Giulio Vaggi, uomo di pace

di Mario Pancera

L’ingegner Giulio Vaggi, il primo direttore laico del quindicinale «Adesso» ideato da don Primo Mazzolari, è morto a Milano il 26 febbraio 2005. Al nostro «Adesso», Giulio Vaggi aveva rilasciato un’intervista pubblicata sul n. 31 della primavera 2004. È stata la sua ultima fedele testimonianza su un sacerdote, un giornale e un periodo storico assai importanti per la Chiesa e per il mondo.

 

La mattina del 28 febbraio sono stato al funerale di Giulio Vaggi, la giornata era fredda, c’era neve ghiacciata per terra, ma splendeva il sole. Mi sono ricordato di una giornata simile, a Modena, il 6 gennaio 1951, un giorno storico per Vaggi, don Primo Mazzolari e i loro amici, quello del convegno delle «Avanguardie cristiane» che si riconoscevano nelle istanze di «Adesso». Anche allora gelo, ma con il sole. Al funerale, oltre alla famiglia e agli amici, c’erano vecchi operai della Edison Gas di Milano, che ringraziavano il loro ingegnere, dal quale dicevano, avevano tanto imparato in serietà, onestà, preparazione. Anche loro facevano parte di quell’atmosfera limpida. Sul piazzale della chiesa mi sembrò d’essere tornato indietro di cinquant’anni.

Giulio Vaggi ha praticamente da sempre conosciuto don Primo Mazzolari, amico di famiglia e per anni in corrispondenza con la madre. In quella vasta rete di famiglie operose ma poco note, che col lavoro e con le idee danno robustezza alla cattolicità italiana, la famiglia Vaggi è stata certo tra le più attive. Il caso ha voluto che fosse anche imparentata con i Greppi, dei quali uno, l’avvocato Antonio Greppi, fin da giovane avrebbe collaborato agli stessi giornali di Mazzolari, e sarebbe poi diventato un esponente socialista di primo piano. Primo sindaco di Milano dopo la Liberazione (suo figlio Mario, ucciso dai fascisti, è medaglia d’oro della Resistenza), Greppi avrebbe portato sul quindicinale mazzolariano la voce del socialismo democratico instaurando un dialogo con i cattolici che, allora, anni Cinquanta del secolo scorso, era per la verità visto con sospetto, se non con avversione, sia dalla Chiesa e dalla Democrazia cristiana sia dai socialisti politicamente legati con il Partito comunista togliattiano. L’«Adesso» di questi uomini vedeva lontano.

Vaggi firmò come direttore il quindicinale a partire dal 1° dicembre 1950 sostituendo il dottor Paolo Piombini, ovvero padre Placido da Pavullo, che era stato tra i fondatori, ma il cui disordine amministrativo, e non solo, aveva provocato rapidamente una situazione insostenibile. Ho conosciuto Vaggi, che nonostante la differenza d’età mi ha poi onorato della sua amicizia, proprio al convegno delle «Avanguardie cristiane». Tre studenti di Bozzolo, il paese di cui Mazzolari era arciprete, si erano presi l’incarico di trascrivere la cronaca della giornata, e si alternarono a prendere appunti sulle loro sedie con carta e biro. Era una giornata convulsa e difficile perché arrivarono voci da ogni parte d’Italia e da ogni strato della società. Vaggi, magro, asciutto, con cappotto e scarpe pesanti, a noi fece l’impressione di un montanaro (in effetti, la montagna gli piaceva molto), solido, discreto, sempre attivo.

Si sa che Vaggi ha accompagnato «Adesso» e lo ha materialmente tenuto in piedi nei suoi anni forse più difficili, dal 1950 al 1959, quando, morto da poche settimane don Mazzolari, lasciò la direzione nelle mani di Mario Rossi. Ci mise anche dei soldi: «Non posso farmi un regalo di Natale?», mi disse un giorno, semiserio. Non stava mai fermo. Era uomo che sapeva sorridere, ma era severo anche con se stesso. La redazione del giornale, due persone in tutto, si riuniva, si fa per dire, ogni quindici giorni a casa sua, dove la moglie aspettava il terzo figlio. Vaggi, appena tornato da Bozzolo dove aveva passato la domenica a discutere con don Mazzolari, arrivava a Milano pieno di fogli e in poche ore, sul tavolo da pranzo, il giornale prendeva forma.

Oggi ci sono i computer, allora facevamo tutto con l’unico aiuto del regolo che lui teneva nel taschino della giacca. Il giorno dopo portava il materiale in tipografia e in quarantott’ore «Adesso», rilette tutte le bozze,  prendeva vita da una macchina piana, sotto gli occhi sempre più interessati di un paio di tipografi che, normalmente, stampavano solo carta da lettere, manifesti e opuscoli pubblicitari. Erano operai di estrema sinistra, ma ci erano diventati amici. Anche loro vivevano «Adesso». C’era un buon odore, in quella tipografia con una vecchia linotype e i caratteri a mano.

Vaggi abitava in centro, aveva l’ufficio nella zona nord della città e la tipografia era nella zona sud. I suoi operai lo avevano voluto anche presidente di quello che chiamavano il dopolavoro. A volte mi parlava della bocciofila. Vicino al suo ufficio c’era una sorta di magazzino dove mi presentò il giovane Ermanno Olmi, oggi famoso, che allora curava i cortometraggi della Edison. Le poche volte che non ho potuto andare io da Vaggi, arrivava lui in casa nostra discreto, ma come un turbine. Era tutto un gran daffare, non perdeva un’ora di tempo. Forse perché, come mi disse una volta, ne aveva perso troppo in Sardegna durante la guerra, dove era stato ufficiale di artiglieria. Al ritorno, si era sentito in dovere di recuperare.

Questi sono piccoli ricordi, solo per mettere a fuoco qualche istante di una vita o almeno degli anni in cui Giulio Vaggi diede tutto se stesso al «quindicinale di impegno cristiano», che impensieriva tanta gente più o meno perbene. Il 28 febbraio, però, è un altro giorno importante. Me ne sono ricordato tornando dal funerale. Dopo l’avventura delle «Avanguardie cristiane» che caricò di problemi Mazzolari, Vaggi e tutti i loro collaboratori e amici, laici e sacerdoti, l’arciprete di Bozzolo e «Adesso», già inquisiti per aver sostenuto l’appello dei partigiani della pace di Stoccolma (i tempi non cambiano: poiché aspiravano alla pace si scriveva che facevano il gioco dei comunisti), subirono un colpo durissimo. Il cardinale di Milano, Ildefonso Schuster, nelle sue funzioni di arcivescovo metropolita rese pubblica una nota in cui si proibiva ai sacerdoti di tutte le diocesi di collaborare al quindicinale. In pratica, di tutto il mondo.

Il 28 febbraio 1951, Giulio Vaggi indirizzò all’amico arciprete una lettera in cui tra l’altro si legge: «In queste condizioni il giornale non ha che un dovere: adempiere ai suoi impegni,

di fronte ai lettori: mantenendosi all’altezza dei princìpi e delle idee che ha così coraggiosamente e sfortunatamente difeso, fra essi quello della fedeltà alla Chiesa, incondizionata; di fronte a te: che del giornale sei lo spirito animatore, seguendo la tua sorte, senza giudicare se sia la più comoda o la più vantaggiosa; di fronte alla sua coscienza: il giornale che è una cosa viva, preferisce la libertà di tacere a quella di parlare con compromessi. Le lettere dei nostri lettori ne sono la spontanea testimonianza. Con questo numero sospendo la pubblicazione del giornale».

Quando il quindicinale riprese, proprio perché era una cosa viva e libera, Vaggi continuò il suo lavoro di direttore e di amico (anche essere amici è, in fondo, un lavoro, a volte molto gravoso) fino alla scomparsa di don Mazzolari. Ecco, in quel lunedì d’inverno e di sole, il funerale di un amico come Giulio Vaggi non mi è sembrato un addio, ma un festoso ritorno: di fronte a Mazzolari, di fronte agli amici, di fronte alla coscienza. Un ritorno al Padre, con la stessa fedeltà alla libertà e alla pace.