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GESTIONE NONVIOLENTA DEL CONFLITTO: CULTURA, FORME, ISTITUZIONI

di Lidia Menapace



[Questo intervento di Lidia Menapace, di qualche anno fa, abbiamo ripreso
dal sito della scuola di pace del Comune di Senigallia
(www.comune.senigallia.an.it/scuoladipace_web).


Lidia Menapace, una delle
nostre maestre piu' grandi, e' nata a Novara nel 1924, partecipa alla
Resistenza, è poi impegnata nel movimento cattolico, pubblica
amministratrice, docente universitaria, fondatrice del "Manifesto" e
partecipe di varie rilevanti esperienze politiche e culturali della sinistra
critica. E' tra le voci più significative della cultura delle donne e dei
movimenti di solidarieta' e di liberazione. La maggior parte degli scritti e
degli interventi di Lidia Menapace è dispersa in quotidiani e riviste, atti
di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. (a cura di), Per
un movimento politico di liberazione della donna, Bertani, Verona 1973; La
Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia politica della
differenza sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in collaborazione con
Chiara Ingrao), Né indifesa né in divisa, Sinistra indipendente, Roma 1988;
Il papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno?, Il dito e la luna,
Milano 2000.




1. La guerra e' sempre un crimine
Vorrei collocare quello che verro' dicendo in questo tempo, perche' mi
risulta impossibile introdurre accademicamente il tema di questa sera, che
intende essere un tentativo di risposta alla domanda: "e' possibile una
politica di pace?". Introdurre una risposta a questa domanda non e'
possibile se non si ricorda quello che sta succedendo in Libano o in
Liberia, o cosa ancora e' minaccioso nella ex-Jugoslavia. Sarebbe astratto
incominciare a pensare senza fare riferimento a tali realta', perche' questi
soli tre nomi significano sostanzialmente che una politica di pace ancora
non esiste. Ci sono solo tentativi per sedare i conflitti, per chiudere
delle guerre. E tutto questo, che e' solo una specie di balbettamento anche
se bene intenzionato, significa che nel pensiero politico non c'e' ancora
una fondazione teorica sufficiente, e non voglio dire adeguata, di una
politica della pace.
Ci avventuriamo dunque su un terreno del tutto nuovo, instabile, incerto,
senza indicatori, ci avviamo su una strada da tracciare. Conviene ricordare
cio', perche' le cose che verremo dicendo sono di carattere sperimentale e
induttivo. E pero', mentre sono sperimentali e induttive, queste parole non
sono cosi' tranquille come quando si fa una riflessione in laboratorio su
una situazione stabile, perche' sono mescolate con vicende che non possono
lasciarci indifferenti, sia per la carica di ferocia e di disumanita' che
portano con se', sia per la carica di pericolo che in qualche modo
esprimono. Non si tratta soltanto di eventi calamitosi per i quali la nostra
coscienza sobbalza e il nostro cuore geme, ma si tratta di fatti calamitosi
per i quali l'intera nostra esistenza e' minacciata, e' messa in
difficolta': una qualche ansia si insinua nelle nostre giornate, si aggiunge
a quelle che gia' ci sono, ma e' un'ansia piu' greve, piu' profonda, piu'
lancinante, perche' riguarda la possibilita' di eventi cosi' drammatici come
sono le guerre.
D'altra parte io non posso nemmeno ricordare questa data senza pensare che
e' cosi' vicina al 25 aprile, una data che ricordo bene. Ero allora ragazza,
avevo fatto la guerra di resistenza, sono stata staffetta partigiana nella
mia citta', Novara, una citta' importante nella guerra partigiana, e mi
ricordo non solo la gioia perche' finalmente era finita, ma anche la
convinzione che fu allora delle giovani generazioni che avevano partecipato
alla Resistenza, di aver concluso l'ultima guerra che si sarebbe mai
combattuta. Questa convinzione non era soltanto frutto di una giovanile
improvvisazione o di puri desideri, ma era talmente partecipata dai poteri
politici, sia pure in forme che non si sono realizzate, che di li' a poco la
carta che fondava le Nazioni Unite cominciava dicendo, dopo un breve accenno
ai lutti e alle rovine della seconda guerra mondiale, che si poteva da quel
momento dire che la guerra e' sempre un crimine.
La riflessione su una possibile politica di pace parte da questa
definizione: la guerra e' sempre un crimine.
Questa definizione capovolge una lunga riflessione del pensiero politico e
giuridico-politico, per la quale la guerra e' stata definita un mezzo, uno
strumento per risolvere i conflitti, per riparare delle ingiustizie, per
misurare i rapporti di forza reali. Varie opinione sono state dette di
questo evento: espressione dell'aggressivita' umana innata, invincibile.
Tutta una serie di definizioni hanno considerato la guerra qualche cosa
intorno alla quale non si da' previamente un giudizio etico, ma si cerca di
capire che cosa e'. In piu', quando ci si approssimava ad un giudizio etico,
si cercava sempre di distinguere le guerre giuste dalle guerre ingiuste:
quindi l'approssimazione etica considerava l'ipotesi che la guerra potesse
essere anche una cosa giusta. Invece la carta delle Nazioni Unite tronca
questo pensiero, lo mette fuori dalla storia, perche' afferma che la guerra
e' un crimine, e quindi va repressa.
Questa definizione si sostituisce alla piu' celebre definizione politica di
guerra data da von Clausewitz nei suoi Pensieri sulla guerra. Certamente e'
la riflessione piu' lucida che sia stata fatta su questo evento, anche con
grande onesta' intellettuale. von Clausewitz dice: "La guerra e' la
continuazione della politica con altri mezzi", continuazione necessaria
quando la politica non riesce piu' a risolvere i conflitti che si sono
annodati. Dunque fra guerra e politica von Clausewitz mette una continuita'.
Per questa ragione non vi e' motivo di scandalo: si puo' dire che vi sono
degli eccessi, ma questi ci sono anche nella politica. Interviene in questo
modo una sorta di giudizio etico di seconda istanza sugli eccessi, ma non
sul fatto in se'. Von Clausewitz, dunque, raccoglie la riflessione sulla
guerra a lui preesistente, e da' questa lucidissima e intellettualmente
onesta definizione: la guerra e' la continuazione della politica, quando
questa si trova di fronte a problemi cosi' annodati che non possono essere
piu' risolti con metodi "politici". Questa definizione contiene anche altre
osservazioni molto acute. Ad esempio von Clausewitz osserva che la guerra e'
uno strumento assoluto: dopo che la politica ha usato tutti gli strumenti
possibili e non e' riuscita a risolvere i problemi, in extremis da' il via a
quest'altro strumento, la guerra, che dunque e' assoluto. Tanto che,
aggiunge von Clausewitz, chiunque parla di limitazione, attenuazione,
umanizzazione della guerra, o mente o non sa di cosa parla. In questo
consiste la sua onesta' intellettuale. Siccome la guerra e' uno strumento
assoluto e' inutile pensare che lo si possa contenere: sarebbe una
contraddizione in termini. Se un mezzo e' assoluto, allora si dispiega fino
a quando non ha finito. Non si puo' dire: facciamo "un po'" di guerra,
facciamo una guerra in tono minore, facciamo una guerra con contenimento
umanitario. Questo non e' possibile, ed e' in contraddizione con l'idea di
guerra, che e' di per se' uno strumento assoluto, che non ammette
contenimenti.
Credo che questa parte del ragionamento di von Clausewitz sia ancora
estremamente attuale: e' vero che la guerra ha questa caratteristica di non
poter poi essere contenuta e limitata. Tutti i protocolli internazionali
sull'umanizzazione della guerra, sulla tutela delle popolazione e dei
prigionieri, valgono fino a quando un Hitler qualsiasi non dichiara che
tutti i trattati sono solo pezzi di carta e che lui fa quello che vuole.
D'altra parte la stessa tutela delle popolazioni civili, dalla seconda
guerra mondiale in poi, quando Hitler individua nella popolazione civile il
punto debole della possibile resistenza del nemico riconoscendo nelle citta'
obiettivi militari, viene esclusa dalla gestione delle guerre. Questo e'
stato il punto in cui l'assolutezza della guerra si e' mostrata nella sua
forma piu' estrema. La citta', che e' il luogo in cui comunemente la
popolazione civile rimane, e che quindi viene generalmente dalla guerra
scartata (le citta' subiscono assedi oppure vengono saltate perche' lo
scontro si fa sul campo, e rimanevano in qualche modo isolate dall'essere
considerate direttamente obiettivi militari), la citta' diventa per la
guerra da Hitler in poi il principale obiettivo militare. E' probabile che
non riusciamo piu' ad avere la sensazione sconvolgente di questo mutamento,
perche' ormai ci abbiamo vissuto in mezzo tanti anni. Ma quando avvenne per
la prima volta che una citta' fu colpita a freddo bombardando la popolazione
civile, l'emozione fu tale che Picasso dipinse Guernica. Questo quadro
rappresenta il primo bombardamento a freddo dell'aviazione hitleriana di una
piccola citta' nel corso della guerra di Spagna, tanto che Guernica e'
diventata il simbolo di tutte le citta' che sono state colpite come
obiettivi militari non per caso, ma intenzionalmente. Esiste anche una
parola: "coventrizzare", che significa bombardare Coventry, in Inghilterra,
come fu fatto dall'aviazione nazista e fascista durante la seconda guerra
mondiale con l'intenzione di ridurre la citta' in cenere. Poi naturalmente
gli alleati replicarono, e Dresda e' una citta' ridotta dagli angloamericani
in rovine. Quando anche l'asilo urbano viene scientemente violato, siamo
nella massima espansione della definizione di guerra di Clausewitz come
strumento assoluto.
La conclusione e' che dalla seconda guerra mondiale in poi le vittime civili
delle guerre sono piu' numerose dei caduti militari: e' evidente il
carattere totale della guerra, che non lascia asili, luoghi marginali,
luoghi franchi, citta' aperte o altre cose del genere.
Ma nello stesso momento in cui la definizione di Clausewitz riceve
storicamente il massimo d'affermazione, l'evento Hiroshima mette quella
definizione in crisi, perche' quando l'uso degli strumenti distruttivi e'
tale da non lasciare adito alla continuazione della vita, allora la guerra
arriva a un tale livello di irrazionalita' che giustamente le Nazioni Unite
la definiscono sempre un crimine.
Quando la distruzione di massa diventa cosi' repentina, incontrovertibile,
eccezionale, diffusa e per di piu' con la possibilita' di proseguire i suoi
effetti addirittura sulle generazioni future, come accade con le radiazioni
atomiche, siamo fuori persino dalla definizione della guerra come
continuazione della politica con carattere di assolutezza. Abbiamo oramai
una guerra come crimine contro la vita, contro la natura, contro la storia.
Il pensiero di una possibile politica di pace, o il pensiero politico
pacifista nasce con Hiroshima. Il pacifismo moderno, e non il semplice
anelito alla pace che c'e' sempre stato ma non ha fermato mai una guerra, il
tentativo di definire in termini giuridico-politici un altro modo di
riflettere intorno alla guerra nasce con Hiroshima, cioe' con l'oltraggio
insopportabile di strumenti di distruzione tali che la loro permanenza
minaccia il nemico fino a due generazioni seguenti. Questo e' un fatto
importante, ma e' anche un limite del pensiero pacifista che ha sviluppato
la sua politica di pace nei primi decenni seguenti la seconda guerra
mondiale essenzialmente puntando sulla paura del nucleare. La paura del
nucleare e' assai razionale, chi non ha paura del nucleare e' pazzo, e'
folle. Come pure avere paura della guerra e' un fatto assolutamente umano e
ragionevole. Non aver paura della guerra non vuol dire essere eroi o
coraggiosi, vuol dire essere pazzi, fuori da qualsiasi razionalita'. Pero'
fondare esclusivamente sulla paura del nucleare la formazione di una
coscienza politica di pace e' insufficiente.
Infatti, dopo le grandi manifestazioni che in tutta Europa hanno dato la
misura di quanto le popolazioni europee, che pure non avevano subito
direttamente la minaccia atomica ma che continuamente temevano che questa
potesse presentarsi, il pensiero militare ha cambiato forma dimostrando di
essere piu' scaltro, avveduto e storicamente piu' fondato di quanto non
fosse il pensiero pacifista. Infatti sono state inventate le guerre
subatomiche, le guerre regionali, cioe' delimitate per territorio, le guerre
che possono essere tenute sotto controllo.
La guerra del Golfo e' la grande risposta del pensiero militarista
all'insufficienza politica del pensiero e della pratica pacifista, perche'
dalla guerra del Golfo in poi la guerra comincia a rilegittimarsi nella
coscienza popolare. Cade questo schermo di rigetto sia pure per paura e si
ricomincia a pensare: "pero', insomma, se avviene lontano, se le bombe sono
intelligenti, se si tratta di un'operazione chirurgica". Se la guerra e'
presentata con un linguaggio simbolico che allude ad una sua utilita',
allora viene in qualche modo accettata. Voglio osservare che la guerra viene
presentata in questa nuova forma non come una cosa giusta, ma come una cosa
utile. C'e' una specie di mutamento dello spettro etico entro cui la guerra
viene collocata. Non si dice piu' che la guerra e' giusta. D'altra parte e'
difficile commuovere le persone sulla sorte degli emiri dell'Arabia Saudita,
che non sono soggetti facilmente portatori di emozioni positive
nell'opinione pubblica mondiale: dire "corriamo in soccorso degli emiri e
degli sceicchi, difendiamoli in nome della giustizia" non avrebbe commosso
nessuno. Invece si introduce l'elemento della guerra utile: "e'
un'operazione chirurgica". Nessuno ama le operazioni chirurgiche ma sa che
sono utili, nel senso che risanano da una malattia.
In questa nuova edizione l'evento bellico non e' piu' presentato come
qualcosa intorno a cui richiamare grande passioni come la difesa della
patria, della civilta', dell'occidente, del cristianesimo, dell'islam, tutti
messaggi che danno una specie di giustificazione etica o addirittura
religiosa della guerra. La novita' e' che ci troviamo di fronte a una
giustificazione di tipo utilitaristico.
Siccome, peraltro, nel periodo in cui viviamo il tema dell'utilita' e' molto
sentito, questo strumento e' molto efficace nel legittimare nuovamente la
guerra.
*
2. Per un nuovo pensiero politico pacifista
Se ho tracciato in maniera sommaria queste tappe sul pensiero intorno alla
guerra e' perche' vorrei che ci sforzassimo di considerare la fondazione di
una politica della pace come un'impresa teoricamente, culturalmente,
eticamente impegnativa e di grande fascino. Si tratta di dare risposta ad
una questione rimasta aperta dalla seconda guerra mondiale in poi, quando
finisce il possibile utilizzo positivo, storicamente accettabile della
definizione che von Clausewitz ha dato della guerra come continuazione della
politica con altri mezzi di carattere assoluto. La guerra non e' piu'
questo, ma e', ad esempio, un intervento chirurgico sul tessuto canceroso
della convivenza umana, e' un taglio brutale, ma necessario. Questa e' la
nuova teoria della guerra, che ci viene presentata come un intervento che
risana un tessuto ammalato. La risposta che viene data dalla pratica e dal
pensiero pacifisti non e' adeguata, perche' e' rivolta all'indietro: la
guerra e' il mostro che fa paura, il che e' vero ma non basta, tanto che la
guerra ha fatto di nuovo dei passi in avanti nella coscienza comune. Non
c'e' piu' una immediata e istantanea forma di ripulsa. E' comune sentire
persone che dicono: "quando proprio non si puo' fare altro...", che e' un
modo popolare di riformulare la definizione di Clausewitz. Anche alcuni
pacifisti hanno detto: "... beh, in Bosnia intervengano pure militarmente,
cosa si deve fare, piuttosto del massacro!". Questo ci fa capire che non
siamo riusciti ad elaborare un vero pensiero politico sulla pace, se noi
stessi e noi stesse pacifisti ci troviamo a non avere argomenti convincenti
per resistere alla richiesta di intervento armato che periodicamente viene
avanti.
Ritorniamo alla carta delle Nazioni Unite, che rimane un punto nettissimo,
un aggancio assai importante, benche' il suo valore giuridico sia
praticamente nullo in quanto non e' uno strumento di diritto internazionale,
e non ci sono sanzioni per chi la viola. Pero' si tratta di un alto
messaggio etico-politico, ed anche di qualcosa che ha dietro di se' grumi di
potere non del tutto indifferenti.
Questa carta delle Nazioni Unite, dopo aver definito la guerra un crimine,
non prosegue dicendo che tutti quelli che fanno la guerra sono "cattivi",
perche' uno strumento politico fatto da stati assai potenti non puo'
continuare in questa maniera un po' ingenua e moralistica di discutere
intorno alla guerra.
Avendola definita un crimine, ovviamente richiama la risposta che gli stati
danno ai crimini: organizzano la pubblica sicurezza, la polizia. Il crimine
e' definito, non si devono commettere crimini, ma siccome non si puo'
presumere idealisticamente che basti dire "non devi rubare" perche' nessuno
rubi, allora si dice "non devi rubare, e se rubi allora ti metto in galera".
Ti becco, provo che hai rubato, e ti condanno. Quindi intervengo con
un'operazione di polizia e di pubblica sicurezza. Infatti la carta delle
Nazioni Unite parla di un sistema di polizia internazionale che dovrebbe
servire per intervenire contro il crimine guerra. Questo e' un punto che e'
stato pochissimo e male elaborato. Inoltre questo aspetto della carta delle
Nazioni Unite non ha mai avuto un'adeguata esecuzione: tutti gli stati
avrebbero dovuto mettere a disposizione 5000 persone addestrate in
operazioni di polizia internazionale, mentre tutti gli stati mettono a
disposizione pezzi dei loro eserciti a cui cambiano l'elmetto: gli mettono
il casco blu e diventano polizia internazionale.
A questo punto c'e' una prima osservazione da fare: la formazione di un
corpo di polizia e' essenzialmente diversa dalla formazione di un corpo
militare. Il poliziotto puo' commettere abusi, ma comunque chi fa parte di
un sistema di pubblica sicurezza o di polizia e' addestrato a catturare il
criminale possibilmente vivo, ad agire per la difesa dei cittadini
innocenti, e non a sparare nel mucchio, altrimenti commette un abuso e puo'
e deve andare sotto processo. Al contrario il soldato e' addestrato e ha il
dovere di sparare contro chiunque abbia la divisa di un altro colore. E'
sufficiente un diverso colore della divisa perche' uno senta dentro di se'
il comando di sparare. Non si puo' dunque trasformare un pezzo d'esercito,
per di piu' professionale, come sono molti dei corpi utilizzati dall'ONU, in
un'organizzazione di pubblica sicurezza. Al massimo si possono utilizzare
delle truppe di leva, considerato il fatto che hanno paura anche loro e che
quindi non si espongono troppo, per il loro scarso tasso di militarismo,
dunque. Ma quando si tratta di corpi speciali volontari addestratissimi, far
finta che, mettendogli in testa un casco blu, diventino dei corpi di
polizia, e' proprio una finzione delle piu' balorde, che per di piu' espone
queste persone a rischi oppure a repliche indiscriminate e violente.
Ora occorre affrontare il problema di come collocarsi di fronte a questo
grumo di questioni che si sono annodate negli ultimi decenni. La guerra non
puo' piu' in alcun modo essere definita uno strumento risolutivo dei
conflitti troppo annodati a cui la politica non riesce a dare una risposta,
e non puo' essere in alcun modo definita giusta. Inoltre la guerra implica
una grande sproporzione fra mezzi e fini, fra offesa e risposta. Qualunque
cosa un popolo ritenuto colpevole abbia fatto, anche invaso un pezzo del tuo
territorio, questo non giustifica che tu lo distrugga, lo massacri, bombardi
le sue citta', ammazzi i civili, fai delle rappresaglie. Tutte queste cose
non sono giustificabili.
Quindi la guerra resta un crimine: da questa definizione non conviene
tornare indietro, perche' e' un punto molto elevato, molto avanzato della
riflessione etico-politica.
*
3. Che fare?
La cultura che noi assorbiamo anche criticamente non ha dentro di se' questa
affermazione: che la guerra e' sempre un crimine. Dobbiamo rovesciare questa
situazione, quindi dobbiamo incominciare a far politica a partire dal fatto
che la guerra e' sempre un crimine. Persino nelle Costituzioni in cui questo
e' detto, questa parte non e' diventata cultura politica. L'art. 11 della
Costituzione italiana afferma che l'Italia "ripudia la guerra". Il verbo
ripudiare non e' un termine giuridico, e infatti nei testi giuridici non si
trovano delle parole cosi' emotive. Ripudiare vuol dire una forma di rigetto
esistenziale: la guerra mi fa schifo, mi rovescia le budella, e' qualcosa di
molto profondo. La parte dell'articolo che recita "L'Italia ripudia la
guerra come offesa alla liberta' degli altri popoli" e' stata imposta
all'Italia, come alla Germania e al Giappone, dai vincitori che hanno
imposto agli sconfitti di scrivere nelle rispettive Costituzioni che non
avrebbero fatto piu' guerre d'aggressione. Ma in piu' i nostri costituenti
aggiunsero, e questa e' la parte piu' significativa e piu' carica di futuro,
che la guerra viene ripudiata anche "come strumento di risoluzione delle
controversie internazionali". In presenza di controversie internazionali,
anche quelle nelle quali noi avessimo ragione, non siamo legittimati dalla
nostra Costituzione nemmeno a pensare che potremmo fare una guerra per
risolvere a nostro favore la controversia.
Dunque la nostra Costituzione ci obbligherebbe da cinquant'anni in qua a
darci da fare a studiare come si fa ad aver ragione in una controversia
internazionale senza fare ricorso alla guerra, cioe' come si fa una gestione
nonviolenta di un conflitto politico. Questa cosa non e' viva nel nostro
dibattito politico, non e' un meccanismo che scatta. Mentre se c'e' un
attacco alla liberta' di stampa o alla indipendenza della magistratura, c'e'
un'emozione, almeno nella stampa, immediata, e anche una qualche
partecipazione popolare. Questa cosa ci scatta spontaneamente, tanto che
coloro che vogliono minacciare la liberta' di stampa e l'autonomia della
magistratura sono obbligati a giustificarsi dimostrando che cio' non e'
vero. Ormai nella coscienza popolare l'idea che la liberta' di stampa sia un
prezioso valore, e che l'autonomia della magistratura vada rispettata c'e'.
Mentre quando si tratta di guerre non scatta una reazione analoga.
Questo torpore morale nei confronti della guerra e' iniziato con la
spedizione italiana in Libano voluta dal governo Spadolini, spedizione che
era incostituzionale: soldati di leva, per di piu', mandati fuori dai
confini per una operazione di tipo militare. Non disse niente quasi nessuno.
Da quel momento in poi di invii di truppe italiane in varie parti ce ne sono
stati molti altri, e sempre piu' oramai di corpi professionali. Per questa
strada si costruisce l'esercito professionale italiano, che e' sbocco quasi
inevitabile. Ma il problema e' che se viene costruito attraverso questa
strada, diventera' un esercito professionale che chiedera' la modifica
dell'articolo 11. Di fatti la richiesta della modifica dell'articolo 11 c'e'
gia', nel senso che si chiede che l'Italia faccia una politica di sicurezza
con la possibilita' di intervenire ovunque gli interessi nazionali siano
minacciati. Il passaggio da difesa a sicurezza e' un passaggio
pericolosissimo. L'arbitrio interpretativo dell'espressione "ovunque gli
interessi italiani siano minacciati" e' tale da giustificare qualsiasi
intervento. Tutto questo puo' succedere perche' fra i primi 11 articoli
della Costituzione, quelli che ne caratterizzano il volto, l'art.11 e'
particolarmente messo in dubbio e scavalcato nella sua formalita' dalla
cosiddetta costituzione materiale. Cosi' il pratico modo di agire e la
formazione dell'opinione intorno a questo articolo sono gia' mutati, e
questo dipende dal fatto che non siamo riusciti a motivare e ad agganciare a
queste affermazioni lo stesso sentimento di democrazia minacciata come
invece accade quando si verifica un attacco ad esempio alle liberta'
individuali (art. 3) o alla liberta' di pensiero ed espressione. E' vero che
anche altri articoli non suscitano sempre una grande emozione. Ad esempio il
fatto che il razzismo sia solennemente bandito dalla nostra Costituzione non
fa si' che immediatamente scatti una emozione popolare negativa quando
avvengono fatti razzisti. Generalmente si dice "sono ragazzate, episodi
singoli". Ma quando uno ruba, sara' un episodio singolo, ma resta un furto.
Analogamente un gesto razzista sara' un gesto singolo, ma resta un gesto
razzista e non un'altra cosa. Anche su questo la coscienza popolare non e'
altrettanto viva come su altre cose. Quindi degli 11 articoli che disegnano
il volto della nostra Costituzione non tutti hanno lo stesso radicamento
nella coscienza democratica del paese. E a mio parere, nonostante tutte le
belle parole e gli orgogli con cui noi sbandieriamo, e questo termine
militare indica gia' una contraddizione, il nostro art. 11, in realta' lo
sbandieriamo perche' molto spesso lo violiamo.
Mi propongo, allora, di avviare una riflessione su come si puo' far
diventare di nuovo reale, se possibile, l'art. 11 della Costituzione, su
come si fa a radicare nella coscienza popolare l'idea che sia possibile
risolvere il conflitto senza fare ricorso alla guerra, nemmeno ad una guerra
chirurgica, limitata, fatta da eserciti professionali, che tra l'altro hanno
il torto di scaricare la coscienza comune dall'idea di essere responsabili
della guerra: "quando c'e' l'esercito professionale la guerra la fanno
quelli che la vogliono". In primo luogo questo non e' vero, e poi comunque
la paghiamo noi. E chi paga una cosa e' in un certo modo il mandante. Come
non si puo' essere responsabile di quelli che vanno a sparare con le armi
costruite con le tasse che si sono versate? Anzi e' un po' piu' bieco che
dire: "mi espongo anch'io!". E invece si pensa: "pago i killer, pero' io non
conto perche' loro sono killer volontari". Questo e' un rapporto facile dal
punto di vista etico, ma e' un po' rozzo e insoddisfacente, anche perche'
la' dove ci sono gli eserciti professionali non e' vero che vanno a fare la
guerra quelli che vogliono fare la guerra, a parte gli alti ufficiali delle
accademie. Ad esempio l'esercito degli Stati Uniti, che da sempre e'
professionale e volontario, e' fatto per il 60% da neri, chicanos e ragazze
madri che sicuramente non sono il 60% della popolazione degli Stati Uniti:
la rappresentanza non e' proporzionalmente adeguata. Generalmente entrano
nell'esercito persone che si trovano in grandi difficolta' come studenti che
non hanno i soldi per finire l'universita', oppure, cosa ancora piu'
lamentevole e dolorosa, come neri e chicanos, che dopo aver svolto il
servizio militare sperano di aver dato una prova di lealta' allo stato tale
da poter essere accolti  nella societa' americana. Queste sono condizioni di
liberta' e di volonta' un po' dubbie. Il dibattito sull'esercito
professionale, inevitabile ormai, e altre forme di servizio alla comunita',
e' di estremo interesse, ma ora non possiamo trattarlo piu' a fondo.
4. Nominare i conflitti. Il conflitto sindacale
Allora, come si risolve la questione della gestione nonviolenta del
conflitto?
Dobbiamo almeno proporci alcune procedure mentali, e poi ciascuno cerchera'
di applicarle la' dove vive. Quando si parla di una "azione di movimento",
la metodologia e' questa: io mi convinco di alcune cose e poi cerchero' di
applicarle, esprimerle e farle conoscerle la' dove ho le mie relazioni
sociali, dove parlo con altre persone: nella scuola, nella mia famiglia,
nella professione, nel mio partito, nel sindacato.
La prima cosa da fare e' prendere l'abitudine di nominare sempre tutti i
conflitti, e di non avere paura dell'esistenza del conflitto. Il conflitto
c'e', e coprirlo e' sbagliato. Anche aver paura, vergogna, timore o senso di
colpa del conflitto e' sbagliato. Anche di fronte a tutti i malesseri,
riconoscere che ci sono e' ragionevole. Uno che dicesse che non c'e'
disoccupazione, non e' un benefattore dell'umanita', ma un cretino, perche'
la disoccupazione c'e'. Quando uno dice che la disoccupazione c'e', non
intende dire che e' una buona cosa, dice semplicemente che c'e'. Allora il
conflitto c'e', e ne esistono diverse forme.
Esistono ad esempio dei conflitti di interesse fra varie classi o ceti
sociali, e questo c'e'. Ed e' inutile dire che non esiste, oppure che
dipende dal fatto che gli uni hanno l'odio di classe e gli altri la
prepotenza dei padroni, spiegazioni moralistiche senza fondamento, che
comunque non aggiungono niente al fatto che il conflitto c'e'. Questo
conflitto esiste ed e' un conflitto di interessi. Il problema e' un altro.
Dobbiamo lasciare che si esprima selvaggiamente e vinca il migliore?
Tutta la storia del movimento sindacale ed operaio dimostra che e' stata
scelta un'altra strada: nominare i conflitti e cercare di trovare delle
procedure per governarli. Il fine del sindacato, infatti, non e' la
distruzione fisica dell'avversario, ma la sua riduzione a piu' moderate
richieste. Questo viene fatto attraverso una serie di comportamenti e scelte
di mezzi. La lotta sindacale per definizione e' la riduzione nonviolenta di
un conflitto che poteva essere sanguinoso, e che talora lo fu. Questo
conflitto viene tenuto sotto controllo, ma non nel senso che si dice che
hanno ragione gli operai o hanno ragione i padroni, o nel senso che non e'
vero che il conflitto esiste e basterebbe essere buoni. Questi interessi
sono realmente in conflitto fra di loro, e allora ci si organizza e si
stabiliscono le regole di gestione del conflitto e anche le forme di lotta.
Tra le grandi organizzazioni sociali nell'eta' moderna il sindacato e'
quella che ha scoperto e praticato forme di lotta nonviolenta. "Forma di
lotta nonviolenta" non vuol dire forma di lotta mite, o col sorriso sulle
labbra, ma piuttosto forma di lotta che esclude la distruzione fisica
dell'avversario, che sono dunque grandi manifestazioni, scioperi, picchetti,
etc. Questi strumenti cercano di compattare una forza e presentarla in modo
tale che poi si possa aprire la trattativa avendo manifestato la propria
forza. Questa e' una gestione nonviolenta del conflitto, e io voglio
cominciare proprio da questa, perche' molto spesso si crede che la gestione
nonviolenta del conflitto sia la non gestione del conflitto: si sta li' e si
prendono le sberle in faccia. Questa non e' gestione nonviolenta del
conflitto. La gestione nonviolenta del conflitto e' anche forte,
determinata, che vuol raggiungere degli obiettivi, e che solo esclude la
distruzione fisica dell'avversario, esclude dunque che il conflitto diventi
cruento. Ma il conflitto rimane tale e puo' esprimersi anche con forza: lo
sciopero, il picchetto, la grande manifestazione non sono cose che non
abbiano dentro di se' elementi minacciosi. C'e' un conflitto di interessi!?
Bene, io faccio mancare la mia forza lavoro e tu sei danneggiato.
L'esempio precedente significa che la gestione nonviolenta del conflitto
comporta anche danni. Ad esempio quando a proposito della difesa popolare
nonviolenta si dice che il sabotaggio e' ammesso, si legittimano anche atti
di forza come la distruzione di un ponte per fermare l'invasione del nemico.
Quando si parla di gestione nonviolenta del conflitto bisogna intendere una
cosa energica. Questa osservazione e' importante, perche' altrimenti si ha
sempre l'idea che l'azione nonviolenta sia una resa piu' o meno sorridente
ed eticamente nobile. Non e' questo. L'azione nonviolenta e' azione, e
quindi comporta metodologie, organizzazione, espressione della forza e uso
di mezzi.
L'unica cosa che si esclude e' la volonta' di distruzione dell'avversario, e
questo distingue teoricamente in maniera netta la gestione nonviolenta del
conflitto dalla guerra, che invece e' fondata sull'idea che il conflitto si
puo' eliminare distruggendo uno dei due contendenti. Questa e' la dialettica
amico-nemico, per cui la mia vita e' la tua morte, e non per cui la mia vita
e' la possibilita' di tenere a freno la tua prepotenza obbligandoti a pagare
qualche prezzo. Questa e' la gestione nonviolenta del conflitto. La prima e'
la guerra, o gestione violenta dei conflitti, che significa non solo uso
delle armi e versamento di sangue, ma significa soprattutto l'idea che il
conflitto si possa risolvere solo cancellando uno dei due contendenti. La
dialettica amico-nemico e' fondata sull'idea che se io campo tu devi morire.
La guerra si basa sull'idea che il conflitto si risolve riducendolo, e
d'altra parte per ridurre il conflitto si hanno quelli che dalla guerra del
Golfo in poi si chiamano effetti collaterali. La morte dei nemici si chiama,
infatti, "effetto collaterale". Durante la guerra gli americani dicevano ad
esempio: "abbiamo avuto 400 morti, e poi abbiamo avuto alcuni effetti
collaterali", e cioe' sono morti qualche decina di migliaia di iracheni. Si
tratta degli effetti collaterali di un'operazione chirurgica.
Una delle invenzioni piu' clamorosamente geniali della guerra del Golfo e'
l'uso dei simboli linguistici, che, non a caso, sono stati studiati nei
dipartimenti di linguistica delle universita' americane su commissione del
Pentagono, perche' oramai - lo dico con vergogna - i generali sono diventati
intelligenti. Hanno cosi' tanti soldi che possono comprare quasi tutte le
universita'. Il complesso industriale-militare-scientifico e' l'aggregato di
potere piu' strepitoso ed enorme che ci sia al mondo. E i militari sono i
migliori committenti che qualsiasi scienziato o produttore possa
immaginarsi, perche' chiedono solo una tecnologia che si usa una volta e poi
scoppia e non serve piu'. Quindi tutti gli studi che si fanno sul
riciclaggio, sulla conservazione dei materiali, sull'utilizzo delle macchine
sono una rogna non da poco per chi produce. Al contrario i militari chiedono
una cosa che scoppia, e che poi se ne fa un'altra.
Sono tecnologie molto elementari, queste. Comunque i militari sono ottimi
committenti, hanno soldi a non finire e quasi nessun controllo. E'
sufficiente pensare che la gestione dei 20.000 miliardi all'anno messi da
parte nelle finanziarie per il nuovo modello di difesa sono dati, a
prescindere completamente dalla situazione economica generale, senza
resocontazione. C'e' da sperare che siano utilizzati per amanti, ville,
caviale, champagne, che almeno non fanno danni, perche' se sono stati usati
davvero per armi allora c'e' da aver paura.
*
5. Il conflitto fra i generi. Azione nonviolenta
Abbiamo forse incominciato ad approssimarci all'idea di cosa sia la gestione
nonviolenta del conflitto. Primo e' la sua nominazione: si riconosce che
c'e' un conflitto, lo si chiama per nome e cognome. Ad esempio puo' essere
un conflitto di interessi fra le classi, i ceti, le professioni, un
conflitto economico che riguarda l'accesso alle risorse, il loro utilizzo e
la loro trasformazione in merci, e quanto viene appropriato da chi mette il
suo lavoro e da chi rischia il suo capitale, classicamente, sia pure oggi in
modo piu' sofisticato e piu' complesso. Si possono evocare anche altri
conflitti.
Ad esempio esiste un conflitto di interessi fra genere maschile e genere
femminile, che non e' la stessa cosa che dire che esistono conflitti fra il
singolo uomo e la singola donna. Esistono anche questi, ma possono anche non
esistere, visto che ci sono coppie felici all'interno delle quali non
esistono conflitti. Ci sono partiti o sindacati dove le donne sono
felicissime di come sono trattate, rappresentate, messe in lista o nelle
candidature, fatte riuscire nei posti piu' strepitosamente importanti, e va
benissimo. Ma lasciando stare queste isole felici, esiste tuttavia un
conflitto di interessi fra i due generi.
Questo conflitto di interessi e' storico e dipende dal fatto che le vicende
della storia hanno portato al fatto che uno dei due generi sia dominante,
nel senso che, per esempio, nominando se stesso pretende di nominare
l'intera specie umana. Avrete sentito parlare fino alla noia dei valori
dell'uomo. Magari una donna dice 7000 volte: dobbiamo difendere i valori
dell'uomo. Ma che se li difendano gli uomini i loro valori. Io vorrei
difendere i valori delle donne, ad esempio. Perche' non posso dirlo? Si
risponde: quando si dice uomo, si intende anche donna, tanto siamo uguali.
Allora io dico: siccome siamo uguali, io dico donna, e intendo anche uomo. E
si capisce subito che non e' uguale, perche' se io dico di difendere i
valori della donna, nessuno capisce che sto parlando anche dei valori
dell'uomo. Questo significa che uno dei due generi e' riuscito, essendo
dominante, a imporre che la sua denominazione valga come neutro universale.
Si tratta di un'operazione di una genialita' strepitosa, che maschera il
conflitto.
Quando affermo che il genere maschile e' il genere dominante intendo
offendere gli uomini, perche' considero "dominio" una parola oscena.
Qualunque democratico che lotta contro il dominio delle multinazionali, non
puo' essere contento di essere considerato lui stesso dominatore, altrimenti
c'e' una contraddizione insanabile: "Lottare contro il dominio delle
multinazionali e' utile, ed io eserciterei un dominio sull'altro genere?
Dovrei vergognarmi".
Comunque c'e' questo dominio storicamente consolidato, che si manifesta
negli usi linguistici e soprattutto nella ripartizione del potere pubblico e
sociale, e nel fatto che il genere femminile viene ammesso non
contemporaneamente all'esercizio dei diritti: valga per tutti l'esercizio
del voto come forma della cittadinanza. Generalmente si chiama suffragio
universale quello di tutti gli uomini, che e' l'espressione piu' tipica di
questo gioco mentale per cui tutto il genere maschile e' uguale alla specie
umana. Le donne prima devono chiedere di poter votare, di poter andare
all'universita', di poter esercitare tutte le professioni. Nella storia del
femminismo si ricordano una serie di episodi curiosi, come quello di una
laureata in giurisprudenza che fece domanda per partecipare a un concorso
nella magistratura quando ancora le donne non erano ammesse, e la domanda fu
respinta perche' "mancante del requisito del sesso". Nel senso che la tipa
era sessuata, ma non era del sesso giusto, essendo una donna. A questo punto
si chiede che questo requisito venga almeno considerato per com'e' in natura
nelle sue due forme. Tutto questo riduce questo conflitto gradatamente, per
lo piu' attraverso delle lotte nonviolente.
Queste lotte nonviolente non sono dolci, perche' generalmente dal
suffragismo in poi l'espressione della rabbia delle donne per essere escluse
dal godimento dei diritti politici e civili non si esprime in termini
gentili: se mi ami concedimi il diritto di voto. Si esprime in forme molto
dure: vergognatevi di tenerci fuori dal potere, cedete, mollate il potere
della rappresentanza, riconoscete questo diritto.
Dal movimento del suffragismo in poi anche questo movimento di
rivendicazione dei diritti politici e civili mette all'ordine del giorno
nella storia il conflitto fra i generi, conflitto che era a lungo rimasto
sedato, nascosto, gestito in forma di dominio da una parte e di pressione
anche non consapevole dall'altra. Quando questo conflitto diventa
consapevole, esso assume fin dalle suffragiste inglesi, e questa e' la cosa
interessante, forme e metodi di espressione nonviolenti.
Le suffragiste inglesi invadono il parlamento e gettano volantini sulla
testa dei deputati che stavano discutendo dei "bastardi", cosi' si
chiamavano i figli illegittimi nella legislazione inglese. In questo
volantino c'era scritto: forse ci sono dei genitori illegittimi, certamente
non ci sono dei figli bastardi, quindi evitate questa definizione, i figli
sono tutti legittimi, forse i genitori quando li concepirono potevano non
essere legati in matrimonio secondo le norme stabilite dal codice, ma questo
non implica alcun giudizio sul frutto del concepimento. Oppure le
suffragiste si legavano alle colonne davanti al parlamento e si sedevano per
terra, cosa scandalosissima ai loro tempi, ed anche molto complicata con gli
abiti che portavano, e i poliziotti e spesso anche i militari a cavallo
inglesi non avevano il coraggio di calpestarle e quindi si fermavano. Queste
forme di lotta come il volantinaggio, il legarsi ai simboli delle
istituzioni e il sit-in sono stati inventati dal movimento suffragista e
sono poi diventati patrimonio del movimento politico delle donne.
Gandhi ha studiato le forme di lotta del suffragismo inglese e ha ricavato
molte delle sue teorizzazioni sull'azione nonviolenta da li'. Anzi ha
elaborato una specie di osservazione sulle varie fasi a partire da quella in
cui un movimento rompe gli equilibri culturali, cioe' nomina un conflitto,
lo fa diventare visibile nella storia: i movimenti che rompono l'equilibrio
in un primo momento vengono ignorati, perche' si spera in questo modo che il
movimento si esaurisca da se'. Questa e' una forma di guerra, perche'
ignorare vuol dire cancellare l'esistenza, e' come dire: io campo se tu non
ci sei. Dunque prima vengono ignorati, seppelliti nel silenzio. Poi sono
colpiti dal ridicolo. Infatti, non a caso le suffragiste furono chiamate in
questo modo, dette generalmente zitelle insoddisfatte, che se avessero
trovato qualche marito avrebbero smesso di chiedere il diritto di voto. E
generalmente le barzellette sulle suffragiste si sprecano. Oggi ci sono
quelle sulle femministe, tutte lesbiche, tutte maledonne, tutte nemiche
degli uomini, tutte castratrici. Dopo il ridicolo c'e' la repressione: le
suffragiste vennero anche messe in galera per vilipendio della nazione, per
offesa alla morale pubblica e cosi' via. Infine, quando si superano questi
tre livelli si entra nella storia. Pare che sia cosi', secondo Gandhi.
Quindi bisogna aspettarsi il silenzio, l'irrisione, la repressione, e se si
tiene duro, si diventa un movimento che pratica la sua azione politica
nonviolenta in modo ormai ammesso.
Voglio ricordare che invece negli Stati Uniti il movimento suffragista
incomincio' subito a praticare delle alleanze significative e comincio' ad
esercitare una cosa che non c'era nel movimento inglese, ma che e' presente
nel movimento sindacale, e cioe' la disobbedienza civile e il non rispetto,
tranquillo e nonviolento, delle leggi esistenti. Siccome il codice
matrimoniale americano era fondato sulla subordinazione della donna
all'uomo, della moglie al marito, le suffragiste americane generalmente si
sposavano facendo una dichiarazione di non rispetto del codice, e qualche
volta veniva loro percio' rifiutato il matrimonio. Generalmente i due erano
d'accordo, e dunque si realizzava una gestione del conflitto fra i generi in
cui uno era un disertore, rompendo la solidarieta' del suo branco. Dunque,
fa parte dell'azione nonviolenta anche il non riconoscimento tranquillo
delle leggi esistenti, la disobbedienza civile alle leggi.
Le suffragiste americane fecero anche disobbedienze piu' significative di
questa, che pure era importante in una societa' puritana: generalmente le
suffragiste americane ospitavano gli schiavi neri che scappavano dal sud.
C'e' una storia comune d'alleanza: un movimento di gestione nonviolenta dei
conflitti spesso sente l'esigenza di un'alleanza con le situazioni piu'
marginali e difficili della societa'. Moltissimi schiavi neri che scappavano
dagli stati del sud imparavano il nome di una donna che li ospitava nella
loro casa e che indicava loro un altro nome, fino a che non arrivavano al
nord. Anche questa era un'azione illegale, perche' le suffragiste ospitavano
persone scappate da una condizione di legale schiavitu' nello stato in cui
erano.
Allora, nell'azione nonviolenta, nella gestione nonviolenta dei conflitti,
incominciamo a introdurre un nuovo elemento rispetto alle metodologie che
abbiamo visto nel movimento sindacale e in quello suffragista: si puo' anche
mettere in discussione la legalita' esistente, si puo' anche disubbidire
alle leggi, non sottraendosi alle sanzioni che eventualmente colpiscono. Se
infatti qualcuna di queste donne veniva scoperta, era naturalmente
processata. Questo comporta un altro aspetto della gestione nonviolenta dei
conflitti, che richiede un grande coraggio civile.
Di nuovo, se prima avevo detto che l'azione non violenta e' azione, non e'
passivita', cosi' pure l'azione nonviolenta e' anche grande coraggio civile,
esposizione, assunzione di responsabilita', fino alla rinuncia temporanea
della propria liberta' assoggettandosi ad un processo, con l'intenzione di
dimostrare che c'e' una legge ingiusta che va modificata. L'intendimento e'
ottenere un futuro riconoscimento giuridico alla giustezza della propria
azione.
E' lo stesso tipo di testimonianza che viene richiesta all'obiezione di
coscienza al servizio militare. Inizialmente l'obiezione di coscienza e' il
rifiuto di obbedire ad una legge dello stato, ed in se' e' illegittima.
Eppure questa disobbedienza e' cosi' forte, parla cosi' tanto che prima o
poi modifica la legge. E quindi l'obiezione di coscienza diventa legale.
Su un altro terreno si puo' dire che la lunga omerta' intorno all'aborto,
tollerato benche' fosse un reato, e' stata rotta dall'azione nonviolenta
delle donne che hanno detto: vogliamo che questo problema venga preso in
considerazione, come un problema di cui pubblicamente si parla, e quindi
violiamo la legge, addirittura facciamo dichiarazione di averla violata.
Sapete quante di noi hanno firmato false dichiarazioni di aver abortito per
suscitare il dibattito, in modo da poter poi ottenere una modifica della
legge.
La gestione nonviolenta del conflitto sposta in avanti il conflitto. Mi
interessa molto che si capisca e spero che sia utile trasmettere questa idea
specialmente alle giovani generazioni, che la gestione nonviolenta dei
conflitti e' una cosa che richiede grande determinazione, grande capacita'
organizzativa, grande solidarieta'. La gestione nonviolenta del conflitto
non e' cosa da pappemolli, non e' una cosa semplicemente passiva, puramente
esigenziale. E' una vera politica, tanto e' vero che si propone di ottenere
una modificazione degli assetti giuridici.
6. I conflitti fra gli stati e la sovranita'
Fino a questo momento abbiamo incontrato due movimenti che sono incarnati da
soggetti ben visibili: il proletariato e le donne che sono consapevoli di
esserlo. Perche' per essere donna non e' sufficiente sapere di chiamarsi
Maria, bisogna anche sapere di essere una donna, e questo non sempre
succede. Molte donne assumono una totale identificazione con il modello
maschile senza grandi contraddizioni interne.
Ci sono altre forme di gestione nonviolenta del conflitto, che possono
riguardare ad esempio il conflitto fra il genere umano e la natura, che
invece non ha parola, e che solo puo' mandarci i suoi disperati messaggi
desertificandosi, cambiando il clima o franando rovinosamente. Questi sono i
messaggi che manda la natura. E pero' perche' diventino politicamente
efficaci occorre che qualcuno se ne faccia carico. Anche in questo caso
occorre nominare il conflitto. Esiste un conflitto fra gli equilibri
naturali, l'accoglibilita' del pianeta, la compatibilita' ambientale e i
nostri comportamenti, che si rivelano particolarmente violenti nei confronti
della natura.
Ora, tuttavia, e' venuto il momento di affrontare il problema dei conflitti
fra gli stati.
Se consideriamo la gestione nonviolenta dei conflitti, e cerchiamo di
applicarla a quei conflitti piu' specificatamente politico-militari che
generalmente sfociano in guerre, possiamo individuare come si puo' fare una
gestione nonviolenta dei conflitti che siamo abituati a chiamare
propriamente politici, quelli fra gli stati. Qui, pero', ci fa ostacolo una
cosa consolidata: mentre posso dire: "sei dominante e vergognatene!" al
genere maschile, mentre posso dire che il genere maschile e' violento
rispetto a quello femminile, oppure che il genere umano e' violento rispetto
alla natura, quando si arriva agli stati questo non e' piu' possibile,
perche' l'uso della violenza da parte degli stati si chiama forza, ed e'
legittimato. Quando uno stato usa la violenza, questa violenza si chiama
forza, ed e' riconosciuta dalle leggi. Anzi generalmente i politologi
ritengono che lo stato rinuncia all'uso della violenza al suo interno,
perche' non uccide in modo discriminato i suoi cittadini e riconosce delle
leggi a tutela della loro vita, dei beni e dei loro interessi, e riceve dai
cittadini in cambio la legittimazione a usare la violenza contro gli altri.
Questa e' la legittimazione popolare della guerra. Tu non fai guerra a me,
mi difendi, mi lasci vivere, e io pero' ti lascio fare la guerra agli altri.
Tocchiamo in questo modo una questione molto delicata e importante: come si
fa a togliere legittimita' alla violenza quando, essendo esercitata dagli
stati, si chiama forza? Qui bisogna lavorare su una cosa che c'e' nella
nostra Costituzione, lavorare per la riduzione del tasso di assolutismo che
e' incluso nel termine sovranita'. La "sovranita'" e' un termine
assolutista. Nell'articolo della Costituzione in cui si dice che l'Italia e'
disposta a rinunciare a porzioni della sua sovranita' purche' questo avvenga
anche dall'altra parte, c'e' una prima pista di ricerca sulla possibilita'
di riduzione del tasso di assolutismo che ancora e' incluso nell'idea di
stato, anche democraticamente ordinato, quando gli si riconosce, come erede
del sovrano assoluto, una certa porzione di sovranita'.
Dobbiamo introdurre anche in questo caso una metodologia nonviolenta: uno
stato puo' rinunciare ad una porzione della sua sovranita' purche' in modo
bilaterale.
Ad esempio, sui confini degli stati europei esistono spesso delle
popolazioni miste. Se si facessero una serie di regioni sui confini, queste
dovrebbero nascere con una reciproca rinuncia di porzioni di sovranita'
degli stati confinanti. Per esempio il Sud Tirolo - io abito a Bolzano e
quindi questo esempio mi viene subito in mente - potrebbe essere ridisegnato
con una reciproca ed uguale riduzione di sovranita' da parte dell'Italia e
dell'Austria e finire di essere uno dei possibili focolai di conflitti in
Europa. Probabilmente il gioco varrebbe la candela. Mentre tutte le
politiche di "pulizia etnica" tentate da Hitler e Mussolini in Alto Adige
nel '39, di divisione rigorosa delle risorse e delle popolazioni, di
continui ricorsi a istituzioni internazionali mediatrici non risolve il
conflitto e lo lascia sempre sotto la cenere, un'applicazione della
riduzione di sovranita', purche' reciproca, potrebbe essere una soluzione.
Questa potrebbe essere una soluzione standard che, nella costruzione
dell'Europa, si applica abitualmente a tutti quei confini degli stati
nazionali europei sui quali ci sono popolazioni miste, oppure su tutti quei
confini di montagna abitati da popolazioni per le quali il confine non e'
rappresentato dal crinale di montagna ma dalla pianura. Ad esempio i Baschi
sono di qua e di la' dei Pirenei, e il paese basco finisce dove inizia la
pianura. Lo stesso vale per le popolazione del Ticino e della Valtellina e
per le popolazioni tirolesi del nord e del sud, per le quali le Alpi non
sono il confine ma il loro territorio, il confine sono le pianure di qua e
di la'. Questo serve anche per ridurre un po' l'assolutezza dell'idea di
confine, che e' una delle idee piu' infondate che esistano: non esistono
confini naturali, pero' in loro nome si versano fiumi di sangue e lagrime.
L'assolutezza dell'idea di confine genera anche episodi ridicoli. Ad esempio
quando e' stata trovata una mummia sul Similaun un giornale di Bolzano
titola "Huetzli - che vuol dire líomino della valle di Huetz - era
italiano", perche' e' stato trovato un po' di qua dal confine. Uno per il
quale la parola "italiano" come pure "tedesco" non significava niente per i
tempi in cui e' vissuto, viene assimilato ad una comunita' nazionale in
virtu' della forza dell'idea di confine.
Quando arriviamo alla gestione nonviolenta dei conflitti politici, la prima
cosa in cui ci imbattiamo e' l'assolutezza o l'assolutismo incluso nell'idea
non discutibile di sovranita' dello stato. In primo luogo, bisogna lavorare
per rendere attuale quel pezzo dell'art. 11 della Costituzione in cui si
parla di rinuncia reciproca di sovranita' fra stati, che e' uno dei principi
su cui si puo' fare l'Europa. In secondo luogo, se veniamo ai conflitti
politici piu' tormentosi, che possono sfociare in situazioni tremende - ho
citato il Libano e la Liberia, ma si possono ricordare il Ruanda, il Sudan
etc. - bisogna attrezzarsi diversamente da quanto fatto sinora. Tutti questi
confitti vanno nominati subito, e bisogna agire in modo preventivo. Poi,
bisogna dire un cosa che e' fondamentale nella fondazione di una cultura di
pace: il pacifista o la pacifista pu' agire solo fino a quando la guerra non
c'e', perche' quando la guerra e' scoppiata puo' solo dichiarare la sua
sconfitta. Tutte le volte che scoppiano le guerre c'e' qualche bello spirito
che dice: cosa fanno i pacifisti?
I pacifisti avevano gia' fatto prima: hanno detto che la guerra non si
doveva cominciare. La gestione nonviolenta del conflitto politico e' che non
bisogna passare alla guerra. Sto per dire: a nessun costo. A questo
proposito, sono in disaccordo con quei pacifisti che hanno legittimato
l'intervento in Bosnia, per esempio, nonostante che sappia che era quasi
impossibile resistere alla violenza dei massacri che si vedevano. Ma credo
che nemmeno in questo caso si possa intervenire. Le guerre si possono solo
prevenire. Quindi bisogna nominare i conflitti appena si manifestano,
analizzarli, trovare quali sono gli strumenti per raffreddarli. Questi
strumenti possono essere vari: mediazioni, arbitrati, separazione di
interessi. Tutta la diplomazia puo' lavorare in questo campo, e pero' e'
necessario che sia una diplomazia addestrata a segnalare i conflitti prima
che diventino acuti.
Una volta avevo pensato ad una modifica del piano di studi della Farnesina:
va bene che la nostra rappresentanza diplomatica sia in grado di organizzare
splendidi ricevimenti, o anche di segnalarci se qualche italiano e' rimasto
coinvolto in un disastro aereo, ma ci sappiano anche dire se la' dove sono
sta per scoppiare qualche cosa. E' possibile che sui nostri giornali non ci
fosse niente che lasciasse presumere quello che stava per succedere in
Liberia? E' gia' successo altre volte: non abbiamo mai informazioni
adeguate. C'e' un'abitudine passiva della diplomazia italiana che segnala i
conflitti solo quando sono scoppiati. E' necessario che siano segnalati
prima, e che ne siano individuate le cause, cosi' potremo sapere per tempo
per quale ragione mai, quando succede una cosa in Liberia, si scopre che la'
c'erano tre o quattro funzionari di Mediobanca. Per me e' misteriosissima la
ragione per la quale Mediobanca deve stare in Liberia, pero' vorrei sapere
perche'. Cos'era la da commerciare? Che tipo di crediti apriva? Per le armi
al potere detto legittimo? Spero che non fossero li' per contrattare armi ai
cosiddetti "insorti". E' possibile tutto. Quando non si hanno informazioni
si e' legittimati ad avere i peggiori sospetti. Dunque il conflitto deve
essere nominato per tempo, prima che si manifesti. Preferisco un
ambasciatore che mi dica: "qui fra cinque anni puo' scoppiare qualcosa", che
non uno che mi avvisi la mattina in cui e' scoppiato.
Dinanzi a tale preavviso si ha il dovere di mettere in atto come comunita'
internazionale tutti i meccanismi di arbitrato ed anche di blocco, che e'
uno degli strumenti di cui la comunita' internazionale puo' servirsi per la
carta delle Nazioni Unite. Ma quale blocco? Tutti i blocchi che sono stati
sinora realizzati e che sono ancora in corso, contro gli iraniani, contro o
libici, contro i serbi - e non a caso nomino i popoli invece che gli stati -
sono blocchi contro i popoli, perche' sono blocchi anche dei generi
alimentari e dei prodotti medici. Si tratta di blocchi politici contro i
popoli con l'idea che cosi' fanno saltare i loro governi. Questo si chiama
intervento, considerazione della sovranita' limitata di altri popoli senza
reciprocita'. Mentre l'unico blocco che si deve fare e' quello delle
forniture militari: questo e' l'unico vero strumento di gestione nonviolenta
del conflitto politico. Poi si dice: tanto poi in Jugoslavia si prendono a
mattonate. Meglio! Cosi' il cecchino a mattonate non puo' ammazzare nessuno.
Non e' che il non invio delle armi cancelli la violenza, ma comunque ne
riduce moltissimo l'intensita' e gli effetti, e dunque giova a raffreddare
la situazione. Quando il conflitto va evitato, bisogna usare tutti gli
strumenti di arbitrato e blocco per sottrarre strumenti al possibile
degenerare violento del conflitto. Quando il conflitto e' ormai degenerato
bisogna mantenere il blocco piu' assoluto degli armamenti.
L'altra cosa necessaria e' la dichiarazione internazionale di legittimita'
della diserzione. Questo bisogna fare, e cioe' dire: "Scappate da quel
conflitto, rifiutate, disobbedite a questo ordine violento". Come si fa
negli incendi di bosco, quando si taglia tutto intorno, cioe' non si mandano
armi, non si versa benzina sul bosco incendiato, e si sta li' con qualche
coperta, e se viene fuori qualche scoiattolo, gli spegni il fuoco addosso e
si salva. Di fronte a un conflitto bisogna dichiarare la legittimita' della
diserzione. Cosi' quando noi mandavamo indietro dal confine giuliano quelli
che venivano dalla ex-Jugoslavia, facevamo una grande violazione del diritto
umanitario internazionale. Se la Svezia e il Canada non avessero ospitato
alcune decine di migliaia di disertori americani dalla guerra del Vietnam,
questa guerra avrebbe forse avuto un esito diverso. Pero' lo hanno fatto.
Questi stati hanno riconosciuto il diritto degli americani che ricevevano la
cartolina per andare in Vietnam, a fare un atto di diserzione. Analogamente
c'erano degli intellettuali americani che chiedevano ai ragazzi di bruciare
la cartolina di precetto, e moltissimi professori americani si rifiutarono
di fare da selettori per l'esercito: in Vietnam, naturalmente, prima sono
stati mandati i disoccupati, i neri e poi alla fine, poiche' avevano bisogno
di tanti altri, hanno richiesto gli studenti che prendevano brutti voti
all'universita'. E' un criterio di utilita' relativa: se uno e' bravo non lo
mandiamo in Vietnam, se uno e' uno studente un po' sul bocciato, allora lo
mandiamo. I professori universitari dettero da quel momento in poi trenta a
tutti: non potete chiedere a me di mandare uno a farsi ammazzare perche' non
sa la fisica. Non sara' mica una condanna a morte, non sapere la fisica.
Anche in questo caso c'e' stata un'azione di disobbedienza civile molto
importante sostenuta anche internazionalmente da Canada e Svezia, che non si
limitarono a proclamare "e' legittimo disertare", ma poi accolsero i
disertori. Qui c'e' una difficolta', perche' generalmente siamo molto
prodighi di grandi affermazioni di diritto internazionale, ma quando poi
arrivano ai nostri confini, diciamo: tornate indietro perche' siete sotto
leva. Non solo, ma poi bisogna che gli stati che dicono "disertate" nello
stesso tempo proclamino "e avete il diritto di tornare a casa vostra quando
la guerra e' finita se lo desiderate". Anche questo diritto deve essere
internazionalmente tutelato.
Come vedete ho indicato solo alcune delle possibili piste di ricerca e di
azione per rendere popolare, far diventare il ripudio della guerra una
specie di reazione obbligata, una specie di riflesso condizionato. Bisogna
uscire dall'enfasi retorica: "che grande e' la nostra Costituzione, ripudia
persino la guerra". Poi pero' la facciamo.
Bisogna imparare a gestire i conflitti, e la gestione del conflitto e' una
cosa che richiede grande determinazione, alto livello di coscienza, senso di
responsabilita', capacita' di disobbedienza, non disobbedienza testimoniale
o martirologica individuale, ma disobbedienza collettiva e politica che
produca un mutamento degli ordinamenti. A questo attribuisco una grande
speranza per il futuro.
Se dovessi guardare invece alla passivita' con cui le guerre vengono
accettate, sarei molto triste. Credo che la cosa ultima che dobbiamo fare e'
d'ora in avanti, se siamo convinti di questo, non lasciar piu' passare senza
l'espressione del nostro dissenso nulla che sia contraddittorio con questa
ipotesi di gestione nonviolenta dei conflitti. Ad esempio, se la TV pubblica
fa propaganda, come pubblicita', per delle pubblicazioni che magnificano le
grandi battaglie navali della seconda guerra mondiale o le armi piu'
sofisticate, bisogna protestare: "noi non siamo d'accordo, questa cosa e' in
contrasto con l'art. 11 della Costituzione, se continuate cosi' facciamo una
campagna di non pagamento del canone, facciamo calare l'audience".
La gestione nonviolenta dei conflitti richiede un alto livello di coscienza
politica, una assoluta abitudine di controllo, e un esercizio quasi
quotidiano della cittadinanza. Questa cosa si chiama partecipazione.

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