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La satira politica in televisione da Noschese a Grillo

  Can che abbaia non morda!

 

di Francesco Borzini

  “Nella tradizione popolare non si usa il riso come esercizio fine a se stesso. Il riso è una chiave filosofica di lettura del mondo. L’ironia è uno strumento  spietato per affinare l’analisi della realtà.” Queste parole del premio nobel Dario Fo, pubblicate sull’ultimo numero di Micromega, sembrano riassumere con lampante efficacia il mare di inchiostro versato, durante tutto il mese di marzo, sull’argomento divenuto d’un tratto rovente della satira.

Certo, non sempre chi fa satira, in TV o sui giornali, usa davvero quest’arma spietata, per affinare la proprie analisi della realtà e criticare, grazie ad essa, i mali della nostra società insieme agli errori e gli eccessi del potere (castiga, ridendo, mores!).

Più spesso, chi fa satira non usa il riso per criticare il “potere”, ma parla dei potenti al solo fine di suscitare il riso, così come potrebbe parlare dei carabinieri, facendosi beffa di loro, magari anche con un filo di acredine, ma in maniera sostanzialmente bonaria ed innocua: carri di Viareggio ambulanti, cagnolini che abbaiano molto, ma mordono poco o niente.

Tali sedicenti “satiri” si comportano un po’ come i giullari di corte o come quei romani che sussurravano all’orecchio dell’imperatore trionfante il loro memento mori! Dai potenti sono infatti tollerati di buon grado: la loro presenza fa tanto “democrazia” ed aiuta a far sfogare in una risata “liberatoria” la rabbia popolare.

Del resto, la bonaria caricatura del potente lo aiuta ad essere più vicino alla gente comune, più avvicinabile, più popolare: i politici degli anni’60 non facevano forse la fila per farsi imitare in TV dal pur bravo Noschese? “Bene o male, purché  se ne parli” è la legge aurea della TV, cui andrebbe aggiunto un secondo, fondamentale, comma: “Ma entro certi limiti da non oltrepassare”.

Fuori dai limiti di tale giullaresca tolleranza, escono spesso coloro che, invece, hanno una ben più alta idea di cosa significhi fare satira, nel loro usare non la politica “per far ridere”, ma la risata, o lo sghignazzo arlecchinesco, ai fini di criticare con veemenza il potere costituito. Quando poi tale critica non si limita allo sfogo di rabbia, ma cerca di essere il più possibile precisa e circostanziata, con la pretesa più che legittima di usare, insieme alla frusta dell’ironia (come diceva Puskin), il fioretto tagliente della ricerca  dettagliata nei contenuti, essa diventa intollerabile.

L’ostracismo da sempre applicato contro il Beppe Grillo dell’assalto all’arma bianca contro le grandi multinazionali o contro il Dario Fo della dettagliatissima analisi fatta sul caso Calabresi, sono un esempio lampante di come la satira sia accettata solo ove non pretenda di uscire dal suo recinto di bonari schiamazzi, per parlare con la lucidità  che solo l’ironia può offrire, di cose serie.

Del resto sembra proprio che il potere politico italiano non riesca a non considerarsi legibus solutus, incapace com’è di accettare l’esistenza di qualsiasi altro potere istituzionale (come la magistratura) o di fatto (come il giornalismo satirico e no), che pretenda legittimamente di controllare il suo operato.

Quando si parla di modello anglosassone, si dovrebbe pensare che il rigidissimo controllo dell’operato degli “uomini pubblici” è una delle colonne portanti della democrazia made in USA, in cui i politici considerano come  fastidioso, ma necessario, il  “fiato sul collo” dei giudici, dei giornalisti e, persino, dei comici più informati e caustici.

 

(da Adesso n.25, maggio 2001)