verità degli avversari che, seppure
avessero la facoltà di manifestarla, comunque non verrebbero creduti. Ma che
si faccia di tutto per offuscare la verità e la realtà concreta delle
situazioni, non vuol dire che l'oggettività non esista. Perché se vi è una
realtà dai contorni precisi, se vi sono processi storici che hanno una
logica e un senso, se vi sono fenomeni di lunga durata nella storia tali da
precostituire in larga parte gli eventi futuri, se vi è insomma una realtà
storicamente determinata nella sua oggettività, perché mai nel lavoro
giornalistico non avrebbe senso la ricerca della verità?
Se è difficile cogliere la "verità" della notizia, non per questo essa non
sussiste, e non per questo possiamo sentirci esentati dal dovere di
cercarla. D'altra parte non esistono disciplina, scienza o professione, che
possano definirsi tali, che non abbiano un campo d'azione oggettivamente
definito. Se tutto fosse aleatorio, accidentale e soggettivo, sarebbe
impossibile ogni conoscenza e ogni orientamento nell'azione.
Essere una "buona penna", un "giornalista d'assalto", un polemista dalla
sferzante ironia, "quasi-uno-scrittore" non significa essere un buon
informatore: la funzione dell'informatore è molto più complessa, consistendo
nella ricerca faticosa, intelligente e rischiosa della verità.
Queste riflessioni sul ruolo e la responsabilità del giornalista dovrebbero
essere all'ordine del giorno nel dibattito sulla televisione pubblica, la
cui legittimazione etico-politica non può essere disgiunta dalla sua
capacità d'essere obiettiva nel mostrare la realtà e nel cercare di
avvicinarsi quanto più è possibile alla verità. Principi, questi, che
dovrebbero ispirare i giornalisti dovunque essi operino, nei giornali come
nella televisione commerciale; ma alla Rai, in particolare, l'attitudine
all'obiettività più ancora che un principio deontologico dovrebbe essere una
vocazione.


da "Avvenire", 7 marzo 2002

_________________________________________________________________