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Il Labirinto del dolore

 di Arnaldo Casali

Finalmente un film di Nanni Moretti sarà ricordato per la storia che racconta, e non per battute-tormentone da raccogliere sulle recensioni o da stampare su una maglietta.

Frasi come “Continuiamo così, facciamoci del male”, “Chi parla male pensa male e vive male”, “Sono uno splendido quarantenne” o “D’Alema, dì qualcosa di sinistra”, ne La stanza del figlio, ultima fatica dell’attore-autore-regista-produttore-distributore-esercente, non ce ne sono.

Il nuovo film di Nanni Moretti sembra, al contrario, voler rovesciare tutti gli stereotipi del cinema morettiano, quasi in antitesi con il precedente Aprile (uscito tre anni fa), e non solo perché lì si parlava di un figlio che nasce e qui di un figlio che muore: tanto era leggero, egocentrico, narcistista, autocelebrativo, ma anche politico, immerso nella società contemporanea, frammentario e gridato Aprile, altrettanto sobrio, lineare, intimista, raccontato e interpretato è La stanza del figlio.

Nanni Moretti era diventato famoso con personaggi “autarchici”, isterici, sputasentenze, incapaci di entrare in sintonia con la società, che cercano di definire la propria tormentata identità politica e culturale con slogan e prese di posizione radicali. Ne La stanza del figlio, invece, non ci sono giudizi o sentenze sulla società: il protagonista del film, uno psicanalista, è molto più proteso verso gli altri (costretto anche dal suo lavoro, ma anche il prete de La messa è finita avrebbe dovuto esserlo) e mette in discussione sopratutto sé stesso. 

Di fatto, la stampa ha espresso giudizi molto positivi: Paolo D’Agostini, su Repubblica, ha scritto che “L’ex ragazzo ha trovato il coraggio di essere uomo” affrontando il tema del dolore “con la semplicità che trasforma la banalità in universalità”. Ma c’è anche chi ha trovato delle pecche nella trattazione del tema del lutto, come Goffredo Fofi che critica “Una lettura primaria dei casi della vita che è tipica di autori italiani blandamente cattolici o pesantemente laici” e accusa Moretti di nascondere sotto un minimalismo di maniera “una idealizzazione del ceto medio e delle sue inquietudini”. Insomma, Moretti non è stato minimalista fino in fondo, non ha fatto una scelta stilistica radicale.

Stefano Bartezzaghi, su Repubblica, si è avventurato in un’interpretazione curiosa: il personaggio di Moretti è un moderno Dedalo intrappolato nel suo stesso labirinto di dolore fatto di stanze  bianche, anonime (quelle dell’abitazione) tra le quali si aggira. Come Dedalo, perde il figlio, Icaro, perchè non riesce a trattenerlo presso di sé; nel film, come nel mito, il figlio affoga in mare; inoltre il personaggio che aiuta Moretti ad uscire dal “labirinto” si chiama Arianna, e le foto che porta con sé mostrano la stanza del figlio, la cui visione rappresenta l’uscita, il superamento dell’impasse del dolore.

Il dibattito è aperto. Resta il fatto che il film non può non coinvolgere perché, per riprendere le parole di D’Agostini, “coglie il senso generale delle cose raccontando i semplici, comuni, piccoli grandi fatti della vita e di ogni vita”.

Moretti ha presentato La stanza del figlio a Terni in occasione della prima ternana del film: ha incontrato il pubblico al multisala Fedora per un dibattito che si è svolto dopo la proiezione del film e al quale ha partecipato - tra il pubblico - anche Gaia De Laurentis, che attualmente sta girando in città la seconda serie di Sei forte maestro.

Il montaggio

«Il montaggio di questo film - ha esordito Moretti -  è stato molto lungo e faticoso, curiosamente più delle stesse riprese. Se si fanno 12 ciak, la segretaria di edizione segna quei tre o quattro che vengono considerati buoni, e solo quelli vengono portati in moviola. Invece io questa volta non avevo scelto i ciak buoni e quindi mi sono rivisto tutto il materiale che avevo girato».

Ancona

«Ho sentito il bisogno di ambientare questo film lontano da Roma, dove erano ambientati gli altri, volevo una piccola città perché queste piccole storie non si perdessero nell’anonimato, e poi avevo bisogno di una città di mare. 

Mi sono trovato così bene che le riprese dovevano durare due mesi e mezzo e alla fine ce ne abbiamo messi sei. Laura Morante, che aveva capito subito tutto, appena arrivata ha affittato una casa e ha iscritto la figlia ad una scuola di Ancona»

Il prete e l’analista

«Mi andava molto di interpretare questo personaggio, e non c’entra niente col prete della La messa è finita; sgombrerei il campo da tutte queste ovvietà che si dicono sul fatto che questi due mestieri hanno dei tratti in comune. Mi interessava interpretare questo personaggio, e farlo oggi: se lo avessi fatto 15 anni fa, ai tempi de La messa è finita, sarebbe stato molto diverso, i suoi rapporti con i pazienti sarebbero stati diversi, sarebbe stato più intollerante. Mi sembrava venuto il momento giusto per interpretare questo personaggio in maniera matura».

La Sacher Film e i film internazionali

«Quando 15 anni fa io e Barbagallo abbiamo fondato la Sacher Film, c’era il luogo comune che bisognava fare dei film internazionali; mi ricordo che a metà degli anni '80 c’era la tiritera di dire: “Questi film italiani che non varcano mai la frontiera, queste storie che non interessano all’estero” ; e si diceva che la lingua non si capiva e allora bisognava girare i film in inglese, grosse coproduzioni. Così in quel periodo si facevano film con cast internazionali, girati un pezzo a Parigi, un pezzo a Madrid e un pezzo in Italia (sempre a Venezia o a Firenze), sceneggiature che facevano il giro del mondo perché dovevano piacere a tutti, ma che di fatto erano film senza radici, che non raccontavano nulla e alla fine non piacevano a nessuno. Noi, con la Sacher avevamo fatto questa scommessa, tornare a raccontare delle storie italiane con attori italiani, non film “alla Moretti”, e nessuno dei film che abbiamo prodotto lo è: Mazzacurati, Luchetti e Calopresti hanno ognuno il suo mondo poetico. Ci interessava ricominciare a connontare questo paese con i nostri mezzi. Se poi potevano andare in giro per il mondo, come è capitato, questo è avvenuto a patto che avessero delle radici e delle particolarità. Sui registi che ho prodotto io non sono oggettivo, ma ce ne sono altri: direi Archibugi, Virzì, Soldini, Giordana e tanti altri registi che raccontano ognuno a loro modo questo paese».

Raccontare il dolore

«Mi chiedono come ho fatto a raccontare un dolore così intenso senza averlo provato. Beh, credo che sia un po’ il mio lavoro. E poi ognuno di noi da una parte ha le sue perdite, i suoi morti, e dall’altra  ha le sue paure e i suoi fantasmi. Tutte queste cose insieme hanno prodotto questo risultato che come obiettivo però non ha quello di far star male le persone. A volte c’è un compiacimento nell’angosciare le persone. Io non credo che sia un film angosciante perché non ha una visione cupa dell’esistenza. E’ un film che racconta come anche in queste situazioni terribili e inaccettabili si possa e si debbano trovare delle risorse che ci fanno andare avanti».